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Se un'estate ...

05.08.2009    Da Pristina, scrive V. Kasapolli

Pristina Summer University - V.Kasapolli
Rosen, Maja, Fjolla, Louis, Samuel, sono alcuni dei giovani partecipanti alla nona edizione della Pristina Summer University. Le loro impressioni sul Kosovo, sul percorso di integrazione europea, sul rapporto tra istituzioni locali e internazionali
Promossa inizialmente nel 2001 da SPARK, un'istituzione no-profit olandese, la Pristina Summer University viene oggi totalmente gestita dall'Università di Pristina. L'edizione del 2009 (13-31 luglio), la nona in ordine temporale, ha raccolto 314 ragazzi e ragazze dal Kosovo, dall'Europa sud orientale e da tutto il mondo. Gli studenti hanno avuto l'occasione di scambiare esperienze, raccogliendo allo stesso tempo crediti accademici, spendibili al ritorno nella propria università di riferimento. I corsi sono tutti tenuti in lingua inglese, da docenti locali e stranieri. Oltre ai classici corsi universitari, la Pristina Summer University ha proposto eventi pubblici, forum, viaggi e attività ricreative. Nel suo insieme l'evento viene considerato un modello di cooperazione regionale e di riconciliazione inter-etnica, ma anche il modo migliore attraverso cui giovani da tutto il mondo possono scoprire il Kosovo. Per Pristina poi, soffocata dal caldo estivo, e con una vita culturale ridotta al lumicino, la Summer University rappresenta un'occasione unica e irripetibile. Osservatorio sui Balcani e Caucaso ha raccolto le impressioni di alcuni dei partecipanti.

Appena fuori dalla sede della Facoltà di lingue, Rosen, 22 anni, proveniente dalla Bulgaria, ci parla degli scambi a tutti i livelli che le istituzioni del suo paese e quelle di Pristina potrebbero avere in futuro, in pieno spirito europeo. Il suo discorso è diretto in modo evidente ai docenti kosovari che hanno appena terminato di condurre un panel sulle somiglianze tra la cultura del Kosovo e quella europea in generale. Il suo discorso, però, sembra cadere nel vuoto: uno dei docenti si limita a fare un cenno col capo prima di dileguarsi, l'altro svia subito il discorso verso temi politici. “Quando ci toglierete l'obbligo dei visti?”, chiede facendo riferimento alla politica europea sulla mobilità.

Rosen si dice affascinato dalle potenzialità dei giovani in Kosovo, nonostante le poche attenzioni delle istituzioni verso questa fascia di popolazione. Verso le istituzioni internazionali, poi, ha uno sguardo critico: secondo Rosen dovrebbero fornire un supporto reale alla popolazione per raggiungere standard europei, e superare le divisioni tra comunità albanese e serba, piuttosto che produrre report su report. Rosen espone i suoi dubbi anche sui reali poteri sul terreno. “Se compio un reato a Mitrovica nord”, chiede perplesso, “quale autorità ha il potere di arrestarmi?”.

Maja, 21 anni, è una dei 21 studenti arrivati quest'anno dalla Macedonia. Ci dice di essere rimasta molto sorpresa da un documentario sul Kosovo mostrato ai ragazzi del suo corso nella sede dell'International Civilian Office (ICO). “La povertà e la vittimizzazione dei soli albanesi del Kosovo non sono rappresentative della realtà”, sostiene Maja. “L'isolamento in cui vive la comunità serba è stato del tutto ignorato, e non credo questo sia un atteggiamento imparziale”.

La visita ad una delle sedi operative della KFOR viene descritta da Maja con una certa dose di ironia. “Prima di entrare ci hanno chiesto di restare in gruppo, di mostrare un documento d'identità. Poi però, nessuno si è degnato di controllarci, e nessuno ha controllato le nostre borse all'ingresso”.

Fjolla, 20 anni, è una dei 221 studenti kosovari che partecipano all'edizione 2009 della Pristina Summer School, dove segue il corso di archeologia funeraria, grazie al quale ha potuto partecipare allo scavo di una tomba nel sito di Ulpiana. “Senza conoscere il nostro passato, non possiamo costruire il futuro”, ci dice Fjolla, mentre chiacchieriamo lungo il perimetro dell'antica città di origine pre-romana.

