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Albania: come rifondare la sinistra?

29.08.2008   

Le democrazie occidentali sono caratterizzate dall’opposizione tra la sinistra e la destra. I due campi dispongono ciascuno di un insieme coerente di valori e di riferimenti, ma cosa significa in Albania questo dualismo? L'analisi di Fatos Lubonja
Di Fatos Lubonja*, per Le Courrier dei Balkans/ Fondazione Gabriel Péri, 31 luglio 2008.

Traduzione per Osservatorio sui Balcani: Carlo Dall’Asta (titolo originale: "Albanie: comment refonder la gauche?”).


Questa è la terza ed ultima parte del dossier sulla sinistra nei Balcani realizzato da Le Courrier des Balkans e pubblicati sulla rivista Nouvelle Fondation della Fondazione Gabriel Péri

A costo di semplificarne lo schema, la caratteristica fondamentale della democrazia occidentale è l’opposizione tra la sinistra e la destra. Questa opposizione si definisce, grosso modo, come un confronto tra progressisti e conservatori, tra quelli che promuovono la libertà individuale e la competizione e quelli che promuovono l’uguaglianza. Tra quelli che sono più sensibili verso i ricchi e i padroni e quelli che sono più sensibili verso le fasce economicamente fragili, tra quelli che sono orientati soprattutto verso la produzione delle ricchezze e quelli che si preoccupano piuttosto che queste vengano distribuite nel modo più equo possibile. Tra i nazionalisti e i cosmopoliti, tra quelli che privilegiano le forme pacifiche di risoluzione dei conflitti e quelli che credono piuttosto alla forza militare e alla guerra. La lista delle distinzioni potrebbe essere lunga e generare diversi dibattiti di ordine etico e morale.

Questo schema semplificato include anche, tra questi due poli antagonisti, una fascia più o meno estesa – la più predisposta a diventare la «fascia sociale mobile» - che è appannaggio del centro. Si tratta di conservatori moderati, o di partigiani della novità altrettanto moderati, moderatamente sensibili alla libertà di competizione come pure all’uguaglianza. Essi servono, in un certo qual modo, a preservare l’equilibrio dell’«imbarcazione», affinché non si inclini né troppo a sinistra né troppo a destra.

Dietro questo schema semplificato si profila una realtà ben più complessa, costruita sulle evoluzioni socio-economiche dei Paesi occidentali e su tutta una tradizione storica e culturale della dinamica che oppone la mentalità di sinistra a quella di destra. Questa dinamica ha seguito, adattandovisi, le diverse situazioni che si sono succedute dopo la Rivoluzione francese, quando i conservatori si sono opposti ai progressisti. Questi ultimi detenevano una visione rivoluzionaria del mondo e della società e, fin dalla loro prima apparizione, hanno dovuto affrontare l’ostilità dei conservatori per portare a buon fine i loro progetti. Nel corso dei differenti periodi della storia questo antagonismo, sempre vivo, si è concentrato sulle questioni critiche congiunturali su cui divergono i principi della sinistra e della destra, ed esso ha contribuito allo sviluppo della democrazia.

Dalla caduta del comunismo negli anni 90, che segnò il trionfo del liberalismo e fece passare il sistema mondiale da una configurazione a due blocchi contrapposti al processo della mondializzazione, la sinistra europea ha conosciuto una crisi evidente, che ha fatto vacillare profondamente i pilastri della sua identità. Si può, tuttavia, pensare alla fine dell’opposizione tra sinistra e destra? No, perché fondamentalmente queste due forze esprimono delle contraddizioni che noi siamo condannati a vivere, e non a risolvere: quella tra la nostra esistenza individuale e la nostra esistenza sociale, che corrispondono agli spazi privato e pubblico. Quella tra il bisogno di adattarsi alla realtà e il desiderio di modificarla, quella tra la competitività e la solidarietà, quella tra l’uguaglianza come condizione della libertà e il bisogno di competizione come espressione della libertà.

