Gioventù, il futuro della Turchia
03.07.2008
scrive Fazıla Mat
www.patricklovephotography.com
Un recente rapporto dell’UNDP sulla gioventù turca, che prende in esame aspetti come l’istruzione, l’occupazione, la salute, con particolare attenzione alla fascia d’età che va dai 15 ai 24 anni, indica che i prossimi 15 anni saranno fondamentali per il futuro del paese
Dodici milioni sono i giovani della Turchia, su una popolazione di settantacinque milioni di abitanti. Una cifra che potrebbe diventare un prezioso fattore di cambiamento e sviluppo se sostenuto da una politica mirata che prenda in considerazione le diverse esigenze di tutti, a partire dai componenti più svantaggiati.
Secondo il rapporto presentato recentemente dall’UNDP, la Turchia sta attraversando un periodo di opportunità demografica, che si presenta una volta sola nella storia di un paese. Si tratta in pratica di una “transizione demografica” che vede calare la popolazione complessiva mentre cresce la popolazione in età di lavoro. Ma per realizzare appieno questa “opportunità” mancano solo 15 anni, e le cose da fare sono ancora molte.
In Turchia l’immagine del “giovane” tenderebbe a corrispondere ad uno stereotipo che lo identifica con una figura di studente-maschio. Eppure, secondo lo studio dell’UNDP, che si è concentrato su una fascia di età che va dai 15 ai 24 anni, gli studenti corrispondono solo al 30% del totale della popolazione giovanile, mentre un altro 30% è nella fascia dei lavoratori. E il restante 40%?
Ci sono almeno tre milioni di giovani “invisibili”: tra questi 2,2 milioni di donne che non lavorano e non studiano; circa 650.000 disabili; 300.000 hanno perso ogni speranza di trovare un lavoro e non lo cercano più; 22.000 coinvolti in delinquenze e numerosi ragazzi e bambini di strada che sono stati obbligati a fuggire di casa o che sono diventati vittime del traffico di persone.
In notevole posizione di svantaggio si trovano le ragazze e le giovani donne che spesso, anche per motivi di pressione sociale, oltre che per le difficoltà economiche, sono destinate ad una vita in funzione esclusivamente “domestica”. Infatti, quando le famiglie sono numerose e le risorse economiche sono scarse, la famiglia è di solito incline a investire il poco che ha nel futuro del figlio che è percepito come risorsa e sostegno alla vecchiaia dei genitori.
A livello di percentuali, nella scuola primaria (8 anni di scuola dell’obbligo dal 1997) il tasso di scolarizzazione femminile è inferiore di 5 punti rispetto a quello maschile (87% e 92%), mentre il divario nelle percentuali per la scuola secondaria si accentua ulteriormente (51% e 61%) riacquistando quasi la parità all’università (17% e 18%).
Se il tasso di scolarizzazione femminile è ancora troppo basso affinché le donne possano partecipare a pieno titolo in quel processo di sviluppo sostenibile auspicato nel rapporto, lo è anche quello complessivo. Infatti non è stato ancora raggiunto il 100% della scolarizzazione obbligatoria. Alcune regioni come quelle del sudest e nordest sono infatti particolarmente svantaggiate.
Si porta l’esempio di un maestro di Bitlis, nel sudest turco, che insegna quale unico insegnate della scuola elementare – rimasto ancora legato al piano quinquennale – e che deve riunire le 5 classi che gli spettano in un’unica aula. “A ciascuna classe spetterebbero 6 ore di insegnamento (in teoria) al giorno. Ma quello che faccio io è insegnare al primo anno nella prima ora, al secondo nella seconda e così via. In questo modo riesco a insegnare solo un’ora al giorno al primo anno con il risultato che i bambini di quella classe, alla fine dell’anno, non riescono a leggere e a scrivere in modo corretto. E io do le testate al muro…”.
Anche tra coloro che appartengono alla categoria degli studenti la prospettiva non è automaticamente migliore. Chi va al liceo e alla scuola professionale, al termine degli studi non ha le competenze richieste dai datori di lavoro, mettendo in risalto la preparazione generica e inadeguata offerta spesso dalle scuole. Ne è un sintomo anche il dilagante business delle dershane, corsi privati molto costosi che hanno la funzione di preparare i ragazzi all’esame di ammissione all’università, un megatest al quale nel 2007 hanno partecipato 1,6 milioni di studenti e che solo un quarto degli aspiranti è riuscito a superare. E se attualmente in Turchia si contano 93 università di cui 68 pubbliche e 25 private – e un’utenza di 2,5 milioni di giovani – non tutte garantiscono lo stesso livello di preparazione.
