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Attesa ai margini

05.12.2007    Da Pristina, scrive Saša Stefanović

Mentre si avvicina la data del rapporto della "troika" al Segretario generale dell'Onu, i serbi del Kosovo seguono con preoccupazione lo sviluppo degli eventi, con l'impressione di essere marginalizzati dai processi politici in atto e la reale prospettiva di abbandonare la regione
Senza alcuna possibilità di influenzare il prossimo rapporto della “troika”al Segretario generale dell'Onu, i serbi del Kosovo aspettano di vedere quale direzione prenderanno gli eventi, con la consapevolezza di essere “il vaso di coccio tra i vasi di ferro”, e che il proprio destino viene deciso molto lontano dalle proprie case.

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Secondo un recente sondaggio condotto congiuntamente dal “Center for community development” di Mitrovica e dallo “Strategic Marketing Research group” di Belgrado, nel caso in cui il Kosovo dovesse diventare indipendente, il 46% dei serbi che sono rimasti nella regione avrebbero intenzione di abbandonare le proprie case, e riparare in Serbia. Un altro 23% sarebbe pronto a lasciare il Kosovo se gli fossero garantite condizioni minimali di sopravvivenza, mentre il 24% resterebbe comunque nella regione, non avendo altro posto dove andare e non volendo abbandonare la propria terra. In altre parole, esiste il rischio concreto che i ¾ della popolazione serba del Kosovo potrebbe lasciarlo nel caso dovesse concretizzarsi la prospettiva indipendentista.

A otto anni dalla fine del conflitto del '99, i serbi del Kosovo vivono in enclaves, in una realtà parallela rispetto alla comunità albanese. Questa frattura è stata recentemente ribadita dal boicottaggio di massa della comunità serba durante le ultime elezioni per l'Assemblea parlamentare di Pristina, dopo l'invito di Belgrado a disertare le urne. Il sondaggio del “Center for community development” e dello “Strategic Marketing Research group” ha messo in evidenza anche la mancanza di fiducia espressa dai serbi del Kosovo proprio verso le istituzioni del governo di Pristina, ma anche, a livello internazionale, verso gli Stati Uniti e la Nato.

Secondo il sondaggio le istituzioni che ispirano più fiducia nei serbi kosovari sono la chiesa serbo-ortodossa (92%), il premier serbo Vojislav Kostunica (86%), l'esercito serbo (80%), il presidente serbo Boris Tadic (77%).

Anche se vivono in una sorta di limbo che dura da anni, e temono che le decisioni sullo status finale del Kosovo possano prendere una direzione molto diversa da quella da loro sperata, i serbi del Kosovo continuano a sperare che alla fine la regione riceverà un regime di autonomia all'interno della Serbia (39%) oppure verrà pienamente reintegrato nella Serbia stessa (31%), soluzione che secondo la grande maggioranza degli intervistati, garantirebbe loro sicurezza ed una vita normale.

Presto vedremo quali saranno le raccomandazioni della “trojka” al Segretario generale dell' Onu, nel frattempo continuano a circolare le voci più disparate, tra cui quella secondo cui i negoziati potrebbero continuare. Secondo il sondaggio, questa opzione è largamente quella più gradita ai serbi del Kosovo (80%), che vorrebbero che questi fossero portati avanti fino al raggiungimento di una soluzione accettabile per entrambe le parti. Solo il 12% degli intervistati ha dichiarato invece di preferire una soluzione quanto più rapida possibile, anche se questa dovesse significare l'indipendenza per la regione.

Nel caso di una dichiarazione unilaterale d'indipendenza, la maggioranza dei serbi kosovari hanno dichiarato che il governo serbo dovrebbe prendere misure diplomatiche nei confronti del governo del Kosovo, continuando però a dialogare con la comunità internazionale, per il 29%, invece, Belgrado dovrebbe dichiarare il Kosovo “territorio occupato” e rompere le relazioni diplomatiche con tutti i paesi che dovessero riconoscere l'indipendenza.

Il dato più preoccupante che emerge dal sondaggio, però, è il seguente: l'84% dei serbi kosovari intervistati hanno dichiarato che, in caso di indipendenza, sono convinti che aumenterà il livello di violenza in Kosovo.