L’Albania di fronte allo schema europeo

Comparata a questo schema, la democrazia post-comunista albanese s’iscrive nel medesimo rapporto di differenze che c’è tra un universo in crisi e un caos totale. È difficile trovare dei frammenti del puzzle post-comunista albanese che corrispondano allo schema europeo sopra descritto. L’Albania del 2008 mescola dei principi di sinistra e di destra, delle forze progressiste e conservatrici, dei nazionalisti e dei cosmopoliti, dei ricchi e dei poveri. Tutti questi elementi sono presenti alla rinfusa, sia tra gli individui che in tutti i partiti politici albanesi, formando un miscuglio informe ed eterogeneo. Le ragioni di questa situazione sono numerose e legate tanto alla storia recente del Paese quanto agli avvenimenti sopravvenuti dopo la caduta del comunismo e lo sviluppo della mondializzazione.

Cerchiamo di spiegare questo caos sviluppando alcuni di questi fattori principali.

Norberto Bobbio
Le trasformazioni politiche ed economiche sopravvenute nell’Albania post-comunista possono essere molto bene comprese facendo ricorso alle categorie di «sinistra» e di «destra», quali le definisce Norberto Bobbio nella sua opera “La sinistra e la destra”. Egli fa riferimento a due filosofi, Jean-Jacques Rousseau e Friedrich Nietzsche, che sviluppano due diversi approcci antropologici. Secondo Rousseau, spiega Bobbio, gli uomini nascono uguali e le evoluzioni ulteriori storiche e sociali hanno introdotto tra di loro la disuguaglianza, anche se esse cercano, allo stesso tempo e almeno in teoria, di renderci uguali. E Bobbio si domanda: noi siamo allora uguali o diseguali? «Noi siamo principalmente uguali, ma anche diseguali», si risponde, trovando giustamente in questa dualità la distinzione tra la sinistra e la destra.

La mentalità di sinistra è più sensibile all’uguaglianza, quella di destra sottolinea invece le disuguaglianze. Lo spettro politico si forma nell’associazione di queste due sensibilità con la libertà. L’estrema sinistra è la combinazione dell’uguaglianza con dei metodi autoritari, vale a dire con l’assenza di libertà. Il suo polo opposto, l’estrema destra, combina la disuguaglianza con l’assenza di libertà. All’interno di questi due estremi la libertà è assente. Essa si trova al centro. Al «centro sinistra», si considera che la libertà emerga da politiche più sensibili all’uguaglianza, la quale garantisce la libertà; al «centro destra», la libertà è incarnata in politiche fondate sulla competitività, posto che la disuguaglianza è il motore della società pur garantendo la libertà.

Riferendosi allo schema di Bobbio, che evoca un movimento pendolare, si può facilmente constatare che nel 1990, al momento della caduta del comunismo, l’Albania viveva sotto un regime d’estrema sinistra. Considerando la sinistra e la destra come due categorie interdipendenti, si può dire che all’inizio degli anni ’90 gli albanesi hanno tutti seguito il movimento pendolare spostandosi verso destra – nel senso che le riforme necessarie per garantire i diritti e le libertà delle persone o la liberalizzazione del mercato erano orientate verso destra, dato che il Paese era stato fino ad allora retto secondo dei metodi di estrema sinistra.

Questo processo fu parallelo alla nascita del multipartitismo in Albania. In virtù di questo sistema di coesistenza e di competizione di valori e d’interessi differenti sono nati numerosi partiti, a partire da iniziative individuali o collettive. Ben presto sono comparsi dei problemi, perché apparivano molti partiti ma ben pochi valori e interessi da difendere. All’ambizione dei loro fondatori di accedere al potere non corrispondevano dunque dei valori e dei reali interessi culturali e sociali, che apparvero solo al termine di un lungo processo di differenziazione socio-economica e culturale. L’Albania era appena uscita da un ugualitarismo totale della povertà, conseguenza di una economia totalmente collettivizzata e d’una ideologia che per cinquanta anni aveva bombardato i cervelli del popolo con i sempiterni valori dogmatici del nazional-comunismo.