L’importanza che possono avere i giovani nel futuro del paese non sembra essere sufficientemente compresa né dalla società e nemmeno dai politici. Eppure, agli albori della Repubblica, ai giovani veniva attribuito il compito di costruire il nuovo Stato turco, e il suo fondatore Ataturk lo sottolineava nei suoi discorsi dedicando loro anche un giorno di festa (il 19 maggio); tra gli anni ’40 e ’50 venivano fondati gli “istituti di villaggio”, che vedevano impegnati i giovani a fare da insegnanti nei villaggi, per insegnare a leggere e scrivere ma anche a costruire edifici, scuole, a guidare, a combattere la malaria, a coltivare meglio la terra; anche la Costituzione del ’61 riconosceva loro una funzione positiva, e molte associazioni studentesche erano attive nelle aree rurali e in opere comunitarie nelle città.
Le polarizzazioni politiche degli anni ’70, poi culminate nel colpo di Stato dell’’80 e alla nuova Costituzione che ne è seguita, hanno invece inferto un duro colpo alla percezione che si ha dei giovani, creando un’immagine che tutt’oggi faticano a scrollarsi di dosso. I giovani, non più come pionieri e membri all’avanguardia della società, ma figure litigiose e pericolose.
Un tale accostamento, nel corso degli anni, ha portato sempre più alla loro depoliticizzazione. Allo stato attuale i giovani, che possono votare a 18 anni (dal 1995) e possono essere eletti al parlamento a 25 anni, sono fondamentalmente esclusi dalla scena politica: nel governo 2002-2007, su 550 parlamentari, quelli di età compresa tra i 30 e i 35 anni erano solo 35, mentre nelle ultime elezioni il numero è calato a 19. Si tratta quindi ancora di diritti che compaiono sulla carta, ma che hanno bisogno di essere messi in pratica con un solido sostegno da parte sia dei politici che della società civile.
Anche per lo statuto delle donne in politica si può fare un discorso analogo: le donne si sono viste concesso il diritto a partecipare alle elezioni e a candidarsi come deputate già nel 1935, senza tuttavia mai superare – semmai vedendo calare – il numero delle 18 deputate entrate in parlamento in quell’anno. Ma i diritti garantiti dalle leggi incontrano delle barriere costruite dalla società stessa. Come le difficoltà e gli impedimenti creati dalle famiglie per diverse ragazze nel frequentare luoghi come gli “internet café”, nei quali i coetanei maschi accedono senza problemi.
La testimonianza di una ragazza che per avere accesso non solo a questi punti di ritrovo, ma anche ad attività giovanili del suo municipio ha dovuto lottare con i pregiudizi e le resistenze della sua famiglia: “Mio padre è un despota che ha regole severe e non dice mai di ‘sì’ per qualcosa a cui ha detto prima ‘no’. Ma io mi sono sforzata. Ho cercato di spiegare loro quello che faccio. Per esempio, ho presentato i miei amici e addirittura le famiglie dei miei amici. Ora i miei genitori sono molto contenti quando un funzionario del Comune li ferma per strada e dice: ‘vostra figlia è molto in gamba e lavora molto’ e così non si intromettono più”. Sfortunatamente non tutte riescono a convincere i familiari e quando esprimono il desiderio di frequentare la scuola si sentono rispondere: “E cosa ci vai a fare a scuola?”.
La sfiducia della politica nei confronti dei giovani sembra ricambiata. Secondo il sondaggio condotto all’interno dello studio dell’UNDP, i giovani chiedono una politica “più affidabile”, “più trasparente”, “più onesta”, “più libera dai clientelismi” e “attenta ai principali problemi della gioventù, quali la disoccupazione e l’educazione”. L’opinione ricorrente sui politici è che sono persone “che proteggono solo se stessi e i loro parenti”, o “che non dicono la verità” o “che non fanno un granché per la gente”. Non a caso solo il 4,7% dei giovani è attivo in qualche partito politico e i tre quarti del restante 95,3% non considerano nemmeno l’ipotesi di far parte di un partito.
C’è però un ambito in cui i giovani si sentono “più utili” e in cui si vedono realizzati: è quello della società civile e delle associazioni di volontariato. Le ONG di cui, allo stato attuale, fa parte solo il 4% della popolazione giovanile, risultano essere un importante luogo di incontro per allargare i punti di vista, avvicinarsi ed acquistare tolleranza nei confronti di chi è diverso e anche per imparare, proprio grazie a questo avvicinamento, a rapportarsi meglio alle situazioni della vita.
Il rapporto conclude con delle raccomandazioni. Lo Stato, i comuni, le organizzazioni non-governative, e il settore privato dovrebbero contribuire a creare sempre più luoghi di attività sociale gratuita, aprendo diversi corsi per i giovani meno abbienti che necessitano maggiormente di tali attività. E poi bisognerebbe studiare il modo di pubblicizzarli meglio. Ottenere un risultato di partecipazione civile e politica dei ragazzi e delle ragazze è legato fortemente ad un tenace lavoro per acquisire il consenso dei genitori. Non di rado membri delle ONG che operano nelle zone dell’est e del sudest Anatolia si sono dovuti recare di casa in casa per convincere i genitori a includere i figli nel loro lavoro. Ma sembra che la fatica sia poi ripagata con il cambiamento che comportano le attività, non solo nei giovani che hanno partecipato, ma anche nel loro ambiente di appartenenza.