Tanya Mangalakova, corrispondente dell’Osservatorio, è autrice di questo lungo reportage dal Kossovo.
Una famiglia kossovara
Da Lenin a Clinton
Gli albanesi del Kossovo sono perdutamente innamorati degli americani. Una delle vie principali di Pristina ha rapidamente cambiato nome. Prima era dedicata a Lenin ora invece all’ex Presidente USA Bill Clinton. Sempre nella capitale kossovara il nuovo 'Hotel Vittoria' espone in bella mostra una copia della Statua della libertà e poco distante vi è la caffetteria Hillary. Manca solo Monica Lewinsky.
Fedeltà unanime agli americani è stata più volte dimostrata anche durante la guerra all’Iraq, e sono stati molti i paralleli tra quanto fatto nel 1999 dalla NATO per garantire la libertà e la democrazia agli albanesi del Kossovo e quanto fatto negli ultimi mesi da Bush per spodestare Saddam Hussein. Ed il conflitto in Iraq ha alzato la tensione anche nei Balcani. Dove agli inizi di aprile molti media hanno dato risalto all’opinione espressa da Francisco Veiga, professore presso l’Università di Barcellona, secondo il quale durante il conflitto in Iraq gli Stati Uniti avrebbero deciso di appoggiarsi ad un alleato che si era dimostrato fidato nei Balcani e quindi di favorire la nascita di una 'Grande Albania'. Molti quotidiani e riviste hanno addirittura pubblicato possibili mappe geografiche di come potrebbero essere stravolti i confini dei Balcani. In tutte le strade di Pristina per 5 euro è possibile acquistare una cartina raffigurante la 'Grande Albania' che arriverebbe quasi sino a Niš, comprendendo tutto il sud della Serbia, la Macedonia occidentale, il Kossovo, l’Albania ed il nord della Grecia.
Le due rive del fiume Ibar
La separazione di Mitrovica lungo le due rive del fiume Ibar è indicativa sul futuro dell’intera regione. La parte meridionale della città è abitata dalla comunità albanese. Tutte le scritte sono in albanese e le strade brulicano di vita; il commercio è fervido e tutti gli scambi avvengono oramai in euro. La parte settentrionale di Mitrovica è invece caratterizzata ancora da molte case distrutte e bruciate, le scritte sono in serbo e gli scambi commerciali avvengono in dinari. Non è raro trovare graffiti del tipo 'Seselj Presidente'. Olivera Milosevic, rappresentante dell’associazione 'Donne per Mitrovica nord', ci aspetta nei pressi del ponte che attraversa il fiume Ibar, controllato dal contingente francese della KFOR. Ci farà da guida nella parte serba della città. “Questo è il Kossovo multietnico”, ci dice puntando con il dito ad una decine di case distrutte appartenute un tempo a famiglie Rom. Sono case che sono state bruciate dagli albanesi per vendetta e la KFOR non è riuscita a proteggerle adeguatamente. Nonostante tutto, Olivera ha ancora amici nella parte meridionale della città con i quali sta percorrendo la lenta strada della riconciliazione. “Ma nel caso il Kossovo divenisse indipendente lo lascerei per sempre”, chiarisce perentoria. I serbi di Kosovska Mitrovica vivono isolati nella loro parte di città. Possono unicamente spostarsi verso le altre enclaves serbe oppure verso la Serbia grazie ad un servizio di autobus. Queste linee di trasporto vengono denominate 'I corridoi blu'.