Sali Berisha
Nel 1990 regnava nel Paese un massiccio sentimento anticomunista, accompagnato dal bisogno di avere un programma riformatore, di avvicinamento alle regole occidentali, incarnato dal Partito democratico (PD). Questo fu il primo partito d’opposizione a prendere il potere nel 1992, ma si fondava su un sentimento generale, molto confuso e senza un programma specifico. Questo vago programma di riforme e d’occidentalizzazione fu d’altronde ripreso da tutti i partiti nascenti, perfino dall’ex Partito dei lavoratori – ribattezzato Partito socialista (PS) - che sopravvisse grazie alle sue strutture, molto potenti, organizzate e diffuse nell’intero Paese. Esso trasse vantaggio dai grandi errori commessi dal partito anticomunista al potere.

Durante i primi anni della sua permanenza all’opposizione dopo 45 anni di potere continuato, il partito comunista, alias Partito socialista, da principio non abbandonò la retorica di sinistra. Esso cercò comunque di adottare anche alcuni principi appartenenti alla socialdemocrazia occidentale. Gli ex comunisti criticarono così, nel nome dell’«uguaglianza delle possibilità», le riforme di privatizzazione e di liberalizzazione del mercato intraprese dal partito anticomunista al potere, il quale cercava di sfruttare la situazione per dar vita ad una nuova classe di ricchi che avrebbe potuto sostenerlo. Il leader del Partito socialista Fatos Nano dichiarava nel 1994: «… I socialisti difendono il principio d’uguaglianza degli esseri umani… L’uguaglianza si realizza allorché tutti hanno le stesse possibilità sociali di partecipare alle ricchezze sociali… Quando tutti, senza discriminazione, partecipano alle profonde trasformazioni economiche, tecniche, intellettuali e ai modi di vita della società contemporanea… Noi siamo per il rispetto delle frontiere legali degli interessi privati, collettivi, pubblici e nazionali in seno ad una società fondata sull’economia sociale del mercato…».

Fatos Nano
Frattanto, regnava nel Paese uno spirito riformista, caratterizzato da privatizzazioni accompagnate da iniziative che sfuggivano a ogni controllo da parte dello Stato. Gli individui erano stati liberati dall’uguaglianza imposta per 45 anni. Persone che avevano sempre lavorato in cooperative e compagnie pubbliche e che non possedevano alcun bene personale, ritrovandosi nell’incapacità stessa di sopravvivere, divennero i naturali candidati all’esodo massiccio degli albanesi verso l’Occidente dell’inizio degli anni ’90. L’esodo rurale verso le principali grandi città e soprattutto verso la capitale, Tirana, fu anch’esso importante. Uno degli aspetti più drammatici di queste iniziative non controllate dallo Stato, in nome della cosiddetta libertà del mercato, fu la comparsa delle società finanziarie piramidali la cui bancarotta, nel 1997, portò al tracollo dello Stato.

La reazione dei socialisti, che nel 1994 avevano fatto dell’«uguaglianza delle possibilità» uno dei loro principali argomenti, era dovuta, più che ad un impegno convinto a favore di un sistema d’economia sociale di mercato, al fatto che questo processo di privatizzazione favoriva dei gruppi che non facevano parte della loro clientela elettorale. Così, il Partito socialista non si oppose mai seriamente, neppure per sottolineare la loro insufficienza, alle riforme suggerite dall’Occidente, né alla terapia di choc, considerata come la migliore garanzia di accesso a un mercato libero, né alla crescita delle società finanziarie fraudolente. In fondo, anche il PS difendeva le stesse riforme e promuoveva gli stessi valori occidentali portati avanti dal Partito democratico per condurre la sua politica. Queste sono state definite «le riforme standard».

