Evet
10.04.2009
scrive Fazıla Mat
Obama con Erdogan nella Moschea Blu
L'entusiasmo della Turchia per la visita di Obama. Il messaggio del presidente statunitense al mondo musulmano, la nuova posizione della Casa Bianca sull'Armenia, il dialogo sul Medio Oriente e per il ritiro dei militari statunitensi dall'Iraq
Grazie anche alla complicità dei media, che lo hanno seguito in tutte le tappe del suo percorso, la visita del presidente statunitense Barack Obama in Turchia gli scorsi 6 e 7 aprile ha prodotto un diffuso entusiasmo tra i turchi. Non solo perché Obama, dimostrando di attribuire un’importanza particolare alle relazioni con la Turchia, l’ha scelta per realizzare il suo primo contatto bilaterale d’oltreoceano, ma anche per il tono e il contenuto dei messaggi che è riuscito a comunicare in questi giorni.
Arrivato in Turchia dopo aver partecipato al G20 di Londra, al vertice NATO di Strasburgo e all’incontro dei leader dell’UE a Praga, Obama, il 6 aprile, parlando al parlamento turco ha detto: “Mi è stato chiesto se proseguendo la mia visita ad Ankara e ad Istanbul abbia voluto dare un messaggio. La mia risposta è evet (sì). La Turchia è un’importante alleata dell’America” ed è il paese ideale con cui costituire una “partnership modello”.
Il primo messaggio di Obama alla Turchia riguarda la visione degli Stati Uniti nei suoi confronti. Con una netta presa di distanza rispetto alla definizione di paese “islamico moderato” coniata durante il governo di George W. Bush, il neo-presidente americano ha affermato che la Turchia è un paese con “una democrazia viva e laica” che però “non gli è stata regalata, ma è una sua conquista”. Un’eredità “lasciata dal suo fondatore Atatürk” della quale “il parlamento turco costituisce il proseguimento”.
È con questa premessa di paese “alleato”, “democratico e laico” ereditata dalla “visione di Atatürk” che Barack Obama si è rivolto al parlamento turco. Ad ascoltare l’orazione, durata circa quarantacinque minuti e trasmessa in diretta televisiva, erano presenti anche le più alte cariche dello Stato maggiore che, da quando due anni fa il partito filo-curdo DTP (Partito del popolo democratico) era entrato a far parte del parlamento, non vi avevano più messo piede. Lo stesso Obama, prima del discorso, ha incontrato singolarmente i leader dei partiti all’opposizione, dimostrando una disposizione ad ascoltare tutte le componenti rappresentative della Turchia.
Il discorso di Obama si è svolto all’insegna del dialogo e dell’ascolto reciproco. Il presidente ha citato l’importanza delle riforme realizzate negli ultimi anni in Turchia fatte “non solo perché richieste dall’ingresso all’UE ma perché giuste e necessarie per la Turchia stessa”. Ha citato le recenti aperture sulla lingua curda, affermando che “le democrazie non possono essere statiche” e che “le libertà di credo e di espressione concesse hanno avuto solo l’effetto di rafforzare lo stato e di creare una società civile forte e dinamica”. Obama ha accompagnato questi suoi commenti creando parallelismi con gli Stati Uniti ricordando il tempo in cui esisteva lo schiavismo fino al proprio caso particolare di uomo di colore diventato presidente.
Obama nel suo discorso si è rivolto anche al mondo musulmano – Turchia inclusa – “messo a dura prova” dalla politica ostile e aggressiva dell’amministrazione americana precedente, con l’intento di capovolgere quella linea: “Gli Stati Uniti non sono e non saranno mai in lotta contro l’islam. Ascolteremo con attenzione, supereremo i fraintendimenti e cercheremo un terreno comune. E anche quando non andremo d’accordo saremo rispettosi. Gli Stati Uniti sono diventati ricchi grazie agli americani musulmani. In molte famiglie americane ci sono componenti musulmani. Lo so perché anch’io appartengo a una di quelle famiglie”.
