In modo sempre più insistente si parla di ONU in Iraq. Ma è un tema delicato. Emiliano Bertoldi presenta un parallelismo tra i recenti scontri in Kossovo ed il tragico scenario mediorientale.
di Emiliano Bertoldi*
Queste sono settimane drammatiche per le cosiddette missioni di pace italiane all’estero.
In Kossovo, dopo cinque anni di presenza militare in un territorio governato da quell’ONU cui si vuole dare maggiore peso nella gestione della crisi Irakena, la violenza è riesplosa cruda e radicale trovando resistenza solo nella manifesta impossibilità delle truppe Kfor (alleanza militare internazionale a guida NATO) di gestire l’ordine pubblico.
In Iraq, ad un anno esatto dalla caduta in mondovisione della statua di Saddam Hussein e del suo sanguinario regime, la popolazione sembra dire basta alla presenza internazionale “di pace” attraverso rivolte diffuse che per la prima volta configurano quella “resistenza popolare” che – con buona pace di chi in Italia sbandierava sostegni alla resistenza – non c’era mai stata fino ad oggi.Siamo – per entrambe le realtà – a punti di svolta cruciali, che drammaticamente chiamano un’analisi comparata per mettere in luce gli elementi comuni.
In Kossovo – utilizzano a pretesto la morte di tre bambini albano-kossovari che sarebbero affogati nel fiume scappando da coetanei serbo-kossovari – si è scatenata il 16 e 17 marzo scorsi una sorta di caccia all’uomo che non solo ha trovato sfogo su gruppi e villaggi serbi, spesso appena ricostruiti, ma che è stata indirizzata anche - e per la prima volta – verso obiettivi collegati o collegabili alla presenza militare della Kfor e all’amministrazione internazionale Unmik. Le informazioni che abbiamo dagli amici e collaboratori che si trovano in Kossovo – in particolare quelli del Tavolo trentino con il Kossovo – ci dicono che si è probabilmente trattato di azioni premeditate e organizzate da gruppi che si definiscono nazionalisti, ma che di fatto vogliono ostacolare ogni prospettiva di soluzione per la regione, non traendone alcun vantaggio politico ed economico-criminale. Ci dicono anche che le violenze e le manifestazioni non hanno avuto un seguito reale tra la popolazione, stufa di guerre e ritorsioni e fin troppo cosciente che intolleranza e violenza allontanano - più che avvicinarla - la simpatia internazionale di cui hanno goduto nell’ultimo lustro. E con essa ogni possibilità di indipendenza o autonomia vera.
Se la cosa ci fa tirare un sospiro di sollievo per l’oggi, non ci deve però rassicurare per il futuro, anche prossimo. Si è infatti trattato di una sorta di “prova generale” - fallita per ora - di quanto potrà succedere se non si affrontano i nodi reali del Kossovo di oggi che, ancora una volta, si configura come una polveriera: la polveriera dei Balcani.
Nel marzo 1999 – dopo l’architettato fallimento di un processo di pace possibile – la Nato è intervenuta militarmente contro l’allora Federazione Jugoslava. Oltre 70 giorni di bombe hanno determinato la sistematica distruzione delle infrastrutture economiche, viarie e istituzionali del Paese, oltre ovviamente di quelle militari. Il risultato è stato la costituzione di un ibrido internazionale in Kossovo - tutto sommato meno favorevole alla causa albanese di quanto non fosse previsto nei falliti accordi di Rambouillet – amministrato di fatto dall’ONU, sotto tutela militare della Nato. Il tutto costruito su una grande bugia: che la Comunità Internazionale fosse intervenuta a difesa e in favore della comunità albanese del Kossovo, e che un periodo di interregno internazionale avrebbe poi consacrato l’indipendenza della regione. Sono passati cinque anni di errori e di incapacità: l’erogazione constante di acqua ed elettricità rimane ancora una chimera per la maggior parte della popolazione, i servizi alla persona sono praticamente inesistenti, la disoccupazione raggiunge punte del 60% e l’economia si basa – come il sostentamento delle famiglie – sul mercato nero e grigio, su un commercio al dettaglio totalmente sganciato dalla capacità produttiva autoctona, sul controllo criminale del territorio e sui vari traffici di droga, armi ed esseri umani. Miliardi di Euro sono stati investiti – molti per il sostentamento delle costosissima struttura amministrativa e militare - e centinaia di Ong (Organizzazioni non governative – umanitarie) sono passate per il Kossovo senza contribuire in modo sostanziale alle condizioni di vita, dando vita invece al più grande “circo umanitario” che la storia abbia conosciuto.