Questo fenomeno, di un pluralismo di partiti che propongono il medesimo programma politico, e che ha rivelato l’incapacità dei socialisti a sviluppare una atteggiamento critico, si spiega anche con il trionfo del liberalismo nel mondo, che ha mandato in crisi tutti i partiti socialisti europei. Un’altra ragione è il complesso di colpa dei socialisti per i 45 anni di dittatura e di cultura comunista radicata per tutto questo periodo. Quelli che si incominciò a chiamare «i valori occidentali», introdotti in Albania a partire dal 1990, furono semplificati e mistificati dal metodo dell’ideologia totalitaria comunista, senza poter essere sottoposti a una qualsiasi analisi critica. Per questo non si poteva attribuirli più alla sinistra che alla destra.

Enver Hoxha
Con questo metodo, totalitario nella sua essenza, e volendo conservare a ogni costo il potere, la classe politica, pur dichiarandosi di sinistra o di destra, non ha contribuito a creare delle identità politiche chiare, né a sinistra né a destra. Al contrario, essa ha addotto il pretesto che l’Albania aveva bisogno di tempo per condurre queste riforme ai parametri dell’occidentalizzazione, neutre nella distinzione sinistra-destra, come la separazione dei poteri, le privatizzazioni o le elezioni libere. Non è difficile riconoscere in questo fenomeno l’eredità della vecchia cultura, di mantenimento del potere ad ogni costo, applicato dal dittatore Enver Hoxha fin dal tempo in cui egli mescolava le idee di sinistra dell’internazionalismo con un nazionalismo paranoico e xenofobo, autodistruttivo e fonte di isolamento, caratteristiche queste abituali dell’estrema destra. Questo fenomeno spiega anche il fatto paradossale che, benché questi due partiti difendano dei programmi largamente similari, un conflitto estremamente acuto li contrappone, portando anche il Paese al limite della destabilizzazione.

45 anni di isolamento stalinista

La sinistra albanese s’è indubitabilmente trovata ancora più disorientata davanti al modo in cui il trionfo del liberalismo ha messo in crisi la sinistra occidentale, costringendola a serie sfide di riforma. I processi di privatizzazione e di liberalizzazione, avviati in Paesi occidentali come la Gran Bretagna nel nome della terza via, hanno lasciato la sinistra albanese priva di un vero riferimento in Occidente, e addirittura nella totale incapacità di potersi distinguere dalla destra. Questa oscurità era tanto più nera, in quanto la sinistra albanese aveva perduto i contatti con la sinistra europea fin dalla fine della Seconda guerra mondiale. Malgrado la crisi che è proseguita negli anni ’80 - quando noi albanesi vivevamo ancora sotto un regime d’estrema sinistra - la sinistra occidentale ha sviluppato dei valori che le hanno permesso di preservare la sua identità e di restare coerente con alcuni principi fondamentali.

Questa «coerenza» - intesa nel senso che Montaigne attribuisce al termine: capacità di adattarsi all’evoluzione nel tempo mantenendo le proprie convinzioni - non si può invece attribuire alla sinistra albanese: per quest’ultima in effetti vale addirittura il contrario. Essa ha perduto ogni convinzione, perché si è ritrovata culturalmente incapace di comprendere le novità, incapace non solo di sviluppare nuove idee, ma anche d’assimilare le idee di sinistra in vigore nello spazio occidentale dell’epoca. Il regime comunista albanese ha sbarrato le porte per 45 anni alla cultura europea di sinistra, perfino durante gli anni che hanno preceduto la caduta del comunismo. Per i suoi metodi totalitari esso l’ha denigrata, identificando tutto ciò che veniva dall’estero con l’ideologia del nemico esterno o interno. Si può dunque dire, per quanto concerne l’eredità della sinistra albanese, che nel momento in cui, dopo la Seconda guerra mondiale, la sinistra europea attraversava un lungo processo di evoluzione, la cui maggiore ricchezza era costituita dai suoi sforzi per adattarsi all’epoca moderna, la sinistra albanese s’è murata nell’ortodossia stalinista.