In ogni caso, chi pianifica il nuovo volto di Pristina non sembra curarsi più di tanto del fatto che appena fuori del centro urbano giace insepolta un'antica città, un potenziale tesoro archeologico. Il professor Edi Shkukriu, uno dei docenti della Pristina Summer University, ci spiega che solo lo 0,8% del budget statale è diretto alla cultura, e per l'archeologia i fondi sono di fatto inesistenti, tanto che chi scava è spesso costretto a coprire personalmente le spese.

Matvey, 23 anni, proveniente dalla regione degli Urali, porta invece un punto di vista tutto russo sulla Summer School. Matvey viene a Pristina per la terza volta, attirato soprattutto dagli studi di letteratura e storia albanese. Matvey parla un ottimo albanese, imparato da autodidatta. Mentre chiacchieriamo, alcuni dei suoi compagni di corso kosovari lo prendono in giro benevolmente. “Ok, ma adesso la Russia deve riconoscere il Kosovo”, dice qualcuno, mentre altri affermano convinti “Matvey è uno dei nostri, dovremmo dargli il passaporto!”. Matvey ha deciso di continuare a visitare i Balcani durante l'estate, per poi andare a Tirana per studiare storia. Tra i suoi progetti futuri, c'è quello di lavorare grazie ai crescenti investimenti russi nella regione.

Quest'anno da Tirana arrivano 18 partecipanti. Edlir ha 21 anni, e studia architettura. Per lui si tratta della prima volta in Kosovo. Anche Edlir fa paragoni tra i corsi della sua università e quello che segue a Pristina. “Durante le lezioni di archeologia, qui a Pristina, ho l'occasione di osservare e toccare con mano le creazioni architettoniche di antiche civiltà, di cui sino ad oggi ho potuto soltanto leggere sui libri”.

Oltre che dall'Albania, molti studenti vengono dalla Bosnia, dalla Croazia, dal Montenegro e dalla Serbia. Quest'anno gli studenti serbi sono stati sistemati, per la prima volta, nella casa dello studente dell'università. Negli anni scorsi, infatti chi veniva dalla Serbia veniva fatto alloggiare separatamente in hotel per motivi di sicurezza. Dopo essere stati al centro dell'attenzione dei media locali durante la prima settimana dei corsi, durante la quale gli è stato chiesto soprattutto dei loro pregiudizi prima di venire a Pristina e dei loro rapporti con gli studenti albanesi, gli studenti serbi hanno deciso di non dare più interviste.

Per Louis, 23 anni, proveniente dalla Tailandia, non c'è questo tipo di carica emotiva. A suo avviso Pristina somiglia non poco al suo paese d'origine: strade affollate, auto che strombazzano all'impazzata, pedoni che lottano sui pochi marciapiedi. Louis attualmente vive in Germania, dove segue il corso di studi europei. Trova difficile capire il ruolo delle varie istituzioni, sia locali che internazionali, che si dividono il campo in Kosovo. Studiando da vicino i meccanismi di allargamento dell'Ue, Louis ritiene che il Kosovo avrebbe bisogno di un supporto più deciso da Bruxelles verso una piena integrazione.

Secondo Samuel, 27 anni, slovacco, gli albanesi reagiscono ancora in modo eccessivamente emotivo verso il conflitto, e marginalizzano i serbi. Pe lui questa non è la via europea alla soluzione dei conflitti. “Quando le frontiere cadranno, tutto questo nazionalismo sparirà”, dice, aggiungendo che gli slovacchi ci sono già passati al tempo della dissoluzione della Cecoslovacchia. Samuel ci racconta che sua madre ha cercato di dissuaderlo dalla sua idea di venire in Kosovo, preoccupata per la sua sicurezza, visto che i kosovari albanesi sono visti come “spacciatori e trafficanti di persone”.

“Quando sono arrivato, ho visto che Pristina non è poi tanto male, è una città europea con molti giovani e molto ottimismo”. Samuel spera che le aspettative molto alte non finiscano per rovesciare il quadro, visto che le cose non possono cambiare dall'oggi al domani, ma solo lentamente e con l'aiuto della comunità internazionale. “Dopo tutto siamo in Europa”, conclude, “e la soluzione deve essere l'Europa stessa”.
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