Le forze militari di “peace-keeping” (mantenimento della pace) e la compagine amministrativa delle Nazioni Unite hanno impedito di fatto ogni processo di elaborazione del conflitto e di riconciliazione, optando per più facili processi progressivi di segregazione e difesa armata dei diversi gruppi nazionali. I pochi rientri dei profughi serbi sono stati realizzati secondo una strategia che sembra essere più quella di mettere di fronte al fatto compiuto le comunità albanesi tramite la creazione di tante enclave iper-protette, che non il risultato di un percorso politico di condivisione con tutte le parti.
E poi: enclave protette da chi? E protette come?
Quando – per conto del Tavolo trentino con il Kossovo – operavo a Peja/Pec (2000-2001), vivevo in una vecchia casa ottomana costruita nel 1860 e di proprietà serba e la nostra presenza aveva impedito più volte che fosse data alle fiamme da parte degli estremisti albanesi. Tuttavia, siccome si trovava di fianco alla Chiesa Metropolita Ortodossa e alla relativa Canonica, l’ingresso della stradina era bloccato 24 ore al giorno da un blindato militare e da quattro soldati italiani in tenuta da guerra. Dopo qualche anno di protezione – senza aver messo in campo nessun processo di elaborazione del conflitto - il Comando militare ha ritenuto che il tempo fosse bastato a curare le ferite e i bollenti spiriti e ha quindi pensato di lasciare il presidio. La Chiesa è tra quelle che sono state date alle fiamme nei giorni della rivolta di marzo.
I luoghi destinati al rientro dei Serbi rispondevano più a logiche di difendibilità militare, che non a ragioni di opportunità e fattibilità politica dell’operazione. Risultato: le 25 case appena finite di ri-costruire a Bjelo Polje – vicino a Peja/Pec – sono state assalite ed incendiate, mentre la difesa che i militari italiani hanno saputo offrire ai 25 capi famiglia rientrati meno di un anno fa è stata… l’evacuazione.
Mentre in Kossovo si viveva alla giornata, la geo-politica internazionale modificava le prospettive e le alleanze. Gli Stati Uniti capivano che il controllo geo-politico del Sud-est Europa non passa per l’area a forte presenza albanese (Albania, Kossovo, Macedonia), ma attraverso la ben più ostica (quando non ostile) Serbia. Da qui le condanne – mai così dure – delle ultime violenze e l’esplicitazione della svolta a sostegno della “causa” serba. E con la svolta: la messa in soffitta definitiva di ogni ragionamento sull’indipendenza del Kossovo, per altro mai veramente all’ordine del giorno.
Ce n’è a sufficienza per alimentare ogni tipo di frustrazione.
Ed ecco lo scoppio delle rivolte. Basta una piccola scusa, e i disordini già programmati e organizzati possono iniziare. Senza il sostegno della gente – per ora – ma in futuro?