Mentre la sinistra europea ha imparato a rispettare il costituzionalismo e il pluralismo politico, la sinistra albanese è rimasta alla cultura della rivoluzione come mezzo per la conquista del potere. Contrariamente alla sinistra europea, la sinistra albanese non ha pensato al collasso dello stalinismo o ad eventi come la primavera di Praga se non applicandovi concetti nazionalisti e stalinisti. Essa non ha conosciuto la cultura della pace, che ha anzi denigrato ricollegandosi alle teorie «revisioniste» della «coabitazione pacifica». Essa non ha conosciuto la critica della sinistra occidentale verso il capitalismo, né gli sforzi per moderare questo capitalismo o per trovare delle alternative. In questo contesto, essa ha totalmente ignorato il rapporto tra lo Stato liberale e lo Stato sociale. La sinistra albanese ha ugualmente ignorato, e perfino denunciato, il maggio del ’68, che ha rappresentato un apporto potente della sinistra nella cultura occidentale. In breve, quando essa ha perduto nel 1990 la sua sola identità, quella staliniana, alla sinistra albanese non è rimasto più nulla, dato che i valori costruiti dalla sinistra europea mentre l’Albania viveva isolata da tutti non erano i suoi.

La società albanese ha potuto conoscere alcuni dei fenomeni menzionati, come la condanna dello stalinismo, il collasso del sistema del socialismo reale dal punto di vista economico e politico, ma considerandoli da una prospettiva di destra, quella stessa che la sinistra europea ha rigettato in numerosi aspetti. Gli elementi fondamentali di coerenza della sinistra, o di conoscenza della cultura di sinistra, erano dunque totalmente sconosciuti nell’Albania post-comunista.

I socialisti al potere: verso uno Stato oligarchico

Nel 1997, al suo arrivo al potere dopo la crisi delle società finanziarie piramidali, il Partito socialista ha «dimenticato» tutta la retorica di sinistra utilizzata all’epoca in cui era all’opposizione. Si è impegnato, sotto la guida del FMI e della Banca Mondiale, ad approfondire le riforme liberali avviate dal Partito democratico. Una volta al potere, i socialisti hanno ripetuto formule come: «la liberalizzazione ulteriore del Paese», utilizzandole con altrettanta enfasi dei termini di un tempo «rivoluzionarizzazione ulteriore…». Il loro obiettivo era quello di divenire la classe ricca del Paese e di attirare a sé il sostegno dei ricchi che erano vicini al PD quando quest’ultimo era al potere. Di conseguenza, essi hanno insistito sul nuovo dogma che vuole che il fiorire del mercato soddisferà, come per magia, gli interessi di tutti. Lo Stato diretto dai socialisti fu presentato dai ministri come l’«avvocato» o il «partner» del mondo degli affari, superando così il concetto liberal-democratico dello Stato considerato come arbitro tra le parti.

In effetti, l’Albania dell’era neo-socialista (1997-2005) si è messa sulla strada del consolidamento di uno Stato di oligarchi, arricchiti da speculazioni e privatizzazioni effettuate grazie ad appoggi politici, talvolta anche da traffici criminali, rendendo il confine tra oligarchi e responsabili politici assai sfumato. Nello spazio di qualche anno la maggioranza dei dirigenti socialisti e dei deputati del PS al Parlamento, come pure i membri delle loro famiglie, erano diventati le persone più ricche del Paese.

Tirana - edilizia urbana (L. Zanoni)
Questo genere di Stato, controllato da oligarchi che hanno privatizzato pressoché ogni proprietà pubblica, diretto da persone sedicenti di sinistra, iniziò anche ad intraprendere alcune iniziative grottesche, come per denunciare le sue proprie contraddizioni. Gli oligarchi si sono gratuitamente impegnati in lavori pubblici. Essi dichiaravano centinaia di migliaia di dollari e denunciavano ufficialmente delle imposte minime oppure inesistenti. Una di queste iniziative fu denominata «il volto umano del business»: un gruppo di oligarchi «partner» del governo diretto dal Primo ministro socialista Fatos Nano hanno preso l’iniziativa di restaurare graziosamente un certo numero di scuole nel Nord dell’Albania. Alcuni oligarchi hanno ottenuto un permesso edilizio per edificare nel pieno centro della capitale, governata da un sindaco socialista, Edi Rama, grandi immobili molto redditizi, in cambio di un trattamento e di una pulizia «gratuite» degli spazi verdi degradati del centro-città.