La paura di nuove violenze è diffusa in tutte le comunità serbe del Kosovo, a nord così come a sud del fiume Ibar. Ne abbiamo parlato con i leader di alcune Ong attive nelle varie regioni del Kosovo abitate dai serbi.

Olivera Nikolic vive e lavora a Kamenica, nel Kosovo sud-orientale. “Abbiamo paura di quello che potrebbe succedere dopo il 10 dicembre, che tutti i serbi possano lasciare il Kosovo”, ha dichiarato la Nikolic ad Osservatorio. “Qui abbiamo buone relazioni con i nostri vicini albanesi, ma nonostante questo la paura resta alta. E poi, le prospettive non sono comunque ottimistiche...I giovani sono andati tutti via, ormai da otto anni, i villaggi serbi qui intorno sono abitati solo da anziani che non hanno dove altro andare. Loro resteranno, ma la nostra comunità non è più la stessa. Siamo rimasti solo in 1260 a Kamenica. Speriamo soltanto che non ci sia violenza, abbiamo sentimenti contrastanti, e la gente è molto confusa”.

Nenad Rikalo è il direttore di un'Ong dal nome simbolico “Buducnost” (Futuro). Anche Rikalo appare molto preoccupato. “I serbi qui sono davvero estremamente ansiosi rispetto a quello che può accadere dopo il 10 dicembre”. A Gracanica, dove vive, non c'è molta gente per strada, e neppure i pochi locali sembrano affollati, nonostante questo sia il centro abitato serbo più popolato del Kosovo centrale. “Nessuno sa niente, e tutti si chiedono cosa ci aspetta. Noi, serbi che viviamo a sud dell'Ibar, subiremo le conseguenze del processo di soluzione dello status più di chiunque altro. Se Pristina dichiara l'indipendenza, il nord del Kosovo si staccherà per rimanere parte della Serbia, e noi potremmo trovarci nelle condizioni di dover lasciare le nostre case. La nostra preoccupazione è aumentata dal fatto che i continui slittamenti della soluzione dello status faranno scattare la rabbia degli albanesi, e noi saremo i primi a scontarne le conseguenze”.

Nenad Dakic vive a Gorazdevac, la più grande enclave nella regione che i serbi chiamano Metohija. Anche l'Ong porta questo stesso nome. Nella sua voce si possono cogliere tensione e preoccupazione al tempo stesso. “La gente tace. Si evita il discorso sulle possibili conseguenze di una soluzione sfavorevole riguardo allo status. Tutti sono tesi e aspettano di vedere cosa accadrà. Se sarà indipendenza, vedremo se potremo ancora restare e vivere una vita normale. Se non sarà possibile, allora dovremo pensare ad andare via, anche se non l'abbiamo fatto né dopo il 1999 né dopo il 2004. Oggi, di 2500 persone che abitavano Gorazdevac prima della guerra, ne sono rimaste appena 800. I giovani vanno via perché qui non ci sono prospettive. Se i genitori dovessero decidere di non iscrivere più i propri figli nella scuola locale, allora perderemmo definitivamente le nuove generazioni, e sarebbe molto più difficile difendere il diritto della nostra comunità ad una vita normale e alla coesistenza pacifica”.

Nevenka Medic vive nella parte nord di Mitrovica, ed anche lei dirige un'Ong, la “Jelena Anzujska”, una delle più attive nell'area. Quando parla dello status e del possibile scenario dell'indipendenza, è quella che esamina la situazione nel modo più freddo e razionale. “Abbiamo già reso chiaro nel 2002 che, se il Kosovo dovesse dichiarare la propria indipendenza, noi dichiareremmo di non appartenere più al Kosovo. La regione a nord dell'Ibar è e rimarrà sempre parte della Serbia”.

In generale, sembra che nessuno si preoccupi realmente di quello che faranno i serbi del Kosovo, se decideranno di restare o di andare via, anche se la KFOR ha espresso in modo deciso la sua volontà di impedire violenze dirette verso le minoranze.

Nel caleidoscopio dei negoziati, degli scontri politici e diplomatici, sono scivolati sempre più ai margini e, ogni giorno di più, la possibilità che possano continuare a vivere nelle loro case sembra essere un problema esclusivamente loro.
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