Tutela e inclusione sociale nei Balcani Occidentali
21.04.2009
Proponiamo ai lettori di Osservatorio Balcani e Caucaso la traduzione dell'introduzione ad una ricerca sulla tutela sociale in Albania, Kosovo, Bosnia Erzegovina, Montenegro e Serbia realizzato per conto della Commissione Europea da un gruppo di ricercatori coordinati da Paul Stubbs
Report finanziato e preparato ad uso della Commissione Europea, Direzione Generale Occupazione, Affari Sociali e Pari Opportunità. Non rappresenta necessariamente la posizione ufficiale della Commissione.
Introduzione
Questo report esplora politiche di tutela e inclusione sociale nei Balcani occidentali, e in particolare: Albania, Bosnia Erzegovina, Kosovo sotto la risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (nel testo, “Kosovo”), Montenegro e Serbia. Il testo si basa su una serie di report indipendenti completati nell’agosto 2008, nonché su precedenti studi in Croazia e nell’ex repubblica jugoslava di Macedonia (d’ora in poi, “Macedonia”), stabilendo occasionalmente paragoni con gli Stati membri dell’Unione Europea, in particolare le vicine Slovenia, Bulgaria e Romania. Il report affronta tendenze chiave in ambito politico, economico e demografico: funzionamento di mercato del lavoro e istruzione; finanziamento, definizione dei requisiti d’idoneità e accesso alle forme di tutela; standard generali di vita e gruppi a rischio di povertà ed esclusione; accesso a pensioni e assistenza sanitaria e di lungo periodo. Si esplorano qui disparità e discriminazioni sulla base di fattori di genere, età, disabilità, etnia, orientamento sessuale e collocazione geografica, identificando futuri obiettivi di modernizzazione del welfare e promozione dell’inclusione sociale nel quadro degli obiettivi aggiornati di Inclusione Sociale dell’Unione Europea.
Tendenze in ambito economico, demografico, lavorativo e formativo
La regione nel suo complesso, in particolare le repubbliche ex-jugoslave, dispone di una forte eredità di sviluppo e di solide infrastrutture e pratiche di tutela sociale. Tuttavia, in gran parte della regione, la combinazione di conflitti, instabilità e transizione ha destabilizzato le istituzioni e creato significative lacune di governance. Parti della regione presentano strutture estremamente complesse e contestate, con Stato centrale, entità sotto-statali e organizzazioni sovranazionali a contendersi l’autorità, e una sovranità tutt’altro che chiara nel contesto di dispute territoriali, aspirazioni nazionali in competizione e presenza di minoranze di confine. La possibilità di adesione all’Unione Europea per i potenziali paesi candidati è condizionata alla prontezza ad ottemperare alle necessarie condizioni, e la lentezza dei progressi sotto questo aspetto è un dato ampiamente riconosciuto. Gran parte della regione si trova in una situazione di arretratezza rispetto ai nuovi Stati membri e paesi candidati in termini di efficacia di governo, rispetto della legalità e controllo della corruzione. L’accumulazione di problemi di governance ha eroso la capacità delle agenzie statali centrali e locali – e relativi partner – di assicurare un accesso equo e ragionevole ai diritti sociali.
In termini di performance economica, è da notare che tutti gli studi sono stati completati prima dell’insorgere della crisi globale che limiterà in modo significativo – per quanto eterogeneo – la crescita economica nella regione, e potrebbe anche minare la ripresa avvenuta negli ultimi anni, poiché gran parte dell’area ha elevato debito esterno e pressione inflazionaria in ascesa. Le strutture economiche si differenziano da quelle UE in termini di una maggiore – seppur in declino – proporzione di valore aggiunto da agricoltura, silvicoltura e pesca, che spazia dal 10% della Bosnia Erzegovina al 21% dell’Albania.
