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Kossovo: eppur qualcosa si muove

18.11.2004   

Chi osserva il Kosovo dall’Italia rischia di percepire un’immagine ferma al 17 marzo, focalizzata esclusivamente sulla fuga dei serbi. Ma si tratta di una lettura limitativa, che non coglie l’effettivo andamento del pur difficile processo di rientro degli abitanti serbi del Kosovo. Un piccolo ma significativo esempio da Pejë/Peć. Riceviamo e volentieri pubblichiamo.
Una partita sul ballatoio in un'encalve serba


A cura di Bergamo per il Kossovo


Siga e Brestovik sono due villaggi kosovari situati a pochi chilometri a nord della città di Pejë/Peć, sulla strada che conduce al passo di Kula, che sancisce il confine con il Montenegro. Da circa due mesi si trovano al centro dell’attenzione tanto della comunità locale quanto di quella internazionale, proprio da quando è iniziato il ritorno degli abitanti serbi. Il progetto avrebbe dovuto cominciare molto tempo prima, ma è stato rallentato in seguito agli eventi di marzo, rischiando addirittura la soppressione. Oltretutto la regione di Pejë/Peć è considerata proprio come la zona più delicata anche solo per ipotizzare un tranquillo rientro della popolazione serba.

Siga e Brestovik erano fino a pochi mesi fa una jungla, dove si potevano appena scorgere i ruderi delle case scientificamente distrutte durante l’estate del 1999, quando la guerra celeste era ormai finita. Eppure il 17 settembre, a distanza di sei mesi dagli eventi di marzo, il primo gruppo di capifamiglia serbi è rientrato nel centro collettivo, luogo di transito nell’attesa della ricostruzione della case. Le prime tredici case, su un totale di trentasette in cantiere per questo anno, sono finite, e in questi giorni verranno consegnate ai proprietari, che saranno raggiunti dalle famiglie. Insieme ai lavori per le abitazioni, è proceduta a passo spedito anche la riabilitazione delle infrastrutture. L’anno prossimo il progetto raddoppierà i suoi numeri e si amplierà anche a Ljevoša, piccolo villaggio a monte del Patriarcato, raggiungendo il totale di novanta famiglie rientranti.

Nel frattempo sono stati avviati diversi progetti a favore della comunità ricevente, in maggioranza albanese ma con una significativa presenza di bosniaci e rom: una nuova strada che collega un gruppo di case finora isolate, un campo sportivo per la vicina scuola, l’organizzazione della raccolta periodica della spazzatura in tutta l’area e la fornitura degli appositi contenitori, l’allacciamento di venti famiglie alle rete idrica e la sostituzione di tutta la linea elettrica principale. L’anno prossimo inizierà la costruzione della scuola a Siga, che verrà inclusa nel sistema d’istruzione kosovaro, rendendo possibile l’accesso a tutti i bambini, indipendentemente dall’etnia.

Chi venisse a visitare i due insediamenti, oltre a notare la mole dei lavori in atto, subito noterebbe l’assenza di posti di controllo e la facilità di accesso e di transito in tutta l’area. Questo elemento rappresenta la prima peculiarità del progetto: la volontà di non creare enclave, che sanciscono la negazione a priori di qualsiasi sostenibilità. La questione sicurezza non è affidata, come consuetudine in questi scenari, alla KFOR, ma è egregiamente gestita dalla KPS, la polizia kosovara, che è presente nell’area costantemente ma con discrezione. La seconda caratteristica è quella di puntare all’integrazione dei rientranti nelle istituzioni kosovare, evitando che si affidino alle strutture parallele o a logiche assistenzialiste. Si tratta evidentemente di un processo complesso e dai risultati incerti, ma potrebbe essere l’unica modalità in grado di garantire alla popolazione serba del Kosovo la possibilità di vivere normalmente, come tutti gli altri abitanti kosovari. Oltretutto la reciproca chiusura, ben figurata dall’idea di enclave, viene costruita attraverso meccanismi mentali, che si presentano ostici alla rimozione.

L’ostacolo sembra a prima vista insormontabile: la rappresentazione della realtà supera in maniera preponderante la realtà stessa e i discorsi pieni di ataviche paure faticano ad essere smentiti dalle prassi, eppure i serbi di Siga e di Brestovik si sono già gustati qualche innocente giretto in città senza alcun tipo di scorta, e soprattutto hanno già avuto modo di incrociare, passeggiando nella zona, qualche vicino albanese, magari vecchio amico o anche solo conoscente. Certo l’impatto non è morbido, in un primo momento vince l’indifferenza, ma è ancor più spontaneo il saluto tra persone che si conoscono da lungo tempo, e qualche volta anche un breve scambio di battute. Il conflitto mai sopito trova così la possibilità di esprimersi, di non rimanere celato e di rendersi evidente, concretizzarsi nell’interazione tra individui consapevoli quantomeno di dover convivere. I rientranti hanno già fatto inoltre visita al Sindaco, esplicitando le loro intenzioni di rimanere.

Il progetto di Siga e Brestovik è stato finanziato nel settembre dell’anno passato dal MAE italiano, e vede come agenzia leader IOM. La ricostruzione materiale è affidata alla tedesca THW e l’aspetto legale è curata dalla spagnola MPDL. Costantemente sul campo, con il delicato compito di gestire gli spostamenti delle persone, dai primi contatti passando per l’accoglienza fino all’ingresso in casa e oltre, è l’italiana Bergamo per il Kosovo, presente nell’area fin dal 1999 e forte di ottime relazioni con la comunità albanese, con cui prosegue il percorso di collaborazione e sviluppo. Lavorando con entrambe le parti, l’organizzazione bergamasca si rende veicolo stesso del dialogo. In attesa che il nodo dello status venga sciolto, l’unica via percorribile è l’integrazione dei rientranti nelle istituzioni locali, alle quali viene chiesto, con risultati positivi, l’impegno di garantire equità di accesso e trattamento.

Otto mesi dopo i tristemente noti eventi di marzo, riferimento di tutte le letture catastrofiche dell’intricata questione kosovara, il caso di Siga e Brestovik con tutte le dovute precauzioni può essere interpretato come il segnale che qualcosa può effettivamente muoversi, seppur a livello locale, nella direzione di un rientro sostenibile della minoranza serba. Questi due villaggi kosovari, ignari della loro celebrità, ci mostrano come questa possibilità risieda nell’interazione fra elementi diversi dal modello vigente di rientro: la capacità di accettare l’incertezza del contesto istituzionale, la fiducia e la responsabilizzazione delle istituzioni locali, il lavoro con entrambe le parti attraverso la trasparenza dell’intero processo e l’abbandono di schemi mentali per cui il conflitto tra albanesi e serbi debba inevitabilmente sfociare nello scontro. E soprattutto la paziente consapevolezza che si tratta di un processo lungo e complesso, ricco di contraddizioni e di difficoltà.



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