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La giustizia internazionale nei conflitti balcanici

02.11.2004    scrive Andrea Rossini

Pubblichiamo l’intervento dell’Osservatorio sui Balcani tenuto nel corso della tavola rotonda del 29 ottobre scorso a Campolongo Maggiore su “Crimini contro l’umanità: il ruolo della giustizia internazionale nei conflitti balcanici”. All’incontro ha partecipato la Procuratrice Capo del Tribunale dell’Aja, Carla Del Ponte
Un momento del convegno
L’Osservatorio sui Balcani è un progetto della Fondazione Opera Campana dei Caduti di Rovereto, con il sostegno del Forum Trentino per la Pace ed il supporto della Provincia Autonoma di Trento e del Comune di Rovereto. Si occupa di fornire un’informazione costante sul sud-est Europa e di sostenere l’azione nell’area di associazioni, ONG ed enti locali attivi nella cooperazione e nella diplomazia popolare. Oggi una parte importante del nostro lavoro è sostenuto dal Ministero degli Affari Esteri, nel quadro della legge 84 che regola gli interventi di cooperazione italiana nell’area balcanica.

Sulla base dell’esperienza maturata in questa doppia veste, cioè di attori della cooperazione negli anni della guerra e successivi, e di operatori dell’informazione, voglio provare a sviluppare alcune riflessioni in particolare sul tema della giustizia e della riconciliazione nei Balcani.

Nessuno vuole perdonare nulla

Voglio partire da un punto di vista molto laico, che si basa sulla nostra esperienza di questi anni: in ex Jugoslavia nessuno vuole perdonare nulla per quanto è avvenuto e di quanto ha sofferto. C’è un detto che chiunque abbia passato un po’ di tempo nei Balcani ha sicuramente già sentito: “Perdonare è possibile. Dimenticare non è possibile.” Ricorre anche nella cinematografia, è una sorta di leit motiv che presiede al rapporto collettivo con il passato. Io non so come voi lo volete interpretare. Forse anche per il modo in cui l’ho sentito pronunciare nel corso degli anni, io l’ho sempre interpretato così: il passato non passa, e perdonare non è possibile.

Stante questo punto di partenza – che per alcuni potrà apparire eccessivamente pessimistico ma che per me è semplicemente realistico – io credo che noi tutti: società civile, mondo dell’informazione, comunità internazionale, vittime, abbiamo voluto attribuire ad un unico elemento – la giustizia – doti taumaturgiche, addirittura miracolose.

Se noi consideriamo le attribuzioni del Tribunale dell’Aja, vediamo che gli viene richiesto non solo di giudicare persone sospettate di gravi violazioni del diritto internazionale umanitario e di dare giustizia alle vittime, ma anche di impedire futuri crimini e di contribuire al ristabilimento della pace promovendo la riconciliazione nella ex Jugoslavia. Praticamente tutto.

Questa situazione, tuttavia, porta con sé un pericolo. Quello di costituire un gigantesco alibi per tutti, per delegare alla sola azione del Tribunale la responsabilità dell’affrontare quanto è avvenuto, sperando che poi le ferite si rimarginino col tempo. Ma questo non avviene. Il tempo non guarisce. Al limite anestetizza le ferite, ma non le fa passare.

La giustizia, un elemento

Quello che voglio dire è che la giustizia sicuramente compone un tassello fondamentale all’interno di un possibile percorso di riconciliazione, ma la giustizia non può esaurire da sola questo percorso.

In un’aula di tribunale, in particolare, viene solamente scalfito, e in definitiva non può essere affrontato, quello che Hannah Arendt scrivendo le cronache del processo Eichmann a Gerusalemme aveva definito come “la banalità del male”. Ci sono stati coloro che hanno condotto e pianificato stragi e massacri, ma che dire delle società che sono state attraversate da questi crimini, di tutti coloro che hanno voltato la testa dall’altra parte, che hanno eseguito gli ordini, che hanno fatto finta di nulla? Primo Levi si chiedeva amaramente cosa pensassero “quelli”, cioè la maggioranza della popolazione, quando vedevano le colonne di deportati in marcia. Le stesse domande le abbiamo potute leggere tra le numerose testimonianze di sopravvissuti all’interno del poderoso lavoro svolto dal Tribunale sui fatti di Srebrenica. E’ il problema della banalità del male, in definitiva quello della responsabilità e della colpa che aveva posto già mezzo secolo fa Karl Jaspers.

La maggioranza non sembra essere turbata dalla condanna dei propri capi. Al contrario, a volte la demonizzazione dei capi può rappresentare motivo di assoluzione e deresponsabilizzazione per quanti li hanno seguiti. Ma è proprio da qui che dobbiamo ripartire se vogliamo che quanto avvenuto non si ripeta.