Molto rapidamente dunque, sotto la direzione degli alti funzionari di sinistra, il Paese non ha più sentito parlare dell’uguaglianza come di una «opportunità sociale per partecipare alla ricchezza sociale», né del «rispetto delle frontiere legali degli interessi privati». Al contrario, si trattava ormai di venire a compromessi con i «regali» che lo Stato degli oligarchi offriva alle città che avevano perduto la cognizione dell’utilizzo dell’istituzione statale e la distinzione tra lo spazio pubblico e lo spazio privato.

Un capitalismo anarchico

Questo processo di sequestro dello Stato e dell’economia da parte degli oligarchi è anche stato accompagnato da un fenomeno che lo ha reso ancora più drammatico, e che ha aumentato il caos: l’economia informale. Le popolazioni venute dalle campagne e dalle piccole città cominciarono ad occupare dei terreni per costruirsi delle case, senza averne ottenuto l’autorizzazione. Allo stesso modo la costa fu invasa da diverse costruzioni senza il minimo riguardo per l’urbanesimo e l’ambiente. Lo sfruttamento delle foreste e dei fiumi sfuggì ad ogni controllo ufficiale. Le televisioni private usurparono a loro volta le frequenze e i canali di diffusione, e così via. L’Albania post-comunista fu sommersa da una vera inondazione di iniziative incontrollabili, e conobbe nello stesso tempo una massiccia emigrazione, uno sviluppo dell’economia sommersa e una pesante privatizzazione delle proprietà pubbliche da parte degli oligarchi.

Lo Stato, assai poco preoccupato dell’interesse pubblico, non ha fatto da argine a questa deriva che, ben lungi dal contrastare gli interessi degli oligarchi, li favoriva. Questa situazione dell’Albania ricorda la teoria dell’economista peruviano De Soto. Secondo questa teoria, il Paese è in preda ad una sperimentazione ultraliberale, in cui il «laisser faire» rasenta l’illegalità, e in cui lo Stato perde il suo ruolo d’arbitro e di garante del rispetto della legge e della giusta competitività, il che porta verso un'economia che sfugge a pressoché ogni controllo dello Stato, verso un capitalismo anarchico. De Soto avanza l’idea che «l’informalità» presuppone anche una liberazione di energie che possono successivamente normalizzarsi, nel senso che quelli che si evolvono ai confini della legalità divengono dei proprietari legittimi, adempiendo alle tasse e alle imposte che pesano su di loro. Così le loro proprietà illegali si trasformano in capitale e rientrano nella rete «normale» della circolazione dei capitali. Ciò nonostante il capitalismo anarchico albanese, applicato alle condizioni d’un Paese che fino al giorno prima viveva ancora in un collettivismo totale, ha aggravato il caos esistente più di quanto abbia aiutato lo sviluppo. Tuttora esso genera distruzione e degrado della qualità della vita.

Questo genere di capitalismo è drammaticamente smascherato da una situazione assurda. Nel momento in cui fiorivano gli investimenti privati, sproporzionati in rapporto alla taglia della popolazione, (ricordiamo il numero infinito delle costruzioni nella capitale e nelle città costiere), il Paese sprofondava in una profonda crisi di fornitura d'energia elettrica e di acqua potabile. Era anche colpito dalla carenza di infrastrutture e da un inquinamento degno dei Paesi più poveri del pianeta. Nella configurazione del capitalismo anarchico all’albanese è arduo tracciare il confine tra l’economia informale e l’economia criminale, tra l’economia delle evasioni fiscali e quella del riciclaggio del denaro sporco proveniente dalla droga e dagli altri traffici, con tutte le conseguenze sociali e culturali che ne derivano.