La recente crescita non si è tradotta in una significativa creazione di occupazione; gli indicatori del mercato del lavoro vanno tuttavia trattati con cautela, vista l’ampia estensione delle economie informali e la forte emigrazione. Nel complesso, i livelli occupazionali sono in stagnazione a una soglia ben inferiore alla media UE, con bassi tassi di occupazione per la popolazione femminile e le fasce d’età 15-24 e 55-64, elevata disoccupazione – in larga parte a lungo termine, e crescita del lavoro precario. Le tradizionali fonti statistiche faticano a quantificare l’oscillazione fra diversi status occupazionali: il quadro che ne emerge mostra bassi livelli di costanza occupazionale, con una mera minoranza della popolazione regolarmente impiegata in un lavoro non precario. Ristrutturazioni incomplete o inorganiche hanno creato una moltiplicazione dei mercati del lavoro e sclerotizzato i disincentivi alla mobilità fra gli stessi. Alla de-industrializzazione si affianca una mancanza di progressi nella ristrutturazione di alcune imprese statali, nonché l’espansione di settori economici poco qualificati e a basso valore aggiunto. Il costo del lavoro mensile ammonta a una media non pesata di circa € 436, con salari minimi garantiti compresi fra il 20% e il 55% del salario netto medio. I più recenti dati Eurostat (2006) sui tassi complessivi di occupazione per la popolazione in età lavorativa vedono la regione ben al di sotto del 64.4% dei 27 paesi UE, e nello specifico: Serbia 49.9%, Albania (2005) 49.7%; Macedonia 39.6%, Bosnia Erzegovina 35.0%, Montenegro (2005) 34.8% e Kosovo 28.7%. Emergono alcuni miglioramenti nel tasso complessivo di occupazione per la fascia d’età 55-64, sempre inferiore alla media UE 2006 del 43.5%: Croazia 34.3%, Macedonia 27.9%, Bosnia Erzegovina 30.6%, Serbia 32.6% e Kosovo (2005) 25.2%. Le stime del livello di informalità e relativo contributo al PIL variano enormemente: un recente report suggerisce che l’economia informale conti per il 76% dell’occupazione complessiva in Albania, rispetto al 43% della Serbia, al 42% della Bosnia- Herzegovina e al 27% del Montenegro.
L’intera regione è caratterizzata da alti tassi di dipendenza e – fatta eccezione per Albania e Kosovo– dall’invecchiamento delle popolazioni, nonché da larghe fasce rurali, nonostante l’urbanizzazione in crescita degli ultimi anni. In base ai dati della Divisione Popolazione delle Nazioni Unite e alla variabile media per il 2006, solo per l’Albania si prevede un aumento della popolazione nel 2050 rispetto al 2010, mentre per la Bosnia Erzegovina si pronostica un calo del 20% circa. Alla “vecchia” migrazione, precedente la transizione, si aggiunge una vasta migrazione forzata legata ai conflitti bellici e a nuove, significative tendenze migratorie: la “fuga dei cervelli” si manifesta nell’oltre 20% della popolazione con istruzione universitaria in migrazione da Bosnia Erzegovina e Albania. I dati sulle rimesse variano considerevolmente: per il 2006 la Banca Mondiale fissa le rimesse in entrata al 16.5% del PIL in Bosnia Erzegovina, 14.6% in Albania e 13.8% in Serbia e Montenegro (Kosovo compreso), collocando tutti questi paesi nei 20 maggiori destinatari a livello globale. Comprendendo la Macedonia, i dati dell’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite al primo luglio 2008 indicavano mezzo milione di rifugiati e profughi nei Balcani occidentali.
Il secondo dopoguerra aveva segnato un buono sviluppo dell’istruzione, con obbligo scolastico dai 6/7 ai 14/15 anni d’età e ampia disponibilità di servizi pre-scolastici, spesso collegati al posto di lavoro. Negli anni Novanta, sistemi che richiedevano modernizzazione si scontrarono invece con un decennio di cronica carenza di investimenti, con conseguente calo degli standard educativi, aumento delle disparità di accesso e relativa erosione dello stesso, fino ad allora quasi universale. Con l’aumento dei conflitti etno- nazionalistici, l’istruzione è diventata in alcune aree un campo di battaglia ideologico, con barriere di accesso e risultati per alcune minoranze e altri gruppi vulnerabili. La frequenza pre-scolastica è generalmente limitata, soprattutto nelle zone rurali. Se i tassi di frequenza nella scuola dell’obbligo rimangono alti, eccetto per la popolazione Rom, l’abbandono a 15 anni è significativo, con frequenza nella fascia d’età 15-18 sotto il 50% in tutta la regione e al 15% in Bosnia Erzegovina; anche nell’istruzione secondaria sussistono notevoli disparità fra aree urbane e rurali e in relazione al reddito genitoriale. Tutti i report di questa ricerca evidenziano problemi in termini di infrastrutture, motivazione della classe docente e alti tassi di ricambio, nonché la necessità di istituire due o tre turni di lezione in alcuni centri urbani; in Bosnia Erzegovina si sottolinea il problema della segregazione scolastica su base etnica.