Il 4 aprile 2003 migliaia di serbi sono scesi nelle strade a Mitrovica nord per protesta contro Michael Steiner, a capo dell’UNMIK, che aveva reso nota la decisione di trasferire alcuni poteri dell’UNMIK alle autorità locali. Tra gli altri lo slogan “Per i serbi e non per un Kossovo indipendente”. Dopo le manifestazioni ho avuto la possibilità di incontrare Nebojsa Jovic, a capo del Consiglio nazionale per Mitrovica nord, accusato dalla missione ONU di istigare, negli ultimi anni, al disordine nei rapporti tra UNMIK e serbi. “Vedo nel futuro un Kossovo diviso: una zona serba comprendente Kosovska Mitrovica, Leposavic, Svecan, Zubin potok, Srpce, Gniljane, Priruzie e Gracanica. In qualche modo anche parte di Decane e parte della municipalità di Pec dovranno far parte di quest’Entità”, ha affermato. Secondo Jovic inoltre i dialoghi sullo status finale dovrebbero essere tenuti tra Pristina e Belgrado. “Attualmente Mitrovica è una città dal duplice aspetto. Il sud di Mitrovica è già etnicamente ripulito. Tra gli albanesi non vi è alcun desiderio di una vita in comune con i serbi e di convivenza multietnica” - continua Jovic, che poi chiarisce come - “La soluzione non può che essere in una divisione del Kossovo, magari attraverso una divisione in cantoni senza che avvenga alcun cambiamento nei confini. La prima cosa alla quale dobbiamo arrivare è innanzitutto guardarci in faccia con gli altri”. Jovic poi ha richiesto il rientro di tutti i profughi serbi che hanno lasciato la regione. “Solo mille dei serbi che hanno lasciato la regione sono rientrati. Probabilmente ha avuto occasione di sentire le parole di Marek Novicki, ombudsman del Kossovo, che ha affermato che la situazione dei serbi non è affatto diversa da quella degli albanesi quando hanno lasciato il Paese: tutte le posizioni erano allora in mano ai serbi, ora sono in mano agli albanesi”.
Nella parte sud della città ho invece incontrato Florije Ibishe, rappresentante di una organizzazione che riunisce imprenditrici della città, che, tra l’altro, siede tra i banchi del consiglio municipale di Mitrovica. Da lei sono venuta a sapere che uno dei principali obiettivi dell’amministrazione municipale è quello di arrivare a registrare tutte le attività economiche presenti sul territorio. Ma la divisione tra le due parti della città è così profonda che per registrare le imprese economiche femminili avviate nel nord della municipalità occorre che una rappresentante dell’associazione vi si rechi di persona: in pochi infatti osano attraversare il ponte sul fiume Ibar se non scortati dalla KFOR.
Sino ad ora sono stati registrati 300 imprenditori residenti nel nord di Mitrovica. Florije ha continuato a ripetere due parole chiave in Kossovo: multietnicità e donatori. Facendo chiaramente capire come i finanziatori internazionali si aspettino ora di finanziare progetti di rilancio di attività economiche nelle quali vengano coinvolti i differenti gruppi etnici. Non sembrano però esserci le garanzie che questi milioni di dollari non spariscano come l’acqua nella sabbia. Imran Avdiiu è proprietaria di una boutique nel centro della città. Racconta come sia stata obbligata ad abbandonare la propria casa nella parte serba della città e come ora vi abiti una famiglia serba originaria di Vustri. Da allora ha visitato un’unica volta la sua casa, scortata dai militari della KFOR. La storia di Imran palesa le logiche assurde di questa guerra. Attraversando il paese di Vustri ho infatti visto molte case albanesi ricostruite e quelle serbe invece ancora distrutte. Vi è una nuova moschea a Vustri costruita seguendo un modello pseudo-barocco particolarmente kitch. Il minareto assomiglia ad un missile. E sulla strada tra Vustri e Pristina vi sono villaggi abitati esclusivamente da albanesi.
L’affascinante Imran è ottimista sul futuro del Kossovo. “Sul lungo periodo le due comunità vivranno nuovamente insieme se riusciremo a liberarci degli estremisti”. Le chiedo se è a conoscenza di casi di matrimoni misti. Prima della guerra ve ne era qualcuno e non era troppo raro che uomini albanesi sposassero donne serbe, bosniache o turche. “Anche adesso i giovani potrebbero innamorarsi ma non vi è semplicemente alcun posto nel quale abbiano la possibilità di incontrarsi”, sostiene Imran. Tre sarte lavorano nel suo laboratorio e la sua attività economica ha superato la fase nella quale ci si concentrava sulla mera sopravvivenza: per questo Imran sta pensando alla possibilità di espandersi. Avendo visto spesso in campagna grandi e lussuose ville, chiedo a Imran perché non chieda dei prestiti a qualche albanese facoltoso. Al posto di rispondere Imran scoppia in una sonora risata.