Ora, il problema principale sollevato da questo capitalismo è il fatto che esso produce i suoi pilastri portanti umani, che condizionano non solo la politica e il modo di farla, ma anche il sistema dei valori dominanti, rendendo difficile se non impossibile ogni ritorno al passato. L’economia informale determina la situazione politica, condiziona il potere politico, finanziario e mediatico. In un Paese di solo tre milioni di abitanti, esistono 80 reti televisive private. Questi poteri si nutrono di questa economia, per difenderla e per svilupparla allargando i limiti dell’informalità. Sotto la pressione del capitalismo anarchico, la politica devia anche dal suo compito di creare delle prospettive e dei progetti per l'avvenire, che sia di sinistra come di destra. Nel capitalismo anarchico la politica, come tutto il resto, si sottomette al gioco spontaneo delle forze dei potenti e lo Stato, a seconda delle circostanze, è trattato dagli attori del commercio informale ora come un partner, ora come un avversario, ma mai come l’arbitro o il difensore degli interessi di tutta la società.

Le «due destre» al servizio dell’oligarchia

Bisognerebbe analizzare da un punto di vista socio-economico il rispettivo elettorato del partito di destra anticomunista, il Partito democratico, vincitore delle elezioni del 2005, e del Partito socialista, al fine di comprendere il voto delle diverse fasce sociali e di poter definire le loro rispettive collocazioni a sinistra o a destra. In realtà, la sociologia sembra smentire le definizioni. Sono le frange più povere e malcontente della popolazione quelle che hanno votato per il partito di destra. Si è trattato principalmente di un voto di protesta contro il sistema oligarchico e corrotto costruito dai socialisti in otto anni di potere.

Sarebbe la cosa più normale che questo cambiamento di nomi avvenga e che l’Albania cominci ad entrare in una prospettiva di opposizione tra la destra e la sinistra, concepita su parametri europei. Il problema è che l’Albania si trovava in questa stessa situazione già nel 1997, all’epoca del precedente cambiamento del potere. Fino a quel momento, le forze cosiddette di «destra» rappresentavano principalmente gli interessi del nuovo commercio, che muoveva allora i primi passi. Il PD cercava inoltre di creare una fascia agiata che sarebbe stata il suo sostegno naturale, mentre il PS voleva rappresentare coloro i quali erano stati dimenticati da questo processo di transizione. Con l’arrivo del PS al potere, questi due partiti, come abbiamo già spiegato, si sono scambiati i ruoli.

Dopo due anni d’esercizio del potere, il PD sta ancora una volta dando apertamente prova di aver rinunciato a mantenere le promesse elettorali fatte alla fascia meno privilegiata, ed è caduto anch’esso sotto il giogo degli oligarchi, rafforzando ulteriormente lo stesso sistema.

In effetti, dietro questa guerra illusoria tra sinistra e destra si nasconde una diversa realtà politica e un'altra dinamica. In realtà, il Paese possiede due partiti di destra, e il cosiddetto pluralismo politico nasconde soprattutto una guerra di potere tra raggruppamenti politico-economico-mediatici, che hanno creato una fascia di ricchi sempre rappresentata e difesa dall’élite politica, che essa sia al potere o all’opposizione. Questo pluralismo politico di facciata non rappresenta dunque nulla, e le categorie sfavorite sono in realtà escluse dal gioco politico.

In fin dei conti, la verità e che la crescente folla dei poveri corre da un partito all’altro. I poveri sostengono il partito che è all’opposizione, nella speranza di trovare infine un rappresentante credibile, ma a partire dal momento in cui questo partito arriva al potere, tale speranza rimane delusa. All’epoca delle elezioni legislative del 2005, circolava un aneddoto su un candidato del Partito democratico, che incontra i responsabili della sua circoscrizione. Questi, inquieti, lo informano che il suo avversario socialista ha distribuito della farina agli abitanti di tutta la zona. E il candidato del PD rincara: «Ah sì? Presto, fate dunque arrivare dell’olio, così che il popolo faccia delle frittelle!»

