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Orić, Beara, Srebrenica

19.10.2004   

Il governo serbo bosniaco riconosce per la prima volta la dimensione del massacro di Srebrenica. Estradato all’Aja uno dei più stretti collaboratori del generale Mladić, Ljubisa Beara. Allo stesso momento, inizia di fronte al Tribunale Internazionale il processo a Naser Orić
Naser Orić
Il 6 ottobre scorso è iniziato all’Aja il processo a Naser Orić, bosniaco musulmano, capo della difesa di Srebrenica, la enclave assediata dalle forze serbo bosniache tra il 1992 e il 1995. Nel luglio di quell’anno le forze del generale Mladić occuparono infine la cittadina, uccidendo nei giorni seguenti migliaia di prigionieri, civili e militari. Una Commissione ufficiale del governo della Republika Srpska (una delle due entità della Bosnia Erzegovina) ha reso pubblica giovedì 14 ottobre una lista di piu' di 7.000 Bosniaco Musulmani uccisi in quei giorni, riconoscendo per la prima volta la dimensione del massacro. Due giorni prima, il 12 ottobre, il capo dei servizi di sicurezza dell’esercito serbo bosniaco, Ljubisa Beara, uno dei più stretti collaboratori del generale Mladić, è comparso di fronte ai giudici dell’Aja dopo essersi consegnato (secondo alcuni precedendo un imminente arresto) alle autorità di Belgrado ed essere stato poi estradato.

La stampa di Sarajevo mantiene un atteggiamento ambivalente nei confronti di Orić e del processo avviato contro di lui. Secondo alcuni commentatori, il processo iniziato pochi giorni or sono avrebbe l’unica funzione di dimostrare la “imparzialità” del Tribunale dell’Aja. Nella seduta inaugurale, Orić è stato presentato dalla accusa come un “signore della guerra”, mentre la difesa descriveva le gesta di un “eroe”.

Orić è accusato di crimini commessi contro i Serbo Bosniaci tra il 1992 e il 1993, compresi attacchi contro villaggi, devastazione e saccheggio delle proprietà, espulsione forzata della popolazione, ed inoltre delle torture e omicidi di prigionieri serbi detenuti nella stazione di polizia di Srebrenica. Pubblichiamo di seguito la traduzione del profilo di Orić tratteggiato da Emir Suljagić per il settimanale sarajevese Dani nella rubrica Ličnost u Fokusu dell’8 ottobre scorso. Suljagić, giornalista di Dani e corrispondente dell’Institute for War and Peace Reporting, è sopravvissuto alla strage di Srebrenica, dove durante la guerra lavorava come interprete per le Nazioni Unite (a.r.)


Di Emir Suljagić, Dani, 8 ottobre 2004

Se qualcun altro fosse stato al suo posto, forse avrebbe fatto cose migliori e più intelligenti, avrebbe agito con maggiore prudenza o misura, ma lui era solo. Forse questo non è stato sufficiente, ma Naser Orić, difendendo Srebrenica e rimandandone la terribile fine per tre anni, ha dato tutto sé stesso. Proprio quello che è successo nel luglio del 1995, ha confermato la fondatezza degli sforzi di Orić nel trattenere i Serbi il più lontano possibile dalla città. Lui ha segnato i momenti cruciali nella esistenza triennale dell’enclave di Srebrenica: l’inizio della resistenza; la quasi caduta della enclave nella primavera del 1993, quando proprio lui con un pugno di giovani impavidi ha impedito alle forze serbe di entrare nella enclave; la caduta della enclave, che è avvenuta tanto più velocemente in quanto lui non c’era. Orić, dall’altra parte del fronte, a Tuzla, è stato la persona chiave nella operazione di sfondamento del corridoio attraverso il quale alla fine di una marcia di cinque giorni tra le imboscate dei Serbi sono riusciti a passare poco più di 3.000 uomini di Srebrenica sopravvissuti.

Nei prossimi mesi e anni, la Procura del Tribunale dell’Aja dovrà dimostrare che è proprio lui il responsabile per i crimini commessi durante la difesa di Srebrenica. Crimini che fuori di alcun dubbio sono stati commessi, ma anche crimini nei quali una buona parte dell’opinione pubblica sia in Bosnia Erzegovina che all’estero cerca la ragione per il massacro genocida del luglio 1995. In questo momento, tuttavia, è quantomeno cinico che Orić – incriminato per la violazione delle leggi e dei costumi di guerra (denominazione relativamente moderata) – debba rispondere, dopo essere stato arrestato nel cortile di casa sua, mentre sette accusati per genocidio continuano a spadroneggiare da qualche parte tra la Bosnia Erzegovina e la Serbia.

E’ cinico anche quello per cui Orić è accusato, responsabilità di comando per la morte di sette prigionieri; se sette assassinii fossero il criterio del Tribunale dell’Aja, allora il carcere di Scheveningen sarebbe letteralmente inondato da nuovi imputati nel giro di 24 ore. E qui arriviamo al nocciolo della questione: la accusa nei confronti di Orić è simbolica, allo stesso modo per cui lui è stato per anni l’unico simbolo della resistenza all’infierire dei Serbi in Podrinja. Fino a quando lui non si è presentato di fronte alla colonna di assassini provenienti dalla Serbia e ha fermato la loro marcia, la guerra nella Bosnia dell’Est era stata una serie di incendi, saccheggi e stupri. E questo è ciò per cui i Serbi non lo hanno mai perdonato.

I legami criminali di Orić nel dopoguerra con alcuni tra i più importanti esponenti dell’underground serbo-bosniaco, come anche con veri e propri criminali, sono un’altra cosa in questa storia. E rappresentano peraltro questioni che gli organi giudiziari e di polizia della Federazione non hanno potuto, voluto o saputo risolvere. I suoi legami con i vertici della piramide del potere bosniaco, il silenzio di anni dopo la occupazione di Srebrenica, quando tutti credevano che custodisse il segreto della caduta dell’enclave, anche questo è un’altra cosa. Queste sono questioni per le quali Orić deve rispondere a se stesso, e ai suoi.

All’Aja, tuttavia, Orić deve rispondere per le pretese colpe commesse durante la più brutale lotta per la sopravvivenza che è mai stata vista nella già brutale storia della Bosnia Erzegovina. E a differenza della gran parte degli anni ’90, quando era un bene essergli vicino e quando, simbolicamente e letteralmente parlando, era sempre seguito dalla folla, Orić questa volta è completamente solo. E davanti alla battaglia più grande della sua vita.


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