Per quanto riguarda le popolazioni vulnerabili “etnicizzate”, sussistono problemi di definizione, strumenti di valutazione e stime numeriche, nonché di status giuridico- costituzionale dei diversi gruppi nei diversi paesi. La situazione politica di tali gruppi rimane problematica in gran parte della regione, al pari dell’accesso all’istruzione e al mercato del lavoro. Povertà, disoccupazione a lungo termine, segregazione sociale e geografica, marginalizzazione politica e sociale affliggono tutti questi gruppi, pur con intensità variabile. Istruzione e formazione rappresentano una sfida cruciale per la sostenibilità e l’efficacia inclusiva delle politiche sociali nei territori multi-etnici dei Balcani occidentali. I report ETF (European Training Foundation)hanno identificato una serie di tematiche comuni all’intera regione: carenza di istruzione pre-scolastica, programmi controversi o distorti, scarsa implementazione del diritto all’istruzione nella propria lingua madre, segregazione scolastica, stereotipi culturali nella formazione professionale e mancanza di insegnanti/tutor appartenenti alle minoranze.
In tema di genere, persistono disparità in termini di retribuzione, trattamento e condizioni di lavoro, nonché di diritti per lavoratrici in gravidanza e al ritorno dalla maternità. Emergono una crescente femminilizzazione della povertà e della disoccupazione, aumento dei nuclei familiari con capo-famiglia donna, riduzione dei diritti riproduttivi, appesantimento del “doppio ruolo” di lavoro e cura a fronte del collasso delle strutture formali di sostegno, aumento della violenza di genere.
Sistemi di tutela sociale
Con l’eccezione dell’Albania, la regione presenta un’eredità di solidi sistemi di tutela sociale su base assicurativa, coadiuvati dai Centri per il Lavoro Sociale istituiti nei primi anni Sessanta e gestiti da operatori con formazione universitaria. Gli attuali sistemi di tutela riflettono ancora questo passato, pur nel considerevole variare del finanziamento e funzionamento dei Centri, nonché nell’erosione dei benefici legata ai conflitti e ai traumi economici – essendo i sistemi su base assicurativa vulnerabili dai bassi livelli di occupazione formale. Riforme non sempre strategiche e una pluralità di attori interni ed esterni hanno moltiplicato i modelli strutturali, e le recenti strategie caratterizzate da maggiore integrazione non sono state pienamente implementate, con strumenti di monitoraggio e valutazione ancora deboli.
Determinare i livelli amministrativi appropriati per l’erogazione dei servizi sociali è un compito complesso: il sistema della Bosnia Erzegovina è troppo decentralizzato, con uno Stato centrale praticamente assente, mentre altri presentano ancora un’eccessiva centralizzazione. Laddove si comincia a programmare una decentralizzazione, manca una piena elaborazione delle problematiche di equità, competenze ed economie locali, nonché un’adeguata pianificazione locale e regionale, meglio definibile come un processo inclusivo che coinvolga tutti gli attori locali, individui bisogni e risorse, pianifichi la soluzione locale di problemi locali, commissioni servizi specifici e monitori regolarmente i risultati. Analogamente limitato è lo sviluppo di un welfare mix che comprenda una gamma di attori non statali; il finanziamento delle ONG locali rimane sporadico e non foriero di sostenibilità a lungo termine.
Natura, definizione dei requisiti di idoneità e generosità dei sussidi economici sono eterogenee: in generale, tutti i paesi hanno un sistema basato sulla valutazione di reddito e patrimonio; la maggior parte delle misure si applica solo in presenza di inabilità al lavoro o prole a carico. Non esistono sussidi per i figli a carico in Albania, Kosovo e parti della Bosnia Erzegovina; altrove, gli schemi sono passati da universali a basati sul reddito, di solito con sussidi maggiori per le famiglie con uno o più figli disabili. Se in tutta la regione (eccetto il Kosovo) esistono sussidi di disoccupazione, la natura dei requisiti fa sì che ne possa beneficiare solo una piccola parte dei disoccupati – con l’eccezione della Serbia – e solo per un determinato periodo, con limitata efficacia nell’alleviare la povertà e ammortizzare il trauma economico della disoccupazione. Alcuni schemi, soprattutto in Montenegro, cercano di ammortizzare gli esuberi dei lavoratori più anziani prevedendo per loro periodi più lunghi di accesso ai sussidi. Considerevole è la variabilità della relazione fra reddito e benefici, nonché il rapporto fra entità del sussidio, periodo e contribuzione per i benefici su base assicurativa. Alcuni sussidi sono di natura ibrida e combinano elementi assicurativi, categorici e di reddito.