Iraq, Aprile 2004. Dopo mesi di crescita costante della tensione si passa da una “resistenza” sostanzialmente priva di sostegno popolare - articolata in sostenitori laici del vecchio regime (guerriglia tradizionale) e fondamentalismo islamico d’importazione (terrorismo) e quindi paradosso di una saldatura di fatto tra “opposti estremismi”- alla rivolta di popolo. E i nostri militari – ancora sponsorizzati come forza di pace e presenza necessaria – si ritrovano nella più sporca delle guerre: quella che fa sparare (e uccidere) anche a donne e bambini; quella che li rende oggetto di attacchi e sgretola l’ingenua convinzione di essere “soldati di pace”. Cosa è successo? E’ successo sostanzialmente che dopo un primo momento di euforia diffusa per la caduta del dittatore e una sorta di “gratitudine” che perdonava agli americani e agli altri occidentali una manifesta incapacità di gestire l’esistente, si è passati ad un crescente fastidio per la presenza straniera, per l’impossibilità di prendere in mano la gestione del proprio Paese, per la mancanza di tatto dei militari – per non dire arroganza - nella gestione della quotidianità, per la crescente insicurezza, per l’impossibilità di vivere una qualche forma di normalità, per la cronica mancanza di servizi (anche qui, a cominciare da acqua ed elettricità) . Per capire perché un popolo orgoglioso come quello irakeno non fosse ancora esploso basta immaginare da un lato l’esasperazione di chi da oltre 20 anni è vittima di guerra, violenza ed embarghi internazionali, dall’altro guardare al funzionamento della società tradizionale irakena, fortemente legato o alla struttura tribale (l’area sunnita) o al sistema gerarchico religioso (gli sciiti). E’ stata triste (quanto facile) preveggenza ricordare nelle scorse settimane che solo fino a quando i grandi Ayatollah sciiti avessero mantenuto una posizione di attesa e apertura di credito nei confronti dell’amministrazione alleata la situazione sarebbe rimasta “stabile” (se così si può definire un contesto di costante escalation del terrorismo e degli attacchi militari). I leader religiosi avevano già dato in Gennaio qualche segnale della loro capacità di mobilitazione delle masse, con alcune manifestazioni che rivendicavano le elezioni politiche immediate, che però non sono stati tenuti in debita considerazione. Le manifestazioni violente di questi giorni – che riescono peraltro ad aggregare anche forze sunnite contraddicendo l’idea (o il desiderio) occidentale di un Iraq diviso tra sunniti e sciiti- sono probabilmente da considerarsi nuovi avvertimenti - per altro da parte di un gruppo ancora minoritario e radicale - ma dovrebbero definitivamente far capire che il 60% del Paese è pronto a sollevarsi al primo segnale di un Ayatollah, che gli stranieri non sono benvenuti, che non sono considerati forza di pace, che non hanno il controllo del territorio.
Che risposta danno l’Italia e la Comunità internazionale a questi fatti? In Kossovo, piuttosto che interrogarsi sull’efficacia di un’azione volta a militarizzare il territorio, di un’amministrazione burocratica ed incompetente, di un’assenza di prospettiva per la regione e per i popoli che ne sono interessati, si ritiene di rafforzare la presenza militare e la strategia finora seguita, secondo la logica del “più li divideremo più si conosceranno”. In Iraq - con la stessa logica - si ribadisce la necessità di rafforzare ulteriormente la presenza militare internazionale e italiana, unica soluzione per evitare la guerra civile e i conseguenti massacri, senza considerare che per ora le vittime principali di attacchi e violenze sono proprio i militari stranieri.
Il guaio è che si tratta di due gatti che si mordono la coda, di circoli viziosi, di dinamiche assolutamente identiche per cui la forza militare crea (e aggrava) costantemente la ragione della propria presenza: la violenza - prodotta anche semplicemente dalla propria presenza letta come provocatoria dalla popolazione (in Iraq) o dalla miopia delle modalità operative della Comunità internazionale (Kossovo) – giustifica la necessità di un controllo militare, il quale produce ulteriore violenza e bisogno di rafforzamento delle truppe, e così via. E’ un gioco che abbiamo già visto in passato e che spesso ha condotto solo a immensi drammi.
E’ fondamentale che questo meccanismo sia compreso dalla maggioranza Berlusconiana rispetto alla situazione in Iraq, ma che anche l’opposizione di sinistra prenda atto di questa contraddizione/circolo vizioso, barricata com’è a difesa delle proprie decisioni del passato e restia a riflettere sulla loro efficacia (Kossovo).
Bisognerebbe invece porsi il problema di come inserire la retromarcia, come invertire la spirale di violenza e di conflitto, come creare condizioni diverse per un reale disimpegno della presenza militare che favorisca percorsi di pace realistici e costruttivi. E questo va fatto “insieme”, perché né una politica tutta presa dalle proprie contrapposizioni né un pacifismo spesso ancora troppo ideologico sembrano in grado – da soli – di farlo.
E che questo possa servire da lezione!
*già coordinatore a Peja/Pec, Kossovo, del Tavolo trentino con il Kossovo (2000/2001) e a Bassora, Iraq, dell’Associazione di volontariato internazionale “Un ponte per…” (2003)