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giovedì 08 settembre 2022 13:48

 

Forum cooperazione: interviene Mauro Barisone

29.11.2001   

Proponiamo da oggi un forum di discussione per dare spazio ad opinioni, critiche, riflessioni su cosa sia significato e significhi tuttora fare cooperazione nei Balcani.
Cosa significa fare cooperazione allo sviluppo? Come si stanno muovendo le molte associazioni ed organizzazioni non governative italiane impegnate in questo settore? Quali in questi anni di interventi i nodi critici emersi?
Vorremmo inaugurare con oggi un forum di discussione aperto a chi si occupa e si è occupato di cooperazione allo sviluppo ed emergenza, in particolare nell’area balcanica ma non solo. Per prenderci uno spazio dove l’agire quotidiano, a volte soffocante, rallenta. Uno spazio per riflettere su cosa ha rappresentato il passato, su cosa si sia raggiunto in questi anni di coinvolgimento e solidarietà. Partendo proprio dalle esperienze di ognuno di noi, delle nostre associazioni, gruppi, enti locali, organizzazioni non governative. Il primo stimolo che l’Osservatorio ha voluto dare al dibattito è stato il convegno “Dieci anni di cooperazione con il sud est Europa: bilancio, critiche, prospettive..” svoltosi a Trento il 24 novembre scorso, ma con questo forum si vorrebbe andare oltre dando la possibilità a chi desidera di esprimere la propria opinione e le proprie riflessioni su questi anni di attività.
Invitiamo tutti ad intervenire scrivendoci al seguente indirizzo e-mail: segreteria@osservatoriobalcani.org.
Qui di seguito il primo intervento di Mauro Barisone che collabora a Pec/Peja, Kossovo, con il Tavolo trentino con il Kossovo. In particolare Mauro si occupa di risoluzione del conflitto. Il testo è stato scritto in preparazione del convegno ed in risposta a precedenti articoli pubblicati dall’Osservatorio.
Loano mercoledì 21 novembre 2001 C’è il sole.
A proposito di rientri. In questo periodo non si fa altro che parlare del rientro dei serbi fuggiti dal Kosovo, dando, secondo me, un’informazione della realtà, al pubblico meno esperto, assolutamente distorta e dopo orami 10 anni di Balcani aggiungo, in assoluta malafede. Io credo che sia giunto il momento di finirla di nascondersi dietro frasi retoriche e ad un buonismo da saldi di fine stagione, è ora di finirla di sottolineare, ogni volta e in ogni occasione; dall’articoletto del turista che fa un giro a Belgrado e un salto in Kosovo, o dalle persone che operano direttamente sul terreno, di sottolineare nome, cognome, indirizzo e pregi dell’associazione che rappresentano, perché oramai lo hanno capito tutti che il fine principale è quello di accedere per primi e con più forza possibile, a quei finanziamenti che tengono in vita associazioni e associazioncine dai duplici obiettivi. E’ ora di finirla di evidenziare gli stupefacenti risultati ottenuti in Bosnia, Croazia o in Kosovo, perché sarebbe un continuo prendersi in giro e prendere in giro, far credere cose non vere. Con tutti i soldi che abbiamo ricevuto: parlo delle donazioni fatte dalla casalinga, o dalla comunità europea, dalla pensionata o da comuni e province, con tutti quei soldi, abbiamo fatto schifo, proprio perché la preoccupazione principale era ed è la visibilità del proprio gruppo e non la cooperazione tra essi, il tornaconto personale, sia esso in soldi sia in popolarità o crescita del proprio curriculum, lasciando in secondo e terzo piano le necessità vere delle persone e della realtà cui veniamo in contatto.