Le istituzioni parallele serbe
In aprile i serbi di Gracanica e Leposavic hanno duramente protestato contro l’ipotesi di un Kossovo indipendente. Ho incontrato a Gracanica Rada Traikovic, deputata nell’Assemblea di Pristina. Sull’entrata di casa sua una targa: “Centro di coordinamento del Consiglio nazionale serbo per il Kossovo e Metohia”. Uno dei pochi luoghi dove ancora si può leggere la denominazione Kosmet, per riferirsi al Kossovo, definizione assolutamente non riconosciuta dalla comunità albanese. Rada Trajkovic afferma immediatamente che la presenza dei serbi nell’Assemblea di Pristina non è altro che una copertura, un tentativo di mostrare quella multietnicità che nei fatti assolutamente non esiste. Assicura poi che nessun serbo della Serbia è a sostegno di un Kossovo indipendente e che, mentre la comunità albanese non sembra che vedere l’opzione dell’indipendenza, vi è più disponibilità al compromesso da parte serba. Tra le varie ipotesi una sorta di cantonizzazione del Kossovo o la divisione in due Entità autonome, quella serba naturalmente legata a Belgrado. Rada Traikovic non ha nascosto la propria delusione quando le ho chiesto di descrivermi le istituzioni parallele istituite dai serbi, in particolare nel campo dell’educazione e della sanità. “Sono istituzioni emergenziali, per salvarci la vita. L’ospedale di Pristina non ha assunto nemmeno un serbo, gli impiegati degli uffici postali non parlano serbo, non vi è alcun programma televisivo in serbo. Non possiamo andare a teatro perché tutti gli spettacoli sono in albanese e così avviene anche al cinema. I serbi hanno paura anche ad utilizzare il trasporto pubblico”. Racconta poi come i serbi di Gracanica abbiano creato tre piccole strutture ospedaliere che garantiscano un minimo di assistenza medica e come i bambini frequentino scuole private”.
Un villaggio 'completamente serbo ed ortodosso'
Il villaggio di Strpce è situato sulle pendici del monte Sar, non lontano da Pristina ed è abitato da serbi. Avvicinandosi, il primo colpo d’occhio cade sui militari della KFOR e sui loro posti di blocco all’entrata del paese. I bambini giocano davanti alla scuola dedicata a 'Jovan Covic'. La vita è ritornata ad un’apparenza di normalità che si incrina già osservando le targhe della automobili. Ciascuno ne possiede due. Una con l’abbreviazione KS. Con questa si può viaggiare in Kossovo, Albania e Macedonia; un’altra con l’abbreviazione della città kossovara di riferimento. Con questa si può viaggiare dappertutto. Paradosso simile con i passaporti: con quello rilasciato dall’UNMIK non si può che rimanere all’interno del Kossovo, con quello Jugoslavo si può invece muoversi liberamente (naturalmente solo dopo aver ottenuto i vari visti!). Due anziani di Strpce mi spiegano come questo sia un villaggio “esclusivamente serbo ed ortodosso”. “Anche se mi offrissero 100.000 DM non andrei a Pristina. Mi sposterei solo a Skopje o Belgrado”, spiega con fervore uno dei due e poi ordina subito qualcosa da bere. Gli abitanti di Strpce si sono divisi alle elezioni amministrative dello scorso anno e sono arrivati a proporre candidati appartenenti a ben dieci partiti differenti. Questo nonostante la logica dell’appartenenza etnica avrebbe voluto che i voti serbi non venissero dispersi, considerando che nella municipalità di Strpce vivono e quindi votano anche molti albanesi.