Se i servizi sociali sono ben sviluppati, non altrettanto lo sono i collegamenti con i servizi sanitari, educativi e per l’infanzia. In materia di infanzia e disabilità, si pone un’enfasi eccessiva sull’assistenza in istituzioni residenziali a spese dei servizi di comunità. Pur senza raggiungere le proporzioni critiche di Romania e Bulgaria, la regione – con la parziale eccezione di Albania e Kosovo – presenta alte percentuali di bambini, compresi quelli di età inferiore ai 3 anni, in assistenza residenziale. Le riforme in corso si sono finora concentrate su interventi di piccolo raggio a livello istituzionale anziché su un approccio sistemico a più livelli, mirato a ridurre gli ingressi e abbreviare le permanenze.
I servizi per bambini e adulti disabili si inquadrano in un passato caratterizzato da scarsi finanziamenti combinati con un approccio sovra- medicalizzato e conseguente eccesso di persone ospedalizzate in assistenza residenziale o isolate in ambienti familiari privi di sostegno sociale. Lo Stato sociale non è ancora un’istituzione finalizzata a favorire l’accesso agli appropriati servizi educativi e sanitari, nonché – soprattutto – a un mercato del lavoro non segnato da discriminazioni e barriere. L’istruzione per i bambini disabili non è ben integrata con il resto del sistema: l’unico supporto formativo in questo senso è offerto dai collegi residenziali classificati per categorie cliniche, così che un bambino con difetti visivi potrebbe trovare l’unica scuola adatta molto lontano dal luogo di residenza della famiglia. In generale, i benefici sono basati su categorizzazioni mediche di tipo ed entità del problema, e si orientano ad alleviare il disagio piuttosto che a supportare l’ingresso nel sistema educativo e/o nel mercato del lavoro.
Oltre che fra i destinatari di assistenza sociale, la popolazione Rom è sovra- rappresentata in relazione agli aspetti punitivi del sistema, in particolare alla presenza nelle istituzioni giovanili di contenimento. Privazioni e discriminazioni tendono a rafforzarsi reciprocamente in termini di accesso a cittadinanza, istruzione, occupazione, salute e sicurezza, con effetti negativi sul rischio di povertà ed esclusione. I report mostrano anche le difficoltà che i cittadini Rom più istruiti incontrano nel trovare lavoro, così che l’incidenza positiva di un superiore livello di istruzione sulle prospettive occupazionali è inferiore per la popolazione Rom, soprattutto quella femminile, rispetto al resto dei cittadini. Altre minoranze comprendono quelle linguistiche e di confine, potenziali oggetti di interesse di paesi o territori vicini. Questa situazione raggiunge l’apice della complessità in Bosnia Erzegovina, dove l’intera struttura amministrativa è implicitamente, quando non esplicitamente, etnicizzata. In Kosovo, emerge l’esistenza di istituzioni parallele per le minoranze insieme al tentativo di decentralizzare ulteriormente i servizi. La mancanza di fiducia fra minoranze e istituzioni pubbliche è evidenziata dalla carenza, se non mancanza, di sistemi concordati di monitoraggio etnico- occupazionale.
