Un articolo tratto da Le Courier des Balkans, omologo francese dell’Osservatorio. Un’indagine sul fenomeno della delocalizzazione produttiva ad est da un punto di vista sloveno. Da Lubjana scrivono Maja Grgic e Patarina Fidermuc (Delo). Traduzione a cura dell’Osservatorio sui Balcani.
Operai al lavoro
Le imprese si globalizzano ed inseguono i mercati più attraenti. Altrimenti rischiano di rimanere fuori dai giochi. La delocalizzazione della produzione industriale verso Paesi con una manodopera a buon marcato è sicuramente preoccupante per l’economia slovena perché implica una diminuzione dei posti di lavoro e la chiusura di molte imprese. La delocalizzazione è l’implacabile risultato della comparazione tra i salari medi sloveni e quelli di Paesi con una mano d’opera meno cara e che non siano troppo lontani in modo da limitare le spese logistiche. Il salario minimo in Romania è sei volte inferiore a quello Sloveno, quello Bulgaro nove volte inferiore. Nelle produzioni ad alto tasso di manodopera i calcoli sono presto fatti.
“Dal punto di vista politico sarebbe anche possibile trovare modalità per rallentare la delocalizzazione, dal punto di vista strategico non è però una posizione auspicabile” afferma con sicurezza Hribar Milic, segretario generale dell’associazione degli imprenditori sloveni. “Non possiamo dimenticare i continui processi di globalizzazione subiti dal mercato mondiale. Ad est ed in Asia vi sono mercati enormi. Senza dubbio un numero sempre crescente di imprese cercherà di conquistarli delocalizzando la propria produzione”.
Un esempio può essere l’azienda Alpina, che produce attrezzatura per la montagna, che ha deciso di chiudere i propri stabilimenti di Col e Gorenja Vas (Slovenia) e di spostarsi in Romania ed in Cina. Martin Kopac, membro del consiglio di amministrazione dell’azienda, chiarisce le ragioni chiave di questa scelta: una manodopera meno cara ed il fatto che tutte le aziende concorrenti già hanno aperto stabilimenti in questi due Paesi. Alpina è stata quindi costretta a muoversi. Kopac fa notare come con la delocalizzazione progettata Alpina risparmierà circa 250 milioni di talleri (più di un milione di euro) all’anno. Anche la Labod, attualmente con sede a Novo Mesto, ha già delocalizzato gran parte della propria produzione in Ungheria, Polonia e Romania.
Le imprese slovene optano per la manodopera meno cara con varie modalità. Qualcuno costruisce delle fabbriche, qualcun altro con partecipazioni di capitale, altri affittano degli stabilimenti produttivi, altri demandano a subcontraenti. Capita spesso che si delocalizzi la propria produzione nei Paesi più vicini mentre in quelli più lontani, come ad esempio la Cina, si preferisce optare per partenariati.
Si può porre termine a questo processo? La Slovenia potrebbe, adottando misure specifiche, abbassare il prezzo della manodopera e bloccare il flusso delle produzioni verso Paesi terzi? Accademici ed economisti constatano in modo unanime che è impossibile, perché la mano d’opera slovena è troppo cara. Una tendenza che si può addolcire ma non certo invertire. Il salario netto in Slovenia ha un divario troppo alto rispetto ai Paesi concorrenti. Secondo Samo Hribar Milic nonostante quanto risulti da alcune analisi internazionali che deifniscono il salario sloveno eccessivamente alto rispetto all’andamento generale dell’economia, sarebbe impossibile abbassarlo. E dunque, essendo impossibile abbassare quello che per le imprese è un costo, queste ultime si sposteranno inevitabilmente dalla Slovenia. Un fenomeno già evidente, anche se non ancora al suo apice.
Anche lo Stato si troverà a dover risparmiare. Diminuirà infatti il gettito fiscale ed i contributi sociali creando innanzitutto problemi ai fondi destinati alle pensioni ed alla sanità. E lo Stato dovrà sforzarsi di affrontare in modo graduale la questione. La delocalizzazione andrà a colpire soprattutto i lavoratori con una formazione bassa, il cui reinserimento nel mondo del lavoro non sarà semplice. I posti di lavoro che andranno a crearsi verosimilmente non potranno prescindere da una formazione elevata e conoscenze altre rispetto a quelle in possesso dei lavoratori espulsi. La politica statale in tal senso dovrà essere attiva, adeguata, trasparente.
Ma la delocalizzazione non è solo dovuta al basso costo della manodopera. Lek e Kraka, due aziende farmaceutiche slovene, hanno già messo radici in Polonia e Russia, dove hanno creato una rete di commercializzazione ben strutturata ancor prima che la dislocazione ad est divenisse un imperativo per il capitale europeo. Si sono infatti rese conto che per le imprese farmaceutiche, più che per le altre, nei Paesi dei quali si voleva conquistare il mercato fosse necessario ottenere lo status di “imprese nazionali”, privilegiate rispetto a quelle straniere. Non si può quindi affermare che queste aziende slovene si siano mosse ad est rincorrendo il basso costo della manodopera, tanto più che le due società hanno ancora 6500 dipendenti in Slovenia.
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