Magliette e radicali
A Kossovo Polje sono pochi i serbi rimasti. Hanno comunque un loro locale dove domina, su di una parete, una fotografia di Slobodan Milosevic. E’ lì che ho incontrato Nebojsa, originario di Lipljan. Quest’ultimo immediatamente, all’inizio dell’intervista, ha tolto il maglione per mostrarmi una maglietta con la scritta 'Eroe serbo' ed il ritratto di Radovan Karadzic. Vi sono solo 300 serbi che vivono nella vicina Pristina e la maggior parte di loro sono anziani. Nebojsa subito si scaglia non contro gli albanesi originari del Kossovo ma contro quelli originari dell’Albania. “Il Kossovo è una terra sacra ai serbi. Gli albanesi sono dei codardi. Se si ritirasse la KFOR in 24 ore l’esercito jugoslavo sarebbe in grado di riprendere possesso di queste terre e risolvere la questione. Adesso siamo sull’uno pari ma un’altra guerra cambierà la situazione”, annuncia in modo funesto Nebojsa.
I processi ai Generali
Una questione calda in Kossovo sono i processi agli ex comandanti dell’Esercito di liberazione nazionale del Kossovo (UCK). Il portavoce del partito di Hasmin Thaci, Fatmir Limaj, tra gli 'eroi' della guerra di liberazione del Kossovo è stato arrestato e trasferito all’Aja. Assieme a lui altri ex-comandanti dell’UCK come Hairadin Bala, Isak Misliu and Agim Murtezi. Il generale Fabio Mini, della KFOR, ha dichiarato recentemente che il Tribunale dell’Aja ha richiesto l’estradizione di dieci ex comandanti dell’UCK, alcuni dei quali hanno creato propri partiti. Questo a Pristina è stato inteso come un messaggio parecchio esplicito che i prossimi a volare all’Aja potrebbero essere Hashim Thaqi, presidente del PDK, Ramush Haradinaj, presidente dell’AKK e Agim Cheku ora a capo dei Kosovo Protection Corps.
Ho incontrato Hashim Thaqi il quattro aprile scorso. Prima di raggiungere la sede del suo partito abbiamo incrociato una folla di albanesi che protestava richiedendo il rilascio dei membri dell’UCK reclusi all’Aja. Ho iniziato la mia intervista chiedendo della dichiarazione, sostenuta da molti membri dell’Assemblea kossovara, di un Kossovo indipendente. Ma Hashim Taqhi ha evitato di rispondere alla maggior parte delle mie domande ed ha controbattuto con risposte molto brevi e standard. Alla mia domanda in merito al rientro dei profughi serbi ha risposto affermando che sono già 8.000 quelli che hanno fatto ritorno in Kossovo. Gli ho inoltre ricordato che durante una visita a Sofia, risalente a qualche anno fa, aveva affermato che il Kossovo aspirava ad una rapida democratizzazione ma per ora versava nel caos e nelle mani della criminalità organizzata. Gli ho chiesto come il crimine organizzato può essere combattuto. Ma Thaqi ha negato di aver affermato quanto io ho riportato, ha anzi iniziato ad innervosirsi e, dopo une breve occhiata al suo responsabile per le pubbliche relazioni, si è accomiatato affermando di aver alcuni appuntamenti che non potevano essere rimandati. Prima che lasciasse la stanza gli ho posto un’ultima breve domanda ed ho disteso sul tavolo una cartina della 'Grande Albania', comperata in strada a Pristina. “Ma ovunque anche nelle strade di Sofia si può trovare una cartina della ‘Grande Bulgaria’”, il suo commento. “Ma non ad ogni angolo” rispondo io riferendogli poi delle mie interviste ad alcuni studenti dell’Università di Pristina che si sono detti pronti a sacrificare il proprio sangue per una 'Grande Albania' e faccio notare come cartine di questo tipo certo non aiutino a stemperare la tensione. Ma da lui nessun altro commento. Gli ho chiesto poi cosa pensasse dell’estradizione all’Aja del portavoce del suo partito, Fatmir Limaj. “Questioni come queste devono essere di competenza del Governo del Kossovo”, ha risposto lui prima di lasciare definitivamente la stanza.