A fronte di crisi economiche, conflitti e bassi livelli di contribuzione, la spesa sociale si è scontrata con immensi problemi e carenze. Per quanto difficile sia determinare con precisione le tendenze, la natura contributiva dei benefici pone una forte pressione sui programmi sociali finanziati dal budget statale. Analogamente, in parte per ragioni politiche, i programmi sociali non sono orientati solo alle categorie a rischio di povertà ed esclusione, ma anche a gruppi di interesse, soprattutto veterani, che hanno “fagocitato” alcuni segmenti delle politiche sociali. Per chiudere il cerchio, a volte le istituzioni finanziarie internazionali, alla ricerca di riduzioni nella spesa pubblica, consigliano di tagliare proprio i programmi destinati alle categorie povere e vulnerabili, sostenendone la non completa adeguatezza; in una situazione con pochi incentivi a sviluppare programmi più efficaci, tali distorsioni si traducono nell’erosione del welfare. Un aspetto raramente evidenziato è la riduzione degli schemi contributivi non pensionistici, soprattutto i sussidi di disoccupazione; si tendono a privilegiare benefici condizionati al reddito anziché universali, con l’effetto di considerevoli variazioni di copertura e ammontare. L’assistenza, generalmente amministrata dagli operatori dei Centri per il Lavoro Sociale o da funzionari locali, mostra scarsa efficacia nell’alleviamento della povertà, con limitata copertura, bassi sussidi e alcuni errori di inclusione ed esclusione.
Povertà ed esclusione sociale
Nonostante la ricerca sul tema sia ben sviluppata, non c’è un consenso unanime sul modo migliore di misurare la povertà, così che le soglie che vorrebbero riflettere la “povertà assoluta” si basano su metodologie e campioni eterogenei. Alcuni studi comparativi meno recenti utilizzano soglie di povertà PPP (Purchasing Power Parity) fissate all’equivalente di 2.15 e 4.30 USD al giorno. Rispetto ad altre sotto-regioni, il sud-est Europa (comprese Croazia, Bulgaria e Romania) presenta livelli moderati di vulnerabilità economica, la cui riduzione richiederebbe una crescita significativa. Complessa è la relazione fra povertà, esclusione sociale e privazioni multiple, con una serie di fattori di svantaggio che comprende disabilità, età (sia per l’infanzia/giovinezza che per l’anzianità), genere, HIV/AIDS, etnia o status di rifugiati/profughi, esclusione geografica (specialmente per chi vive in remote aree rurali), disoccupazione, basso livello di istruzione e partecipazione all’economia informale.
L’Albania ha visto una riduzione nelle stime di povertà, con maggiore riduzione della povertà rurale rispetto a quella urbana. Tuttavia, ruralità, povertà, genere ed età sembrano rimanere fattori chiave di esclusione sociale. Le stime sono diminuite anche in Bosnia Erzegovina, dove persistono tuttavia alti livelli di esclusione e discriminazione. In Montenegro, la povertà sembra concentrarsi nelle aree rurali e settentrionali. Alcune micro- indagini hanno identificato come ad alto rischio la popolazione Rom, rifugiata e disabile, nonché quella infantile e anziana, le famiglie numerose, i disoccupati e le persone con basso livello d’istruzione. La Serbia ha mostrato negli ultimi anni la maggiore riduzione della povertà assoluta, che si concentra fra le aree rurali – specialmente il sud-est, le fasce meno istruite, i disoccupati e gli anziani, con rischio significativamente più alto per nuclei familiari con due o più bambini sotto i sei anni, famiglie numerose con sei o più membri e, a differenza del 2002, adolescenti sopra i 14 anni. Il Kosovo mostra elevate livelli di povertà anche estrema, in particolare per famiglie numerose, con membri a carico, capifamiglia donne o poco istruiti; il rischio è alto anche per i bambini. Molti indicatori non-materiali evidenziano un considerevole dislivello fra nuclei urbani e rurali, addirittura maggiore di quello fra poveri e non.
Per quanto riguarda le fasce vulnerabili, gli studi evidenziano alcuni comuni fattori di rischio: disoccupazione, basso livello di istruzione, appartenenza a famiglie numerose, essere single, disabilità, appartenenza a minoranze. Gli obiettivi chiave da perseguire comprendono il miglioramento degli strumenti di misurazione della povertà e in particolare l’allineamento fra i sistemi nazionali di monitoraggio e la best practice europea. Se i livelli di povertà misurati secondo le soglie assolute sembrano essere scesi, questo calo si manifesta in modo eterogeneo, e comunque più lento di quanto la crescita economica potrebbe suggerire. Inoltre, disparità regionali e basate su dimensione del nucleo familiare, etnia e disabilità si sono anzi accentuate; gli indicatori non-monetari cominciano a delineare un quadro più complesso, con particolari difficoltà per le aree rurali e le “nuove” periferie urbane.
