Dunque un uomo vecchio e solo, ridotto a vivere in un’anonima periferia metropolitana. Una maschera verso se stesso e il mondo, che lascia senza parole tanto risulta stridente il contrasto d’immagine fra questa vita e quella precedente. Il criminale e l’asceta possono essere benissimo la stessa persona, in fondo la banalità del male è anche questo.
Ma, ciò nonostante, per davvero – come afferma il dottor Dabić – la farsa sembra prevalere sulla realtà. E non convince.
In primo luogo perché accredita l’idea che quanto è accaduto in Bosnia Erzegovina negli anni ’90 sia stato il folle prodotto del nazionalismo, un generale impazzimento “tipicamente balcanico” che aveva in alcuni personaggi da baraccone i principali protagonisti. Una guerra etnica, profondamente arcaica, “perché lì è sempre stato così…” tanto che ora, passata la follia, lo psichiatra pazzo può persino mettere i panni del guru…
C’è però un piccolo particolare. Karadžić non era un pazzo nazionalista (o almeno non solo), era un “signore della guerra”, che è ben altra cosa. La differenza sono gli affari, i traffici criminali che riguardavano armi e droga come i prodotti sottoposti ad embargo o gli stessi aiuti internazionali che prima di arrivare alla gente di Sarajevo venivano spolpati appunto dai signori della guerra delle diverse fazioni. La pulizia etnica – non dovremmo mai dimenticarlo – è stata sì il tragico riapparire dei campi di concentramento nel cuore dell’Europa ma anche i conti correnti e i depositi bancari confiscati, le 500 mila case che prima di venir bruciate passavano attraverso il setaccio delle bande criminali (denaro e oggetti di valore…) e dell’industria del profitto di guerra (si faceva compravendita perfino dei mattoni), la distruzione dei catasti affinché alla scomparsa dei proprietari corrispondesse quella delle proprietà, la firma estorta nei campi di concentramento per la cessione dei beni ed altro ancora. L’odio etnico, che pure veniva cosparso a piene mani per giustificare una guerra di banditi, era il grande inganno.
Una guerra moderna, invece, dove si fingeva di combattere per i confini e si aprivano conti correnti miliardari a Cipro, per almeno un decennio la cassaforte della guerra di Bosnia. Dove si distruggevano i ponti e le biblioteche ma si lasciava intatto l’Holiday Inn affinché i media di tutto il mondo potessero descrivere questo tragico gioco. E poi… Moderni dopoguerra, dove quegli stessi signori, tolta la divisa, sono diventati uomini d’affari che, grazie al controllo politico e militare del territorio, non hanno esitato a trasformare vecchie miniere in discariche per lo stoccaggio dei rifiuti tossici, riciclando i profitti di guerra attraverso le case da gioco, i night club, i centri commerciali…
«Uno stato offshore» mi rispose il dottor Stakić, allora sindaco di Prijedor ed in seguito primo condannato all’ergastolo dal Tribunale de L’Aja, alla mia domanda sul futuro della “Republika Srpska” in quel marzo del ’96. Lui, che era semplicemente un potente signorotto locale della più ampia ragnatela di potere tessuta da Radovan Karadžić.
Una modernità con le sue gerarchie ma che sgocciolava interessi criminali diffusi, sempre a proposito di banalità del male. Che nel canto patriottico e nelle leggi del branco si autoassolveva, che nell’ostentazione dei simboli nazionalistici copriva lo stupro e quanto di peggio l’uomo sa dare di sé.
Radovan Karadžić in questa gerarchia era nella cupola di comando.
Un buffone, certo, che amava l’azzardo e la bella vita, poeta e incantatore di serpenti… Ma soprattutto uomo d’affari tanto da ritrovarlo con Slobodan Milosević e Željko Raznjatović (più tardi noto come Arkan) fra i soci della Dafiment, la società che nel 1990 (con la Karićbank) organizzò l’operazione “Prestiti alla Serbia”, un grande rastrellamento di valuta pregiata ad interessi particolarmente vantaggiosi alla quale corrispondeva la stampa su licenza governativa di enormi quantità di dinari in una spirale che aveva come obiettivo quello di mettere mano, prima ancora dei processi di privatizzazione, su quote significative dell’industria di stato.
Karadžić non era un intellettuale, né tanto meno un fanatico religioso, né un nazionalista, e nemmeno un dirigente politico. Come non lo era mai stato Milosević. Semplicemente dei criminali, che nella disintegrazione della Jugoslavia videro grandi opportunità di arricchimento e di potere. Che hanno usato con estrema spregiudicatezza ogni terreno, compresa la politica. «Passeremo alla storia come i più grandi statisti di tutti i tempi, o come i più grandi criminali» diceva Goebbels nel 1943.
