Roberto Bertoli lavora da anni a Peja, Kossovo occidentale, è il responsabile di Bergamo per il Kossovo. Si sta occupando di rientri delle minoranze. Lo abbiamo intervistato. Fornisce un punto di vista diverso e stimolante su quanto sta avvenendo.
Prizren, mura della chiesa ortodossa (Foto Paola Villa)
OB: Quale la situazione in queste ore in Kossovo?
Roberto Bertoli:Noi vediamo una situazione diversa da quella che evidentemente hanno percepito altri, da quella che emerge dalla stampa internazionale. In questo momento c’è una sensazione di tranquillità, siamo però tra i pochi che continuano a circolare in città mentre molti internazionali sono impauriti. In questi giorni abbiamo frequentato il centro città ed i villaggi dove lavoriamo. Non abbiamo avuto alcun problema anche se tutti sanno che lavoriamo in progetti che riguardano il rientro dei serbi. Questo non vuol dire che la situazione sia tranquilla ma che la lettura che si sta dando su ciò che sta succedendo in Kossovo non tiene conto di alcuni elementi che invece sono da sottolineare.
OB: Un’esplosione di violenza strettamente legata alle vicende di Mitrovica?
RB: La mia impressione, e ne stiamo cercando di discutere il più possibile tra di noi e con i nostri interlocutori albanesi, è che si tratta di un’esplosione che poteva avvenire su qualsiasi fatto. C’era quindi una situazione che covava, molto complessa dal punto di vista innanzitutto politico.
OB: In che senso?
RB: Vi è la sensazione che con UNMIK e le Nazioni Unite non si vada verso la soluzione dei problemi del Kossovo. Ed inoltre si ritiene che le Nazioni Unite subiscano troppo l’influenza della Serbia. I cambiamenti che la popolazione si aspettava o perlomeno una situazione più chiara apparivano sempre più lontani. Di qui l’individuazione di UNMIK come uno dei nemici principali. L’ONU è divenuta un target su cui concentrare la propria opposizione.
OB: Certo ha influito anche la drammatica situazione sociale ed economica che sta vivendo il Kossovo?
RB: Dal punto di vista sociale la situazione è drammatica. Il Kossovo è un Paese che ha il 70% di disoccupazione, una situazione economica incancrenita che non si sviluppa, privatizzazioni bloccate e molte industrie che vanno avanti solo per la mera sopravvivenza ma senza alcuna prospettiva per il futuro. E chiaramente anche la diminuzione degli aiuti internazionali ha ulteriormente affossato una situazione già problematica. Il livello di impoverimento è aumentato sensibilmente negli ultimi anni. Un terzo elemento da non sottovalutare è rappresentato dal disagio giovanile. Le manifestazioni nell’area di Peja hanno visto una grandissima presenza giovanile ed in particolare nei momenti più tesi. Con ragazzi in prevalenza dai sedici ai diciotto anni. Sono coloro che hanno vissuto indirettamente la guerra. Sono i “fratelli piccoli” e quindi non si sono sentiti partecipi del cambiamento e della rivoluzione kossovara. Questo è la prima occasione nella quale poter manifestare anche il proprio disagio. E’ come assistere a manifestazioni di giovani dopo le partite di calcio in Italia: riflette ripeto un disagio sociale e una voglia di sfogare le tensioni contro quello che rappresenta l’autorità, che rappresenta l’autorità negativa. Quindi in questo senso ci sono state tensioni con la polizia internazionale, vista come una controparte, e poi la distruzione di ciò che viene percepito come un limite al proprio futuro.
OB: Un disagio espresso però in modo molto violento …
RB: Occorre però considerare che gli albanesi non hanno tirato fuori le armi. E tutti ce le hanno. Questo non è secondario. E’ bene che venga sottolineato. Tutte le manifestazioni, secondo le informazioni che qui abbiamo, sono manifestazioni senza armi. Non c’è l’atteggiamento di chi dice: “adesso ci prendiamo il Kossovo, o adesso o mai più”. Emerge di più la volontà di dimostrare alla comunità internazionale che non se ne può più di questa situazione. Io inizio a pensare, forse esagerando, che quello che sta avvenendo in Kossovo faciliterà dei percorsi, e non invece il contrario. Non ne sono ancora convinto, non ho ancora tutti gli elementi per sostenere un’affermazione che è naturalmente un po’ pesante, ma stiamo iniziando a capire che forse dopo cinque anni di disattenzione della comunità internazionale per la prima volta i kossovari sono riusciti a dimostrare che sono un popolo, che possono contrattare, che possono chiedere delle cose.
OB: Ma i kossovari hanno propri rappresentati eletti …
RB: Un altro elemento scatenante è stato proprio l’incapacità dei loro politici di essere un punto di riferimento. Un esempio le manifestazioni qui in città. Il primo giorno la situazione è sfuggita di mano ai politici locali, il secondo meno ed infatti la situazione, a quanto ne sappiamo, sta lentamente entrando in canali non violenti.
OB: Dalle tue parole emerge un carattere spontaneo di quanto sta avvenendo …
RB:Certamente. Un elemento che nessuno ha sottolineato è che il primo giorno erano già programmate, in molte le città del Kossovo, manifestazioni dei reduci dell’UCK. Per chiedere al proprio governo il rispetto del ruolo avuto durante la guerra ed il riconoscimento di una serie di diritti. La manifestazione di Pec all’inizio era una manifestazione dei reduci ma poi, con le notizie che arrivavano da Mitrovica, si è trasformata in manifestazione di massa. Io ho l’impressione che non vi fosse alcun livello di organizzazione dietro a quanto avvenuto. In quel momento la reazione violenta è stata anche frutto dell’intersezione da una parte della spinta popolare, dall’altra dei reduci.
