Insieme sugli sci. E’ questa la nuova piccola sfida vinta dal Tavolo trentino con il Kossovo che, grazie a progetti creativi, è in questi anni riuscito a mettere in contatto e a confronto ragazzi serbi, albanesi e rom.
Bresovica
Bresovica è in questo periodo ancor piena di neve. Le montagne attorno sono dolci, non aspre come alcune parti delle Alpi. I seggiolini con pianale in legno si stagliano contro il cielo terso. Questa località sciistica, la più rinomata del Kossovo, si trova molto vicino al confine con la Macedonia. Poche decine di chilometri da Prizren, poco di più da Tetovo.
Un gruppo di ventisei ragazzi. Dodici albanesi, quattro rom e sei serbi. Una settimana bianca. Nulla di particolare. Se non essere in Kossovo. Il Kossovo della libertà di movimento negata, delle enclaves, il Kossovo nel quale alcune ferite segnate profondamente dalle milizie di Milosevic sono ancora aperte.
Eppure la settimana bianca procede tra su e giù per gli impianti, pause agli improvvisati baracchini lungo le piste, serate che si concludono con lunghe chiacchierate in una stanza o nell’altra. “C’era in realtà qualcosa in più rispetto ad una settimana bianca tradizionale” - racconta Mauro Barisone, del Tavolo trentino con il Kossovo, coordinamento di associazioni presente a Pec/Peja fin dal 2000 - “sono state organizzate quattro riunioni serali dove abbiamo in particolare parlato del centro culturale che siamo intenzionati ad aprire in città, dei progetti che potremmo affrontare in futuro e poi di tematiche generali quali quelle dell’AIDS e dell’alcolismo”.
Non è la prima volta che Mauro propone progetti di questo tipo. I suoi percorsi di rionciliazione tra le tre comunità che abitano l’area di Pec/Peja sono passati attraverso la fotografia, il teatro, l’arrampicata sportiva e la tutela ambientale. Quest’estate vi era già stata la prima esperienza comune fatta da ragazzi serbi ed albanesi. Tra le belle pareti della Val Rugova, un paradiso naturale che inizia poco sopra il famoso Patriarcato ortodosso di Pec/Peja e porta sino al Montenegro. Tra chiodi, corde e caschetti di protezione si era iniziato a riparlare di una possibile convivenza, ma anche di fare serate insieme in centro città. E poi ci si è ritrovati tutti sugli sci.
“Negli incontri serali c’era chi era un po’ imbarazzato ad intervenire, soprattutto i ragazzi più giovani” -continua a spiegare Mauro - “non è stato invece così per quanto riguarda le altre numerose occasioni
di parlarsi e confrontarsi, a partire dal tempo passato a giocare a carte o dalla fila per aspettare il proprio turno per la risalita. Da notare però che è tutto avvenuto in modo spontaneo, il mio intervento è stato quasi nullo”.
“Ormai la maggioranza di noi albanesi ritiene debba essere un tribunale a giudicare i colpevoli per i crimini commessi durante la guerra e non la gente comune. Certamente ci vorrà ancora del tempo e le ferite sono ancora aperte ma la direzione verso la riconciliazione è l’unica strada percorribile” - afferma una sera Murat, uno degli istruttori di sci albanesi che accompagna il gruppo - “il fatto di essere qui tutti insieme a divertirci e a discutere, dimostra che ciò è possibile. Ed io parlo così dopo che mi hanno bruciato cinque case e ucciso alcuni parenti e amici.” Ribatte Vlado, ragazzo serbo che vive nell’enclave di Gorazdevac “Io non voglio più guardare indietro e dire quello che hanno fatto a me o ai miei amici, se discutiamo di quello non ne veniamo più fuori. Dico solo che se ho bisogno di curarmi un dente devo andare a Belgrado”. Interrompe Gazi, albanese “Quando hai bisogno chiamami, ti accompagno io dal dentista e ti assicuro che non ti accadrà nulla”. “Ok” - risponde Vlado - “dammi il tuo numero di telefono e la prossima volta ti chiamo, ma come fai a dire che non mi accadrà nulla?”. “Te lo dico perché so come la pensano i miei amici in città” - risponde Gazi, e continua - “lo scorso anno, quando dicevano che per noi albanesi era pericoloso venire a sciare qui, io e altri siamo venuti lo stesso, rischiando volontariamente e c’è andata bene, forse anche voi serbi dovreste osare un po’ di più e non avere tutta questa paura della città”. Intervengono anche Lale e Radica, serbi: “Anche noi non vogliamo guardaci indietro, non ne possiamo più di stare rinchiusi e vogliamo solo divertirci e andare avanti. Per noi già essere qui è un sogno. A noi giovani non interessa la politica”.
“Naturalmente sono molte le questioni aperte, i nodi da sciogliere” - continua Mauro - “a partire da un vero e proprio problema di comunicazione, non tutti i ragazzi albanesi sanno il serbo e nessun serbo conosce l’albanese”. I ragazzi più giovani iniziano infatti ad essere parte di quelle generazioni cresciute con la separazione etnica. Prima della guerra, anche se non vi era in Kossovo una convivenza quale quella vissuta in Bosnia, le due comunità si incontravano e comunicavano quotidianamente. Questo ora non avviene più e la prima vittima della separazione è stata la reciproca conoscenza linguistica. “Ma proprio da questa problematica è nata una delle proposte più interessanti: organizzare nel centro giovanile, che tra poco inaugureremo, un corso in serbo ed uno in albanese”, ricorda Mauro.
L’inaugurazione è in previsione per i prossimi giorni. Il centro giovanile sarà aperto a tutte le comunità che abitano la municipalità di Pec/Peja. E non è una questione prettamente formale parlare di multietnicità perché i primi passi per rendere possibile un centro effettivamente multietnico sono già stati fatti. Si è già deciso infatti che i gruppi che si occupano di fotografia, prima separati, si uniranno ed avranno sede nel centro. Così sarà anche per i gruppi teatrali, anche se non in un primo momento perché vi sono dei progetti avviati e vi è inoltre il problema della comunicazione linguistica. E' emerso poi dagli stessi ragazzi che avendo tra poco un centro comune anche i progetti dovranno essere pensati non più come in passato divisi in due ma con una visione unica.
Sempre le parole di Mauro. “Di ritorno dalla gita, siamo entrati con l’autobus in Gorazdevac, l’enclave serba nei pressi di Pec/Peja. Tutti i ragazzi sono ammutoliti nel veder scendere in quella specie di prigione i sei ragazzi serbi. A tutti quanti è sembrato assurdo, che dopo sei giorni passati insieme a sciare, ballare, giocare a carte e a discutere, ora doveva tornare tutto come prima. I ragazzi albanesi mi sono sembrati sinceramente dispiaciuti nel veder scendere con le lacrime agli occhi Lale, Vlado, Igor, Radica e Ivana. Il saluto è stato caloroso. I ragazzi hanno visto quanto poteva essere bello vivere, anche se solo per sei giorni, senza problemi di divisione, senza dover giustificare un incontro, senza la paura di essere giudicati. Penso che l’entrata in Gorazdevac dopo quella settimana sia stata la cosa più significativa e importante di tutta la gita. Un grosso passo avanti verso l’abbattimento di quel muro”.