Se sono state progettate alcune strategie di lotta alla povertà, la loro implementazione è stata finora piuttosto improvvisata, e gli strumenti di monitoraggio e valutazione sono ancora da mettere a punto. Si intravede un passaggio graduale da misure di alleviamento a strategie più complesse e organiche, ma talvolta troppo generiche. Inoltre, il loro livello di padronanza governativa non è sempre adeguato, con significative lacune in termini di monitoraggio e valutazione.
Sistemi pensionistici
La regione ha una lunga tradizione di sistemi pensionistici, generalmente di carattere bismarckiano, anche se talvolta limitati ad alcune categorie di lavoratori. Gli schemi per i lavoratori agricoli sono meno sviluppati o separati da quelli per i lavoratori industriali e gli impiegati statali. La Serbia ha tre sistemi contributivi: per i lavoratori agricoli, per gli altri dipendenti, e per i lavoratori autonomi. Una serie di riforme sono state tentate o in corso, ad esempio l’innalzamento dell’età pensionabile: in gran parte della regione, questa corrisponde a 65 anni per gli uomini e 60 per le donne; la Serbia si adeguerà dal 2011 e il Montenegro dal 2012. I meccanismi di calcolo sono stati modificati, generalmente orientandosi al calcolo sulla base dell’intera vita lavorativa invece che sul periodo di migliore retribuzione. Solo il Kosovo ha una “pensione sociale” di base per tutti i cittadini sopra i 65 anni; recenti modifiche hanno introdotto una pensione supplementare a tutti coloro che possano dimostrare almeno 15 anni di contributi, e un nuovo sistema assicurativo obbligatorio per le future generazioni.
Nonostante l’introduzione o la programmazione di schemi pensionistici privati, il loro impatto è variabile, e la loro efficacia a lungo termine ancora da valutare. Serbia e Albania hanno pensioni integrative facoltative, e anche in Kosovo ne esistono le basi normative; non è così, al momento, in Bosnia Erzegovina, mentre in Montenegro sono a buon punto i piani per l’introduzione di pensioni private sia obbligatorie che facoltative. In alcuni casi, questi fondi potrebbero avere elevate costi di transizione, minare le fondamenta del sistema contributivo e, in ogni caso, non presentare particolare utilità nella lotta alla povertà e all’esclusione sociale per i pensionati. Esistono anche consistenti pensioni di invalidità, solitamente vincolate alla valutazione da parte di una commissione medica dell’entità del disagio e dell’inabilità al lavoro, nonché pensioni di reversibilità per i familiari dei deceduti.
Esistono preoccupazioni per il vasto – per quanto difficile da calcolare con precisione – numero di anziani che non ricevono alcuna pensione, in particolare lavoratori agricoli e donne. I due indicatori chiave dell’adeguatezza della pensione sono tasso di sostituzione (rapporto fra salario medio e pensione media) e ammontare della pensione minima. Il primo è variabile: più alto – sebbene in calo – in Serbia e Montenegro che in Albania e Bosnia Erzegovina, dove è circa del 40%; basso per lavoratori agricoli e in Kosovo. Il profilo degli anziani senza pensione o con pensioni irrisorie è comune a tutta la regione: si tratta di lavoratori agricoli, con scarsa storia contributiva, impegnati nell’agricoltura di sussistenza e con bassi salari. Un “nuovo” gruppo a rischio è rappresentato dai lavoratori autonomi con redditi e contributi saltuari: se la Serbia ha un sistema specifico, altrove è molto difficile recuperare i contributi mancati. I lavoratori industriali con salari bassi e/o saltuari sono un terzo gruppo a rischio; un quarto è costituito dalla popolazione Rom, dato il basso livello di contribuzione – tuttavia, non ci sono studi rigorosi in merito. Pochi i dati anche sul flusso di pensioni dall’estero, fattore di ulteriore complicazione in termini di copertura e adeguatezza pensionistica.
La sostenibilità del sistema pensionistico è minata da una serie di fattori: il deterioramento dei tassi complessivi di contribuzione legato all’invecchiamento demografico e al rapporto fra la popolazione in età pensionabile e quella in età lavorativa, la diminuzione dell’occupazione formale e i bassi salari integrati in nero per evitare il pagamento di contributi. Si presenta quindi un dilemma: diminuzione dei tassi di contribuzione per incoraggiare l’osservanza delle norme o loro innalzamento per massimizzare la raccolta dagli attuali contribuenti?
