Martina Iannizzotto ha lavorato per quattro anni in Serbia occupandosi di sfollati dal Kossovo. Ha lasciato Belgrado qualche mese fa. Commenta per Osservatorio quanto avvenuto la scorsa settimana.
Mitrovica
Di Martina Iannizzotto
Che tristezza vedere in questi giorni le immagini che giungono dal Kossovo e non essere lì. Ho trascorso gli ultimi 4 anni della mia vita vivendo e lavorando a Belgrado prima con il Consorzio Italiano di Solidarietà (ICS)e poi proprio con l’UNMIK occupandomi di ritorno degli sfollati serbi in Kosovo.
Con quelle moschee e chiese ortodosse che bruciano va in fumo anche un pò di me, del mio lavoro, della passione che ci ho messo. E aumenta questa sensazione di solitudine e frustrazione in tempi di guerra planetaria. Ho lasciato la Serbia e il Kosovo appena tre mesi fa e la situazione allora sembrava veramente migliorata, nelle strade e a sentire le persone cosiddette normali. Uno dei momenti più belli l’ho vissuto appena lo scorso dicembre: a Pristina si è tenuto un concerto multi-etnico, serbi e albanesi hanno suonato insieme, ma non l’ha saputo nessuno, tranne i presenti.
Alcuni amici serbi di Pristina che dopo la guerra vivono a Belgrado (IDPs o sfollati, tecnicamente, ma ti suona strano questo termine quando conosci le persone in carne ed ossa) suonano jazz. Siamo andati a Pristina e loro dopo 4 anni hanno suonato insieme con dei loro vecchi amici albanesi in una radio locale. Niente proclami, nessun progetto (scritto-implementato-finanziato) dietro ma tanta buona musica e grandi emozioni. Hanno venduto i loro appartamenti e non vogliono tornare a vivere a Pristina, semplicemente avere la possibilità di camminare per strada e incontrare gli amici senza paura di essere ammazzati.
Tutto questo è stato facilitato dal fatto che io avessi la macchina delle Nazioni Unite ma è avvenuto il week-end, fuori dal mio lavoro ufficiale. Come spesso accade quando fai cooperazione, ti sembra che ai risultati (quelli appunto scritti nei progetti tipo “facilitare la riconciliazione inter-etnica”) contribuisci di più – come dire – indirettamente, che con ciò che viene scritto sotto la sezione “attività”. Quanti incontri tra staff locale serbo ed albanese abbiamo organizzato? Qgni volta che andavo in Kossovo cercavo di portare qualche collega od amico serbo per fargli vedere che la realtà era diversa da come gliela descrivevano RTS o Nebojsa Covic.
L’UNMIK era (è) al tempo stesso governo (ossia autorità politica) e tecnica (missione di pace – peace-keeping mission). Harri Holkeri non è stato votato dai cittadini kossovari ma scelto da Kofi Annan (e dietro di questo dalle grandi potenze occidentali). Chiacchierando con miei ex-colleghi durante la mia breve esperienza con UNMIK mi ha stupito moltissimo scoprire che pochi erano “coscienti” di ciò e del loro ruolo. Pochi erano pienamente consci del fatto che erano lì per garantire la pace dopo un profondo conflitto, che rappresentavano di fatto il governo e che di conseguenza ogni loro (nostra) azione (anche la più apparentemente insignificante, come fare una multa) aveva ripercussioni “politiche” (quanta paura di questa parola). Le Nazioni Unite sono anche (ma non solo) una burocrazia, e come tali simili dunque al nostro comune, magari ancora più complicate da gestire a causa del carattere internazionale dl personale. Ma come appunto ogni burocrazia ed amministrazione, è la guida politica ad essere determinante.
Io non so se sono una “professionista della pace” (una peace-keeper), non ho master presi a Londra od Harvard, penso sia difficile stabilire dei criteri in questo campo (chi ha la ricetta per la riconciliazione inter-etnica? La tiri fuori per favore) e so per esperienza che molti dei bei concetti teorici studiati nei manuali saltano immediatamente quando ti trovi lì, sul fatidico “campo”. So però che ho tentato– con enorme fatica – di avere un approccio “politico” al mio lavoro, chiedendomi quali fossero le prospettive, le implicazioni e le ripercussioni di ogni attività.
E’ giusto dare le responsabilità (che hanno) alle Nazioni Unite, alla NATO e soprattutto alla comunità internazionale. Ma fare come il puffo brontolone “te l’avevo detto” non mi toglie l’amarezza dalla bocca.
Di fronte a quest’incendio allora di nuovo mi sembra che l’unica risposta sensata che riesco a darmi sia un impegno per un di più, non un di meno, di politica – alta - dei governi, delle istituzioni internazionali - e bassa – dei cittadini, di noi. La convinzione ancora più salda e profonda che ci vuole tanta pazienza, tanta energia, tanta umiltà e tanta determinazione per “costruire la pace, ossia una cultura di pace”. Tanti viaggi da qui a lì e tanti viaggi da lì a qui, tanto tempo in discussioni (e non solo con le persone che la pensano “come noi”), anche e soprattutto ora che i Balcani non sono più di moda.
A Belgrado quest’anno si dovrebbe finalmente organizzare in luglio la parata in occasione del Gay Pride. Tre anni fa, nel 2001 (io c’ero!), i manifestanti sono stati attaccati da gruppi di fascisti (nella cultura) e nazionalisti. La polizia non è stata troppo solerte nell’interporsi e difendere i manifestanti. Sono pronta a scommettere che molti degli hooligans che hanno incendiato le moschee in questi giorni sono gli stessi di quei giorni, così come i poliziotti che non sono intervenuti. Perchè non andare lì da qui in tanti in quell’occasione per non lasciare soli i manifestanti di Belgrado? Secondo me la cultura della pace si costruisce anche così.
(m.iannizzotto@icsitalia.org)
Vedi anche:
Kossovo: un punto di vista albanese
Italiani del Kossovo
Kossovo: la quotidianità di una crisi
Kossovo: le reazioni internazionali
Kosovo, la notte dei cristalli