Sicuramente affabili imbonitori, invece, capaci di interpretare le viscere e la fragile psicologia sociale del loro popolo. Che nelle loro apparizioni televisive – prima che scoppiasse l’inferno – suscitavano l’ilarità delle persone più istruite, quelle stesse che poi si sono trovate a dover bruciare i propri libri per potersi riscaldare in quella città, Sarajevo, che Karadžić odiava per la sua raffinata cultura e per il fatto che non l’aveva mai preso sul serio.
“Maschere”, per usare l’indovinata espressione di Paolo Rumiz, ma capaci di tenere in scacco il mondo intero per anni, le loro stupide diplomazie, e di giocare con i loro interessi fino a sancire con gli accordi di Dayton la loro vittoria, tanto che quella divisione della Bosnia Erzegovina continua a generare incubi ed instabilità.
Anche sulla sua latitanza c’è qualcosa da dire. In primo luogo non dovremmo dimenticare quanto ebbe ad affermare nel 2004 Graham Blewitt, allora vice di Carla Del Ponte: «Ci sono state occasioni per arrestare Karadžić, ma la SFOR [la forza internazionale presente in Bosnia Erzegovina, ndr] non lo ha fatto».
Che le sue dimissioni da presidente dell’entità serba di Bosnia fossero state concordate in un patto scellerato di impunità, è emerso più volte in questi anni e confermato dalla moglie Ljiljana Zelen Karadžić: «Durante il 1995 Radovan e Holbrooke fecero un accordo: che mio marito avrebbe rinunciato alle funzioni politiche nella Repubblica serba e si sarebbe ritirato dalla vita pubblica, politica e sociale, e che non avrebbe rilasciato nessuna dichiarazione ai media. In cambio gli Stati Uniti avrebbero fatto in modo di ritirare tutte le accuse contro di lui, creando le condizioni per assicurargli una normale vita professionale e famigliare. Tale accordo è stato verificato come un accordo ed esiste sotto forma di atto ufficiale nell'archivio della RS e degli USA».
Lo stesso negoziatore statunitense a Dayton, Richard Holbrooke, dichiarò al “Dnevni Avaz” di Sarajevo che «[…] Ci eravamo messi d'accordo che Karadžić sparisse, che si sarebbe nascosto per sempre. Vi ricordate che lui dovette rinunciare anche alla carica di presidente della RS e dell'SDS [Partito Democratico Serbo, ndr]» (Monitor, 11 febbraio 2005). Ne uscì un gran polverone ed arrivò una formale smentita, ma la cosa non fece che confermare quel che da più parti veniva ipotizzato.
Nessun mito di imprendibilità, dunque, ma ben più prosaici accordi, uomini e mezzi a disposizione ed un reale contesto di sostegno e protezione.
Non si rimane latitanti per tredici lunghissimi anni con un saio ed una barba. C’è voluto un netto cambio politico in Serbia prima che il dottor Dabić divenisse ingombrante e dunque scaricato. Tanto che la sua cattura è coincisa con il cambio della guardia alla testa dell'intelligence serba, la BIA (Agenzia di informazione e sicurezza) e la modifica della squadra preposta alla collaborazione con il Tribunale dell’Aja, alla localizzazione dei latitanti e al loro arresto.
Ora il dottor Dabić si è tagliato la barba e ha deciso come d’incanto di rimettere i panni dell’eroe nazionale. In Serbia come in Bosnia Erzegovina i partiti nazionalisti continuano ad avere forti consensi, un processo di elaborazione collettiva di quanto accaduto negli anni ’90 appare lontano, la gente chiusa nel proprio incubo e nel proprio dolore che con fatica cerca di mettersi alle spalle la tragedia di dieci anni fa.
Quella stessa elaborazione è mancata in questa nostra parte d’Europa. Della lezione balcanica non abbiamo capito un bel niente e continuiamo a leggere quel che accade di là dell’Adriatico con le lenti inservibili degli stereotipi e della superficialità, incapaci di cogliere riflessi ed interdipendenze. Tanto che il processo di integrazione europea non solo è di una lentezza estenuante e dagli effetti perversi (facendo di Schengen una gabbia intollerabile), ma sfuma nell’immaginario collettivo prima ancora che nell’arroccarsi delle cancellerie nazionali.
Qualcuno in questi giorni ha parlato della fine di un incubo. L’arresto di Karadžić è un atto di giustizia, ma per uscire dall’incubo serve ben altro. Ad esempio, quello di comprendere il tragico inganno degli anni ’90.
Altrimenti sarà davvero l’ennesima farsa.