Prizren, la democrazia senza l’elettricità
Il panorama di Prizren è costellato di moschee e minareti, chiese cattoliche ed ortodosse, ma può difficilmente essere definita multietnica. Ho intervistato tre profughi serbi attualmente residenti presso il monastero ortodosso intitolato a Cirillo e Metodio. Tra loro una coppia mista. “Siamo obbligati a vivere qui, non sono stato in grado di trovare alcun altro posto”, dichiara Zekir Morian, albanese, sposato con Ruza Banovic, serba. Entrambi desiderano emigrare in Australia ma stanno aspettando i visti di ingresso. “Grazie a Dio non abbiamo bambini” - afferma Zekir - “altrimenti con i 24 euro al mese che riceviamo dall’assistenza sociale non saremmo assolutamente in grado di mantenerli”. Nel monastero risiedono anche alcuni anziani. Le loro pensioni non superano i 28 euro. “Di chi la colpa?” chiedo. “I politici se ne riempiono le tasche”, brontola Olga. “Mio marito è morto, mia figlia soffre di epilessia e siamo qui prigionieri”.
Tutte le chiese ortodosse a Prizren sono controllate da veicoli armati della KFOR. Nel centro città, nei pressi della moschea più antica, vi è la chiesa di San Giorgio, eretta nel 1856 e che, sino al 1999, ha ospitato l’episcopato di Ras-Prizren. Le icone da tutto il Kossovo sono state raccolte qui. “Vi sono solo 63 serbi a Prizren dei quali solo 20 sono persone in grado di lavorare e di guadagnarsi da vivere. Nel 1999 i serbi della municipalità erano 12.000”, racconta padre Alexander. “Quattro anni sono passati dalla fine della guerra ed ancora nessuno è rientrato. Non ho nessun posto dove andare. A volte vado a Belgrado a visitare la mia famiglia. Sono andato solo quattro volte a vedere casa mia, naturalmente rinchiuso i un blindato della KFOR”, ricorda il prete.
Prizren sembra ospitare due mondi paralleli. Mentre i serbi sono isolati e depressi e vivono con il pensiero che non vi è alcuna prospettiva per il futuro, l’altra parte della città è riempita dall’energia degli albanesi che vivono come se la guerra non vi fosse mai stata. I negozi sono pieni, la vita continua. In un caffè ho incontrato Yulzime e Kimete, appartenenti alla diaspora causata dalla repressione seguita alle proteste studentesche nel 1981 e fuggite in Germania. “Siamo stati rifugiati politici”, chiarisce subito una delle due donne. Chiedo loro se ritengono possibile un’unificazione di Kossovo e Macedonia occidentale. “Perché no? Non vi è alcun problema tra di noi. Non vogliamo sottomettere un popolo straniero. Vogliamo solo che il popolo albanese si possa riunire e possa avere la propria terra. Si, vogliamo riunirci ma non in quella che la propaganda serba chiama ‘Grande Albania’”.
Di fronte all’ufficio postale incontro un gruppo di anziani albanesi che ricordano gli alti stipendi percepiti in passato. “Ed ora ci troviamo in una pseudo-democrazia dopo che tutto ciò che è stato progettato da Tito è fallito”, afferma uno di loro, originario di Opae, una municipalità dove vivono albanesi insieme ai gorani (slavi convertiti all’Islam).
Le città, ma anche le campagne, è sottoposta a rigidi tagli dell’energia elettrica. Una sera, mentre mi dirigevo verso un Internet caffè, la corrente è stata tagliata ed il ‘panorama acustico’ era caratterizzato quasi esclusivamente dal rumore dei generatori. “Che democrazia può esserci senza elettricità?”, si chiedeva un giovane albanese assunto da una piccola radio locale dove infine ero riuscita a controllare la mia posta elettronica.