Sistemi sanitari e assistenza di lungo periodo
Se la regione presenta in media buoni indicatori sanitari, negli anni Novanta i progressi su questo fronte si sono interrotti o sono regrediti a causa di crisi economica, transizione e migrazione forzata, e alcune malattie e questioni di salute pubblica che sembravano consegnate alla storia sono riapparse insieme a nuovi problemi. Alcune agenzie internazionali hanno trovato maggiori livelli di mortalità infantile rispetto alle stime ufficiali, nonché una percentuale di bambini sottopeso e rachitici, soprattutto in Albania, Bosnia Erzegovina e Kosovo. I tassi di vaccinazione, pur tendenzialmente elevati, sono tutt’altro che universali, in particolare in Albania, con differenze socio-economiche e geografiche. I dati presentano serie lacune riguardo alle minoranze, in particolare quella Rom.
Tradizionalmente, il sistema si basa sull’assicurazione sanitaria, con l’eccezione dell’Albania, dove il sistema assicurativo è limitato, e del Kosovo, che sta pensando di introdurlo. La copertura è particolarmente bassa in Bosnia Erzegovina, nonché problematica in quanto non trasferibile da un’entità territoriale all’altra, e nemmeno fra un cantone e l’altro. Nonostante la natura formalmente universale del sistema, ci sono considerevoli segmenti di popolazione privi di copertura, in particolare in Albania e Bosnia Erzegovina. È necessario comunque distinguere fra copertura formale ed effettiva, specialmente in caso di contribuzioni irregolari da parte del datore di lavoro. I gruppi a rischio comprendono la popolazione Rom, quella rurale e quella impiegata nell’economia informale, nonché i rifugiati.
I sistemi sanitari sono ancora sovra-medicalizzati e prestano poca attenzione all’assistenza di base; inoltre, i moderni sistemi di gestione e finanziamento, come l’autonomia gestionale e l’introduzione dei medici di famiglia, non sono ancora pienamente istituzionalizzati. È in corso un processo di diversificazione che vede lo sviluppo del settore privato e dei legami dello stesso con quello pubblico. I problemi principali risiedono nell’insufficienza delle risorse, nella sovra- specializzazione e nell’eccessiva enfasi sull’ospedalizzazione. I nuovi meccanismi di finanziamento hanno aggravato le disparità tanto regionali quanto socio-economiche; in termini di risorse umane, la regolamentazione di domanda e offerta è ancora problematica, non ultimo a causa degli alti livelli di emigrazione della classe medica. Il numero di medici per ogni 100.000 abitanti è cronicamente basso in Bosnia Erzegovina (140), Kosovo (139) e Albania (118) (SEEHN, 2006; 51), ben al di sotto della media UE-15 di 725. Il flusso migratorio di medici e infermieri specializzati è probabilmente maggiore in Albania, ma comunque presente in tutta la regione.
Mancano politiche sistematiche di assistenza di lungo periodo e un coordinamento fra i servizi considerati sanitari e quelli interpretati come sociali, nonché il raggiungimento di equilibrio e complementarietà fra assistenza familiare, comunitaria e residenziale. Inoltre, le tendenze economiche e demografiche potrebbero erodere la tradizionale funzione di assistenza della famiglia allargata, nonché la capacità della medesima di prendersi cura dei membri anziani o disabili.
Insufficiente l’attenzione alle problematiche di accesso, equità e qualità del servizio, anche se dati recenti suggeriscono seri problemi di accesso per alcuni gruppi. Alle nuove tariffe formali si affiancano pagamenti in nero, e nonostante i gruppi svantaggiati siano spesso esentati dalle prime, hanno limitato accesso all’assistenza per alcune malattie croniche. Le minoranze Rom, ma non solo, incontrano ostacoli nell’accesso ai servizi appropriati, ed emergono crescenti disparità legate a reddito e posizione geografica, con carenza di servizi nelle zone rurali.