Perché, mi chiedo, proprio adesso ci si accorge che ci sono anche dei serbi che sono fuggiti dal Kosovo? Perché tutta questa fretta di andar via da Pristina o da Pec-Peja? Perché tutto questo desiderio di aprire progetti nel Sud della Serbia o a Belgrado? Perché improvvisamente la parte albanese non è più interessante? La mia impressione è che si segue un po' la corrente. Che per la causa albanese abbiamo già asciugato le casse. Che per la parte serba, ora, è più semplice ottenere dei finanziamenti. E per fortuna o sfortuna l’Afghanistan è un po’ troppo lontano e ancora troppo pericoloso per quei semi professionisti che nell’azione umanitaria cercano di guadagnarsi un posto in paradiso o l’arrotondamento del proprio stipendio. E ancora mi chiedo: tutti i serbi di Kraijna non ancora rientrati, sono serbi di serie B, oppure per loro le casse sono chiuse? E tutti i Croati di Bosnia? Non venitemi a raccontare la storia delle priorità o dell’emergenza, per favore. E non venitemi neppure a raccontare che si vuole sfruttare la grande esperienza maturata, magari in Bosnia o altrove nei Balcani, per il Kosovo. Ogni posto ha la sua storia, le sue caratteristiche e la propria cultura, e la nostra esperienza, magari di anni, in un luogo, la possiamo buttare nel cesso se da quel posto ci allontaniamo. - Il contatto con “l’altro”, a qualsiasi latitudine deve iniziare con un gesto di resa incondizionata: la rinuncia a propri schemi e abitudini, liberandosi dall’inconfessata certezza che la realtà sia univoca e unidimensionale, e che tutto possa venir interpretato da un solo modo di guardare”. (Pino Cacucci).
Chi sostiene il contrario vuol dire che non ha capito niente di Balcani.
Di questi tempi si parla molto del rientro di un gruppo di serbi, nel villaggio di Osojane vicino ad Istok, come di un evento eccezionale e positivo, e molti si fregiano di questa cosa, ne portano vanto, o la prendono come riferimento per azioni future. Secondo me neppure una mente perversa poteva strutturare e pensare ad un rientro fatto in quel modo. Si è creata un’altra enclave e si è illuso un sacco di gente, parlo di quelli rimasti in Serbia, che il rientro è possibile. E’ chiaro che se chiediamo alla gente fuggita se vogliono rientrare al loro paese, la risposta sarà affermativa, ma anche se chiediamo ad un drogato se vuole farsi una pera la risposta sarà affermativa, ciò non vuol dire che sia giusto e con una qualche possibilità di uscita.. E in questo momento anche se domandiamo ai rientrati al villaggio se sono contenti, loro risponderanno si, ma è una condizione temporanea, o prima o poi si sveglieranno dal sogno e il risveglio sarà terribile. Anche nelle altre enclave all’inizio erano felici di ritrovare le proprie case e i propri paesaggi ma ora? Dicono Vlado e Lale di Gorazdevac, enclave serba vicino a Pec-Peja. “Quando siamo rientrati dal Montenegro ci sembrava un sogno, non c’importava di non poter uscire dal villaggio, la cosa bella era di essere di nuovo a casa e di ritrovare gli amici.” Dopo due anni dicono: “Noi viviamo peggio dei carcerati, un galeotto sa di quanto tempo è la sua pena, noi no e questo è terribile. Con i nostri amici non abbiamo più niente da dirci, ormai ci siamo raccontati tutto, il nostro sogno adesso è quello di andar via, magari in Italia, qui non è più possibile vivere.” Inutile sottolineare che la maggior parte dei giovani dell’enclave soffre di depressione e, chi non lo è già, si sta apprestando a diventare alcolizzato. Creare delle altre enclave com’è stato fatto ad Osojane, è la cosa più crudele e più stupida che si può pensare. Probabilmente però non interessa a nessuno avventurarsi in un percorso lungo e difficile. Non interessa a nessuno mettersi in gioco e condividere successi o sconfitte con altri. Non interessa a nessuno mettere da parte il proprio nome o il nome della propria associazione. Tutti indipendenti, ognuno con le proprie certezze e verità, ognuno con il proprio pezzo di torta da mangiare da soli e quello che capiterà domani…che importa, troveremo il modo per trasformare una sconfitta in una vittoria. Una cosa sicuramente l’abbiamo imparata in questi anni, ed è saper esporre le cose in modo tecnicamente giusto, abbiamo scovato ed inventato quelle parole che alle persone comuni fanno tanto effetto, capaci di scuotere gli animi più duri. Questo abbiamo imparato.