Ogni società storicamente ha sviluppato proprie strategie e modalità. Spesso in tema di riconciliazione viene riportata la esperienza sudafricana della Commissione per la Verità e la Riconciliazione. Lì ha funzionato la opzione verità contro perdono. Le vittime riconoscevano il proprio perdono a quanti avevano commesso crimini nel periodo dell’apartheid, purchè questi riconoscessero le proprie colpe e raccontassero la verità su quanto era avvenuto. Anche nei Balcani l’elemento del riconoscimento della colpa ha avuto una importanza fondamentale (pensiamo al processo Plavsic, pensiamo al riconoscimento fatto recentemente dal governo della Republika Srpska rispetto a Srebrenica, pensiamo alle parole scritte in questo senso da Emir Suljagic). A differenza del Sudafrica, tuttavia, mancano nei Balcani personalità carismatiche del livello di Nelson Mandela e Desmond Tutu che sostengano l’intero percorso. Manca soprattutto un largo e generalizzato consenso da parte della popolazione nei confronti di un percorso di questo tipo. La opzione prevalente sembra ancora essere “non voglio perdonare nulla”, come accennavo prima. Eppure la esperienza sudafricana – che ovviamente non è esportabile tout court – pone l’accento sulla necessità che l’intero corpo sociale sia attraversato da questo tipo di dibattito.

Elaborare il conflitto

Noi non abbiamo ovviamente ricette da presentare. Possiamo però presentare degli esempi che secondo noi hanno un grande valore in questa direzione. Il primo è relativo alla pratica stessa del Tribunale dell’Aja. Si tratta di un elemento di assoluta novità – in questo campo bisogna sperimentare per trovare delle strade – noto come programma outreach, ne abbiamo cercato di dare conto come Osservatorio. Praticamente il Tribunale si trasferiva nelle comunità locali bosniache per spiegare che cosa aveva fatto rispetto ai crimini commessi in quelle stesse comunità (vedi ad esempio i casi di Brcko e Foca). Costringendo non solo quanti avevano commesso crimini ma tutti a interrogarsi su quanto avvenuto.

A Prijedor la cooperazione trentina ha avviato una esperienza in qualche modo simile: la costituzione di un Forum Civico, con la presenza delle diverse comunità nazionali e religiose, con l’obiettivo non della riconciliazione ma della elaborazione del conflitto, cioè il tentativo di elaborare collettivamente quanto è avvenuto in quella comunità (tristemente nota per i suoi campi di concentramento) nel recente passato. Attenzione: non parliamo di riconciliazione ma di elaborazione del conflitto, nella consapevolezza che il conflitto è ancora presente, non va nascosto, ma va affrontato e elaborato in forme non violente. L’obiettivo è in questo caso quello di cercare di stabilire dei punti di vista comuni su quanto è avvenuto, per arrivare a ragionare sul perché, e infine sulla natura del conflitto e sul come affrontarlo.

Non si tratta di un obiettivo di poco conto, se consideriamo che la lettura del passato recente secondo versioni completamente diverse, la creazione di memorie selettive (ad es. nei libri di scuola, ma in generale nella pubblicistica) sta già ponendo i semi di possibili conflitti futuri. La lettura prevalente sul decennio di guerre balcaniche degli anni ‘90 le vuole guerre etniche. Questa è la versione dei media nazionalisti dei Balcani, questa è stata peraltro la lettura prevalente anche in gran parte dei media italiani: si è affermata la vulgata secondo la quale là – nei Balcani - si sono sempre scannati e continueranno a farlo, perché sono fatti così. Ebbene, questa lettura è falsa. Sicuramente la dinamica etnica ha reso più violenta la contrapposizione, il conflitto è stato prodotto da una molteplicità di cause, ma in primo luogo innescato da una classe politica che voleva succedere a se stessa per restare aggrappata al potere, riuscendo in questo tentativo a coinvolgere la stragrande maggioranza della popolazione.

Capite bene quali sono le conseguenze della elaborazione del passato in questo senso. Se io assumo la lettura etnica, ebbene il mio vicino è mio nemico. Al momento opportuno sarà meglio che lo attacchi io per primo prima che mi attacchi lui. Se invece riesco ad affermare una lettura che chiarisca le cause di quanto è avvenuto, aiutando lo svolgersi di testimonianze e narrazioni che possano stabilire alcuni punti di vista comuni tra le diverse comunità sul passato recente, sto lavorando per evitare che quel passato si ripeta.

Ci sono già numerosi autori dello spazio ex jugoslavo che hanno avviato una riflessione e un racconto su quanto è successo, e insieme cercano di indagare il perché. Mi riferisco ad esempio al lavoro del Centro Guerre 91-99 di Belgrado, agli scritti di Rada Ivekovic o di Dubravka Ugresic, ma ce ne sono molti altri. Purtroppo la politica è molto più restia – per ovvi motivi - ad affrontare questi temi. Quello che però mi premeva dire è che in questo percorso – più che di riconciliazione noi lo vogliamo definire come di elaborazione del conflitto - la giustizia e il diritto giocano sì un ruolo fondamentale. Non cadiamo però nella tentazione di credere che l’azione del Tribunale possa essere sufficiente. Altri attori devono intervenire in questo percorso. La società civile, il mondo dell’informazione, la politica, la comunità internazionale, ancora fortemente presente nei Balcani, hanno un ruolo importantissimo da svolgere. Ed è bene che lo facciano.