Le pressioni sul sistema sanitario e i fattori di cambiamento sono piuttosto comuni in tutta la regione. Nel complesso, le riforme sanitarie sono state frammentarie, dagli effetti limitati e talvolta dalle conseguenze impreviste. Gli interventi dei donatori internazionali, pur non sempre ben coordinati e in calo in termini finanziari assoluti, hanno dato un supporto significativo alle riforme; tuttavia, l’agenda strategica complessiva è stata talvolta “scavalcata” dagli interventi più direttamente umanitari e dal finanziamento di progetti. In generale, sistemi sanitari in passato ben sviluppati sono stati erosi dal declino nei finanziamenti, nelle infrastrutture e nel morale delle risorse umane. Congiuntamente, le aspettative del pubblico sono cresciute, anche a causa delle possibilità di progresso tecnologico. Poiché una considerevole porzione della spesa pubblica è legata a infrastrutture e tecnologie ospedaliere, lo spazio di manovra è limitato, non ultimo data la diffusa influenza politica della classe medica. Nel complesso, si è verificato un notevole trasferimento di carico di spesa dal settore pubblico a famiglie e individui, attraverso meccanismi formali di partecipazione, pagamenti informali e necessità di acquistare servizi e medicine sul mercato, con gravi effetti di disparità di accesso.
Obiettivi chiave
Crescita economica, occupazione e miglioramento dei servizi educativi sono fattori di immensa importanza nella lotta all’esclusione sociale, così come l’incanalamento delle rimesse nello sviluppo socio-economico, il supporto all’ingresso nell’occupazione formale per i migranti di ritorno e la formalizzazione di alcuni aspetti dell’economia informale. I servizi sociali necessitano di migliore coordinamento, con maggiore enfasi sui servizi di comunità, sulla combinazione di fornitori e sui collegamenti con i sostegni all’occupazione. Altri fattori che potrebbero fare la differenza comprendono: servizi adeguati per la famiglia e l’infanzia, un pacchetto minimo di servizi gratuiti e garantiti per i disabili, massimizzazione delle misure di alleviamento della povertà e coordinamento degli sforzi mirati a mitigare l’impatto dell’attuale crisi economico-finanziaria sulle fasce più vulnerabili della popolazione.
Andrebbe poi esplorata la fattibilità della creazione di una pensione minima sociale per gli anziani privi di contributi sufficienti a ottenere la pensione di anzianità, nonché il miglioramento dell’accesso alla pensione per i lavoratori agricoli (compresi quelli di sussistenza), Rom, rifugiati e disabili. L’assistenza sanitaria richiede espansione dei servizi di educazione e prevenzione, introduzione di meccanismi di monitoraggio degli effetti delle riforme sui nuclei familiari poveri, accesso universale ai servizi sanitari e studio di meccanismi che proteggano i nuclei vulnerabili dalla povertà indotta dal costo della salute, attraverso consistenti esenzioni dalla partecipazione formale alla spesa e l’eliminazione dei pagamenti in nero.
Le comunità Rom presentano tratti di vulnerabilità che richiedono politiche mirate che tengano conto delle specificità di ogni comunità. Alcune priorità comuni comprendono tuttavia azioni a lungo termine sull’istruzione, miglioramento dei piani d'azione per il decennio per l'integrazione Rom, empowerment femminile e approcci innovativi al miglioramento dell’occupazione formale.
Alcune questioni cruciali: necessità di una strategia unitaria che incorpori le sotto- strategie pertinenti, con un’agenzia leader e un sistema di monitoraggio e valutazione, coinvolgimento di tutti gli attori e maggiore coordinamento. Inoltre, l’esplorazione della possibilità di introdurre strategie locali chiaramente integrate nelle aree di maggiori e multiple privazioni, con sistematica e costante valutazione degli effetti, potrebbe costituire un significativo passo per la prioritizzazione di norme e pratiche contro la discriminazione. Inclusione e coesione sociale vanno strettamente collegate alle tematiche di riconciliazione.
Un ampio approccio regionale potrebbe favorire la condivisione di best practice e contribuire ai processi di riconciliazione. Raggruppamenti regionali di paesi che condividono tradizioni, eredità e percorsi di sviluppo potrebbero cooperare in termini non solo di questioni transfrontaliere ma anche di più ampie concezioni di diritti e responsabilità. Governi e altri attori nazionali sono coinvolti in diversi processi di cooperazione attraverso il Consiglio Regionale di Cooperazione, la partecipazione a network regionali e i processi di accesso e associazione al Consiglio d’Europa e all’Unione Europea. La cornice UE potrebbe costituire un fulcro e un punto d’incontro per diverse iniziative e il convogliamento dell’assistenza internazionale in termini di obiettivi di inclusione sociale.
Traduzione a cura di Irene Dioli, Osservatorio Balcani e Caucaso