Far rientrare le persone in modo corretto significa:
Incontrare le persone disposte a rientrare e conoscerle.
Spiegare loro, anche con durezza, che la realtà e la situazione non è più quella di prima del conflitto e mai più lo sarà.
Incontrare la parte in conflitto, nel caso del Kosovo quella albanese, e creare con loro un clima d’accettazione e convivenza reciproca.
Vedere in quali condizioni e dove si faranno rientrare le persone: in che condizione è la casa ecc.
Vedere in quale modo è possibile la sopravvivenza: cibo, lavoro ecc.
Regolarizzare la loro posizione: nuovi documenti, scuola, sanità ecc.
Renderli autonomi e non dipendenti dalle organizzazioni umanitarie.
So che tutto questo è utopia.
So che tutto questo non è possibile per una sola associazione.
Certamente tutto questo richiede anni e molti e magari senza risultati.
Certamente per fare questo è necessario che le organizzazioni si uniscano, ognuna con le proprie professionalità e potenzialità e senza “GELOSIE”.
Ci dovrà essere chi si occupa della parte burocratica, chi di quella politica, chi della ricostruzione, chi della convivenza ecc. ma sarà necessario essere uniti.
Certamente queste sono le prime cose da fare e non le ultime, è sbagliato dire: “Prima li faccio rientrare e poi qualcuno ci penserà”.
Chi però avrà la pazienza? E chi sarà disposto ad aspettare anni, rischiando il fallimento, per vedere un qualche risultato?
Chi è disposto ad inseguire un’utopia?
Mi conforta una frase scritta dall’Abbé Pierre che dice: con il tempo le cattive azioni assumono meno importanza dei perdoni. Il tempo che passa è più giusto. E’ come per il buon vino: è migliore dopo averlo lasciato decantare. Da noi c’è un detto, che mi sono ripetuto per tutta la vita: “Non è tirando l’erba che il grano cresce più in fretta”.
Che si voglia ammettere oppure no, quello sopra è l’unico modo, l’unica possibilità, anche se piccola, per ottenere un qualche risultato, tutto il resto sono frottole e il guaio è che lo sappiamo benissimo tutti, ma alla fine ognuno continuerà per la propria strada con il proprio nome e curriculum scritto su qualche giornale di parrocchia, andremo a vantarci in un qualche congresso srotolando numeri e cifre: sette scuole, un centro polivalente, 100 case rifatte, come se la mancanza di scuole o case fosse stato la causa della guerra.
E continueremo ad inviare, sempre specificando bene il nostro nome, i nostri reportage dai luoghi della “guerra”, e ci sarà sempre un “Osservatorio” che li manderà in rete, che ci farà da agenzia pubblicitaria.
La mia, è forse una voce fuori dal coro e come al solito farà storcere il naso a molti. Ma voglio puntualizzare il mio disaccordo e allontanarmi da quei gruppi, che senza umiltà e senza scrupoli, sfruttano le pene della gente per interessi privati.
Voglio anche allontanarmi da tutte quelle persone o gruppi che condividono e appoggiano questo modo di operare.
Voglio che la gente comune sappia che quel mondo tanto decantato e ammirato ha gli stessi pregi e soprattutto gli stessi difetti della società del lavoro, del business, del profitto.
Aggiungo che sono anche stufo che la gente dica di noi e di me: che bravi, che buoni, che eroi, perché non è vero, siamo stronzi tali e quali agli altri.
Cordiali saluti Mauro Barisone... uno dei tanti.
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