Di: Silvia Badon
Alla 60^ edizione del festival berlinese era presente anche la Bosnia Erzegovina, con una delle autrici più interessanti del momento. La giovane regista Jasmila Žbanić ha portato in concorso la sua nuova prova cinematografica: “Na putu” (“On the Path”).
Il film racconta la difficile storia d’amore di Luna e Amar, dopo il loro incontro con una comunità di musulmani integralisti. Luna vuole gettarsi il passato alle spalle e ricominciare una vita basata sull’amore, Amar invece, non ancora completamente libero dai fantasmi della guerra, trova un punto di riferimento in questa comunità, a cui Luna non riesce ad aderire. Le strade dei due protagonisti rischiano di separarsi irrimediabilmente, mentre Luna deve scoprire se l’amore è sufficiente per condividere lo stesso percorso.
La pellicola è una coproduzione internazionale di Bosnia Erzegovina, Austria, Germania e Croazia; tra i produttori compaiono anche l’attore Leon Lučev e la regista Barbara Albert, per la casa COOP9, impegnata nei recenti “Lourdes” e “Women without men”.
I protagonisti sono interpretati da due tra i migliori attori del cinema croato. Zrinka Cvitešić è stata selezionata quest’anno tra le Shooting Stars del Festival di Berlino, ha recitato nel film di Dalibor Matanić, “Volim te” (“I love you”), e si è distinta, già nel 2005, in “Sto je muškarac bez brkova?” (“What Is a Man Without a Mustache?”) di H. Hribar, vincendo il Golden Arena al festival di Pola e il premio della giuria a Sarajevo.
Nei panni di Amar ritroviamo Leon Lučev, che aveva già interpretato il ruolo di protagonista nel precedente film della Žbanić “Grbavica” (“Il segreto di Esma”), uno dei volti più famosi del cinema balcanico in pellicole come “Buick Riviera” di Goran Rušinović e “Iza stakla” (“Behind the glass”) di Zrinko Ogresta.
Jasmila Žbanić certo non è nuova alla passerella berlinese: nel 2006 vinse l’Orso d’oro proprio con “Grbavica”, interpretato da Leon Lučev e Mirjana Karanović.
Grbavica è un quartiere di Sarajevo, uno dei più colpiti durante l’assedio, dove Esma cerca di ricostruire una vita dignitosa per lei e la figlia Sara. Costretta a fare due lavori, nel locale notturno dove fa la cameriera, conosce Pelda, una guardia del corpo che si innamora di lei, ma Esma non riesce ad abbracciare quella felicità così attesa, nasconde un segreto tremendo che rende conflittuale il suo rapporto con la figlia e non le permette di superare il passato.
Il film della Žbanić è una delle prove cinematografiche più coraggiose che affronta il tema degli stupri di guerra, operati soprattutto in Bosnia durante il conflitto, usati come strumento bellico per spaventare la popolazione e distruggerne il tessuto sociale. La regista, attraverso il personaggio di Esma, tratta la difficile tematica con sensibilità artistica e femminile, da testimone diretta di quegli anni, quando abitava vicino al quartiere tristemente famoso per le violenze che vi avvenivano, soprattutto su donne musulmane. Girato con estremo realismo, ma senza una sola immagine esplicita di violenza, “Il segreto di Esma” è un film sul valore della maternità, di una gravidanza originata dall’odio e dalla sopraffazione, che cerca poi in tutti i modi di sopravvivere nell’amore per il figlio nato senza colpe. Quella di Esma e di Sara è la storia di una parte di figli bosniaci che cercano la loro collocazione in una società, nonostante i segni della storia siano ancora presenti.
In questi ultimi anni, Jasmila Žbanić è stata impegnata nella realizzazione del cortometraggio “Participation” (2008), breve vicenda di tre anziane signore, inserito in “Stories of human rights”, lavoro collettivo che ha coinvolto registi, artisti e scrittori internazionali, promosso dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani e ispirato alle sei tematiche della Dichiarazione Universale.
Tra il 2005 e il 2007, le vicende del ponte di Mostar hanno ispirato la regista in altri due corti: “Birthday” (2005), inserito nel film collettivo “Lost and found”, parla di due ragazzine, nate entrambe nel giorno del bombardamento del ponte ottomano, che, pur abitando nella stessa cittadina, non hanno mai potuto incontrarsi a causa delle divisioni fisiche e mentali; “Builder's Diary” (2007) invece segue il processo di ricostruzione dal punto di vista dei costruttori, che hanno rispettato le tecniche e i materiali del ponte originale.
“Grbavica” è stato il primo lungometraggio della Žbanić, che, fin dal suo esordio alla regia cinematografica, si è occupata del tema della guerra e delle sue conseguenze.
Dopo il diploma all’Accademia di Sarajevo e dopo l’esperienza di burattinaia e clown nel teatro “Bread and Puppet”, nel 1997 ha fondato, insieme ad altri artisti, l’Associazione
Deblokada, con cui ha prodotto e diretto numerosi corti, documentari, lavori di video-arte e gli ultimi film.
Nata a Sarajevo nel 1974, sin dai primi lavori degli anni ’90 Jasmila ha raccontato la tragedia della guerra con un’attenzione particolare all’infanzia: in “After, after” (1997), l’autrice entra in una scuola della sua città e raccoglie numerose testimonianze di bambini che erano rimasti lì durante l’assedio, con tatto e discrezione fa emergere le paure, gli incubi e le conseguenze psicologiche che il conflitto ha lasciato nei piccoli intervistati.
Il dramma dell’infanzia non è solo quello di chi ha vissuto la guerra, ma anche dei figli di rifugiati cresciuti all’estero, che, dopo la fine delle ostilità, sono dovuti tornare in patria, sradicati dal paese e dalla realtà sociale a cui ormai si erano abituati, come la protagonista del corto “To and Fro” (2002).
Nei numerosi documentari, la scelta dell’autrice è stata quella di raccontare le ferite di un intero popolo, attraverso le vicende personali della gente comune. “We light the night” è il titolo di un breve documentario del 1998, in cui lo spettatore entra nella vita dei fratelli Kreševljaković (autori di “Do you remember Sarajevo?”), musulmani che vogliono girare un film su di loro durante il periodo del Ramadan; la luce del titolo è quella della città, delle strade, delle case, ma anche quella interiore delle persone.
In “Red rubber boots” (2000), la macchina da presa segue il duro percorso di Jasna P., una delle numerose donne che girano per il paese alla ricerca delle spoglie dei parenti defunti. Jasna ha perso due figli, uccisi ancora bambini dall’esercito serbo e seppelliti in una fossa comune; di loro ha come unico elemento di riconoscimento gli stivaletti rossi che indossavano al momento della scomparsa.
Infine “Images from the corner” (2003), presentato in numerosi festival internazionali, nasce da una fotografia, l’immagine di Bilja, scattata da un fotografo francese nel 1992, mentre la ragazza giaceva per strada, ferita da una mina. La fotografia rese famoso il suo autore, così la regista bosniaca decide di ricostruire i fatti del ferimento e cercare la giovane, sua vicina di casa. Ne emerge una riflessione critica sul ruolo della stampa nei luoghi di guerra, al confine tra l’importanza della vita umana e la necessità dell’informazione.