Che la visita del presidente Obama avrebbe avuto un esito positivo era già stato pronosticato da diplomatici turchi e statunitensi: la base d’accordo tra la Turchia e gli USA è infatti quasi completa, dalla soluzione a due stati per il conflitto israelo-palestinese al proseguimento della mediazione turca tra Siria e Israele, dai Balcani alla sicurezza delle vie energetiche e all’ingresso della Turchia nell’UE. Nelle relazioni con l’Iran, Washington terrà in considerazione i consigli di Ankara e si opererà in comune per trovare delle soluzioni pacifiche ai contrasti.
Al termine della riunione di Obama con il presidente della Repubblica turca Abdullah Gül, nella mattinata del 7 aprile, è stato anche confermato il sostegno turco in Iraq e in Afghanistan. Nel caso di quest’ultimo paese è stato siglato uno “speciale accordo” che prevede l’appoggio turco, soprattutto militare, alle missioni americane. Il presidente Gül avrebbe anche dato la disponibilità della Turchia a sostenere il ritiro delle truppe americane dall’Iraq previsto a partire da agosto. Nonostante infatti non sia stato ancora definito il percorso che i soldati statunitensi dovrebbero seguire per la smobilitazione, la base militare USA di İncirlik, nei pressi di Adana, dove attualmente prestano servizio circa 5 mila cittadini statunitensi, resta un punto d’appoggio strategico anche in questo caso.
Obama ha ricordato che gli Stati Uniti considerano il PKK una “organizzazione terrorista”, e ha promesso il sostegno alla risoluzione della questione di Cipro “prevedendo se necessario una revisione del piano Annan”, e alla “normalizzazione dei rapporti della Turchia con l’Armenia”.
Per Ankara, l’eventuale utilizzo della parola “genocidio” per i fatti del 1915 da parte di Obama era motivo di grande apprensione. Il presidente statunitense, in fase di campagna elettorale, aveva detto di volerlo riconoscere come tale e, in caso fosse stato eletto, di voler far approvare il riconoscimento dal Congresso. La data doveva coincidere con il 24 aprile, giornata del ricordo per gli armeni. Ma i contatti precedenti alla visita di Obama avevano già messo in luce che questo gesto avrebbe influito negativamente sui passi compiuti, negli ultimi mesi, dalla Turchia e l’Armenia verso la “normalizzazione dei rapporti”. Così Obama ad Ankara ha finito con l’affermare, che pur non ritrattando la propria posizione sul genocidio, in vista di un “disegno più ampio” non avrebbe intralciato il processo di ristabilimento dei rapporti.
Poco prima dell’arrivo di Obama in Turchia il Wall Street Journal aveva pubblicato un articolo in cui si sosteneva che gli USA – in concomitanza con la visita di Obama – avrebbero contribuito ad un accordo tra Turchia e Armenia che sarebbe stato reso pubblico il 16 aprile. Secondo le fonti diplomatiche su cui si era basato il quotidiano statunitense, i due governi interessati si sarebbero accordati su tre punti per far partire i negoziati ufficiali: l’instaurazione di rapporti diplomatici, l’apertura del confine di 268 Km che la Turchia ha chiuso nel 1993 in solidarietà con l’Azerbaijan dopo l’occupazione armena del Karabakh, e l’istituzione di commissioni per affrontare i disaccordi, compresi quelli storici.
La visita del vice segretario di Stato Matthew J. Bryza a Baku, per sondare gli umori del governo azero al riguardo, e l’incontro “a sorpresa” di Obama con il ministro degli Esteri armeno Edvard Nalbandyan nel corso del ricevimento dato a Istanbul il 7 aprile dal premier Erdoğan, sono stati segnali di conferma in questo senso. Notizie provenienti da Baku, tuttavia, riportano l’avversione dell’Azerbaijan all’apertura delle frontiere. A nulla sarebbero valse finora le telefonate di Gül e Obama al premier azero Aliyev per convincerlo a dare il proprio consenso.