In conclusione: la sinistra albanese ha bisogno d’un rinnovamento della sinistra europea

Come spiegavamo all’inizio facendo riferimento a Bobbio, possiamo considerare l’estrema sinistra come la combinazione di uguaglianza e metodi autoritari, e il suo polo opposto - l’estrema destra - come la combinazione di disuguaglianza e metodi autoritari. Possiamo dire dunque che se l’Albania ha conosciuto un regime d’estrema sinistra, ora, dopo 17 anni di transizione post-comunista, la tendenza ha virato verso l’estrema destra. Un gruppo di oligarchi controlla contemporaneamente il potere politico, concentrato nei due partiti principali, il potere finanziario e il potere mediatico. Questi oligarchi controllano anche il crimine organizzato, minacciando non solo la sopravvivenza economica dei cittadini, ma la loro stessa libertà. Gli estremi si toccano.

Sarebbe tempo di fare marcia indietro, per ritrovare quei valori e quelle politiche che considerano l’uguaglianza e la libertà come due obiettivi inseparabili. Bisogna svoltare davvero a sinistra. Jünger Habermas analizza la nascita dello Stato sociale in Europa Occidentale all’epoca del sorgere degli Stati nazionali come un passo in avanti rispetto al capitalismo selvaggio del 19° secolo. Egli utilizza il termine «ri-feudalizzazione», che mette in luce il bisogno da parte dello Stato di riprendere in mano le redini. Noi possiamo dire, per analogia, che nei Paesi ex-comunisti, come l’Albania che abbiamo descritto, c’è un bisogno di «ri-comunizzazione».

Abbiamo a che fare con una condizione specifica dei Paesi dell’Est in generale, che hanno bisogno della creatività delle classi politiche dei Paesi dell’Ovest per dare vita a una nuova sinistra. Per questo l’esistenza di una fascia debole della popolazione - l’elemento socio-economico - non basta. Questa non può riconoscersi come fascia socio-economica senza una sensibilizzazione di sinistra, senza una visione del mondo di sinistra, senza che vi siano soprattutto da parte dei giovani quella aspirazione e quella convinzione che essi poi sentiranno come esigenza di trasformazione in programma e azione politica.

Allo stesso tempo, non possiamo ignorare che questa «condizione specifica» non sarebbe tale al di fuori del contesto della vittoria dell’Occidente nella guerra fredda, e dell’apertura di Paesi come l’Albania alla mondializzazione, processo guidato dall’Occidente sotto degli impulsi in maggioranza di destra. L’assenza di una sinistra, ovvero l’esistenza di due destre, che rappresentano tutte e due gli interessi dei potenti, è tanto la specificità di un Paese post-comunista, quanto il riflesso, pur se deformato, di fenomeni in corso in Occidente. La sinistra non riesce a trovare una via per bilanciare la sfrenata dinamica neo-liberale che ha avuto inizio negli anni ’90.

Da questo punto di vista, la situazione di Paesi come l’Albania è anche l’espressione di una crisi della sinistra europea. Essa riflette il modo in cui si trasforma una società in cui sono scomparsi tutti i valori preservati e sviluppati dalla sinistra occidentale, e che la destra occidentale ha del resto rispettato in numerosi aspetti. Di conseguenza, la nascita d’una nuova sinistra nel nostro Paese è fortemente condizionata dalla rinascita della sinistra in Occidente nelle nuove condizioni date dalle sfide della mondializzazione, dell’emigrazione, delle minacce ambientali, dell’omogeneizzazione culturale, etc. Si tratta di rispondere all’individualismo massiccio che ha invaso l’Occidente in questi ultimi decenni, in cui la libertà è identificata con il consumo, il che produce una crescente passività sociale.

* Fatos Lubonja, all’epoca giovane diplomato in fisica, viene arrestato nel 1974 dal regime stalinista albanese. Ritrova la libertà solo nel 1991. Crea allora il Comitato Helsinki d’Albania per i diritti della persona. Nel 1994 fonda la rivista di critica politica e sociale Përpjeka. È autore di diverse opere, tra cui un romanzo abbozzato durante la detenzione.
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