Mercoledì scorso a Pec/Peja le ONG ed associazioni italiane si sono incontrate. Per cercare di capire cos’è successo. Per provare ad impostare il lavoro futuro. Un breve resoconto.
Kossovo
Un incontro tra molte delle ONG ed associazioni italiane che lavorano in Kossovo. Per confrontarsi su quanto è avvenuto nelle scorse settimane. Fatti gravi che richiamano una riflessione su come organizzare e vivere la propria presenza, su come impostare i prossimi progetti. Una particolarità significativa: all’incontro, tenutosi lo scorso marzo, hanno partecipato non solo i cosiddetti “internazionali” ma anche gli operatori locali.
“L’idea di ritrovarci è nata ad un pranzo tra IPSIA e Bergamo per il Kossovo. Per mettere assieme le letture della propria realtà. Perché è successo qualcosa di simile ovunque ma con particolarità diverse” ha ricordato Roberto Bertoli, moderatore, all’inizio dell’incontro.
Le letture degli scontri drammatici del Kossovo sono stati in effetti differenti tra loro. Bergamo per il Kossovo ha tenuto a sottolineare come quanto avvenuto sia probabilmente legato più ad un disagio sociale, alla diminuzione delle risorse internazionali ed ad un’asfissia della sfera politica sia internazionale che locale piuttosto che ad odio etnico. “Gli oggetti delle proteste violente sono luoghi simbolo. Non solo connotati dal punto di vista etnico. La nostra lettura non vuole giustificare o minimizzare quanto è accaduto ma dice che non si può restringere la visione alla questione etnica”. Per un operatore locale di CELIM il 99% dei kosovari è critico in merito a quanto è successo ed i kossovari sono distanti dall'immagine data di loro dai media internazionali.
Cauto nell’esprimere un giudizio su quanto avvenuto è Mauro Barisone, del Tavolo trentino con il Kossovo. “C’è bisogno di una analisi corretta di quanto accade ed è accaduto. Abbiamo fatto dei gruppi di lavoro, uno nell’enclave serba di Gorazdevac e l’altro in città a Pec/Peja per capire insieme ai locali cosa è successo. Nemmeno loro hanno le idee chiare”.
Parlano di un'interpretazione “sottovoce” proprio per sottolineare l’estrema complessità della situazione gli operatori della Caritas secondo i quali quanto avvenuto non è stato frutto di manifestazioni spontanee. “Per la rapidità con cui tutto è accaduto a noi sembra organizzata. C’è gente che è stata portata in pullman sui luoghi degli scontri … da un certo punto di vista i pullman sono un segnale positivo, segno che bisognava andare a prendere gente da fuori”. Anche Assopace condivide quest’opinione: “A noi quest’ondata di violenza ha dato l’impressione di essere organizzata. Avviata sull’onda dell’emozione ma poi strumentalizzata”. “Sembrava tutto preparato” è il commento dell’operatore di INTERSOS.
Il ritorno della violenza in Kossovo ha naturalmente posto numerosi interrogativi sui progetti che ONG ed associazioni stanno promuovendo. Molti si occupano proprio di riconciliazione tra le comunità che abitano la Provincia. Riconciliazione che appare ora ancor più difficile. “Avevamo in programma un seminario con Nevè Shalom sulla convivenza, a luglio. Adesso però ci chiediamo cosa fare. Le due parti si sono irrigidite”, ricordano i volontari di IPSIA. E Reggio Terzo Mondo per ora ha sospeso i propri programmi di educazione alla pace.
“E’ possibile fare un passo avanti invece che un passo indietro?” si chiede però Bergamo per il Kossovo sottolineando come spesso i processi di ricostruzione di una comunicazione e di una convivenza subiscono delle fratture che ha volte non hanno un portato negativo ma permettono alle società civili di riemergere dal loro silenzio, permettono alla maggioranze di ribadire l’opzione della pace e del dialogo. “Sono possibilista per il futuro. Secondo me non c’è stata connivenza da parte della maggioranza della popolazione kossovara. C’è stata accettazione. Ma adesso può crescere una reazione sostanziale di opposizione alla violenza”, ha concluso Bertoli.
Che non si tratti di un ritorno al passato è un impressione condivisa da tutti i partecipanti dell’incontro. “Un segnale positivo è la reazione della gente. Gli albanesi hanno tenuto aperte le porte del dialogo”, afferma un operatore locale della Caritas. “Voi siete venuti a costruire una relazione, un rapporto, una presenza. La vostra presenza è stata d’aiuto in tanti settori. Ma anche nel supporto morale. Avete perso tempo per parlare con me. Sono 5 anni che si lavora. Vi possono essere dei passi indietro ma il lavoro fatto è di più. Non si ricomincia da capo”. Da Intersos l’invito di dialogare anche con i donatori. “Continuerà per anni. Una cosa che noi possiamo fare è parlare con i nostri donors. Per parlare della necessità del dialogo, per aiutarli a cambiare la loro politica. Il dialogo non solo interetnico. Ma anche il dialogo all’interno della comunità. Dialogo su cosa significa essere kosovaro oggi. E’ importante. Prima ancora del dialogo interetnico. Per il dialogo interetnico è necessario un mediatore capace. Le case ricostuite possono essere facilmente distrutte. Se si lavora sul dialogo la situazione cambia”.
Da questo primo incontro sono emersi alcuni impegni concreti e condivisi. Innanzitutto quello di redigere un messaggio chiaro e unanime da inviare in Italia: non ha senso andarsene ora. Le ONG già presenti sul territorio decidono di andare avanti per ricostruire i ponti che sono stati rotti e per cercare di farlo in maniera più solida di prima. Le ONG presenti prendono la decisione ferma e decisa di rimanere, con la convinzione che è importante restare e rafforzare la propria presenza. E con l’impegno di continuare a cercare di capire. Poi ciascuno si è impegnato ad informare dei contenuti del dibattito anche i propri donatori ed infine di mantenere, mensilmente, almeno una riunione di confronto tra gli italiani che operano in Kossovo.
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