OB: Manifestazione che poi si è diretta a Bjelo Polje, nei sobborghi di Peja, dove sono satte bruciate alcune case di serbi da poco rientrati. Anche Bergamo per il Kossovo era coinvolto in questi rientri?
RB: Abbiamo seguito l’intero processo ma non siamo mai stati coinvolti direttamente nel progetto. Lo riteniamo infatti completamente sbagliato. E’ calato dall’alto, non è stato fatto nessun lavoro di riconciliazione, nessun lavoro con la comunità locale, è stato fatto sulla testa della autorità locali e dei rappresentanti del Kossovo. Altra condizione necessaria a definire dei progetti di possibile rientro è far accettare a chi rientra il ritorno in una realtà diversa rispetto al Kossovo che hanno dovuto abbandonare. Contemporaneamente occorre coinvolgere le autorità locali che almeno a parole affermano di non essere in assoluto contro i rientri. Affermano che il Kossovo deve essere multietnico ma vogliono essere coinvolti, ed esigono che i rientranti rispettino il contesto in cui ritorna.
OB: Serve un riconoscimento reciproco che ancora sembra non esserci …
RB: Occorre che i serbi rientranti rispettino l’autorità kossovara, che piaccia o non piaccia. Allo stesso tempo occorre naturalmente pretendere dall’autorità kossovara il rispetto totale per i diritti delle minoranze. E quindi l’accesso ai servizi, la possibilità di accedere agli ospedali. Se la logica continua ad essere quella di costruire strutture parallele si va verso il totale fallimento. In questo contesto Bjelo Polje non è certo un buon esempio. E’ stato imposto dall’alto. Il giorno nel quale sono scoppiati i primi problemi io ero a discutere con il vice-sindaco di Peja sugli interventi che stiamo facendo per il rientro dei serbi nei villaggi che seguiamo. Noi coinvolgiamo le autorità locali, li obblighiamo a prendersi le loro responsabilità. Un approccio di questo tipo ci permette di essere rispettati, di essere considerati non coloro che difendono gli interessi di una parte ma coloro i quali si pongono in una prospettiva di dialogo diversa. Chiaro che anche noi rallenteremo, rinvieremo le nostre attività. Ma la costruzione di una relazione forte, anche di difesa degli interessi degli albanesi e non solo dei serbi che devono rientrare, è necessaria. Chi rientra è certamente vittima ma hanno avuto anche loro responsabilità nel momento nel quale erano oppressori. E di queste cose occorre tenere conto. Non si può avere approcci ingenui.
OB: Quanto le dinamiche locali vengono influenzate da quelle nazionali? Se si discute con le autorità locali i rientri si hanno garanzie sulle condizioni ad esempio di sicurezza dei rientranti?
RB: Purtroppo no. Le variabili impazzite vi sono sempre. E’ però importante per noi creare il maggior numero di condizioni affinché il rientro sia possibile. Un rapporto corretto e di chiarezza con le autorità locali è imprescindibile ma dal punto di vista della sicurezza purtroppo non ti garantisce nulla. E ringraziamo iddio che i serbi che dovevano rientrare a fine mese nei nostri villaggi non sono ancora rientrati altrimenti la situazione sarebbe stata drammatica. Ci saremmo trovati con 90 persone assediate da migliaia di albanesi. Sarebbe stato difficile dire a questi ultimi “guarda che abbiamo sempre difeso anche i vostri interessi…”. Però crediamo che quella intrapresa sia l’unica strada possibile, con tutte le sue contraddizioni, con le difficoltà. Il problema della sicurezza in questo paese è drammatico, non la garantisce nessuno. Ma comunque, ribadisco. Non si può essere con il corpo qui e con la testa a Belgrado. Questo porta inevitabilmente al non dialogo ed allo scontro. La sicurezza si costruisce anche spingendo ad un’accettazione del fatto che il Kossovo è un’altra cosa. La sicurezza si costruisce anche in Serbia facendo capire ai rientranti che il Kossovo è cambiato. Se uno ritorna deve per forza pensare che con quelli che saranno per il resto della propria vita i suoi vicini deve ricostruire un rapporto, delle relazioni, un rapporto basato su un minimo di fiducia.
OB: Quali le prospettive per i prossimi giorni?
RB: Vorrei sottolineare che non è comunque una situazione da guerriglia, da pre-guerra. E’ una situazione di grandissima preoccupazione, di grande paura, molti si chiedono cosa succederà.. D’altro canto vi è anche forte rabbia per la disattenzione della comunità internazionale, per l’assenza di UNMIK, per l’assenza di prospettive. Sono scese in piazza alcune migliaia di persone, ma non tutto il Kossovo. A Peja erano in 5000 ieri su una provincia che conta 150.000 abitanti. Certo la popolazione è solidale ma non è un Kossovo che sta esplodendo.
OB: Ed improvvisamente il Kossovo finisce nuovamente sulle prime pagine dei giornali …
RB:Si, ma servirebbe maggiore comprensione di quanto sta succedendo. Qui è drammatico perché non ci sono giornalisti. Stanno cercando ora di arrivare in Kossovo ma si sono persi anni di cambiamenti. Si rientra dopo anni di vuoto e si incontrano solo i funzionari UNMIK, le autorità internazionali. Nessuno invece va a parlare con la gente dei villaggi, è difficile allora si riesca a capirne qualcosa.
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