Balcani Cooperazione Osservatorio Caucaso
giovedì 08 settembre 2022 13:40

 

Una calma piena di attesa per un futuro migliore

17.02.2005   

Il Kosovo sull'orlo del disastro? Da piccoli segnali quotidiani sembrerebbe di no. Il Kosovo del 2005 è un Kosovo diverso da quello del 1999. Il punto di vista di un operatore sul campo. Continuiamo con la pubblicazione di lettere che ci vengono inviate dai Balcani
Roberto Bertoli*
Scritto inviato lo scorso 11 febbraio


Ieri per l'ennesima volta, come facciamo da 10 mesi, siamo stati a Mitrovica portando un gruppo di cittadini serbi kosovari rientrati a Siga e Brestovik - nella municipalità di Peje/Pec - che dovevano andare per alcuni giorni in Serbia. Una o due volte la settimana partiamo da Peje/Pec con il nostro carico di uomini, donne e bambini serbi che per vari motivi vengono o partono dai loro villaggi. Lo facciamo con un pulmino a nove posti pieno di persone che vogliono ricostruire la propria vita in Kosovo. Da sempre viaggiamo senza scorte, da sempre attraversiamo il ponte di Mitrovica, da sempre ci sostituiamo al servizio pubblico che non garantisce normali collegamenti tra Serbia e Kosovo.

Ieri arrivati al ponte centrale di Mitrovica abbiamo visto che il sistema di controllo dei militari francesi era finalmente notevolmente diminuito e la situazione ci è apparsa notevolmente tranquilla. Il ponte secondario, come sempre, era percorribile senza nessun tipo di controllo e l'accesso concesso a tutti.

Ci siamo detti " buon segno, la normalizzazione avanza".

Forse vuol dire che il lentissimo processo di ricostruzione di un Paese democratico inizia a vedersi non solo a Peja/Pec, forse sotto il gelo di questi giorni stanno rinascendo i fiori della speranza e del futuro per tutto il popolo Kosovaro. A noi appare che qualcosa si stia movendo e che forse qualcosa di più potrebbe essere fatto da tutti coloro che operano in Kosovo, e che troppo spesso non osano per ricreare condizioni di normalità ad entrambe le comunità.

Da mesi guardiamo con stupore le auto di ONG che si occupano di "go and see visit" (visite di un girono ai luoghi depositati al ritorno), scortate da blindati della Kfor. Da mesi ci stupiamo del pullman che due volte la settimana raggiunge Gorasdevac scortato da Kfor, da mesi guardiamo con stupore le ONG che sostengono il sistema parallelo creato dalla comunità serba non aiutando i cittadini serbi rientrati a servirsi dei servizi pubblici normali. Da mesi ci stupiamo che le pensioni dei cittadini serbi vengano ritirate da personale internazionale, che le registrazioni delle nuove persone arrivate debbano essere fatte da team mobili che vanno dove i serbi vivono, da mesi ci stupiamo che in troppi non favoriscano l'utilizzo del sistema sanitario kosovaro, ecc. ecc..

Eppure qualcosa di diverso inizia ad avvenire.

I cittadini serbi di Siga e Brestovik, rientrati da pochi mesi e supportati da Bergamo per il Kosovo possono registrarsi nell'apposito ufficio in città, fanno la fila come tutti, parlano la propria lingua con gli impiegati, ritirano in banca le proprie pensioni, utilizzano il sistema sanitario normale andando negli ambulatori come tutti gli altri cittadini. Da mesi fanno acquisti nei negozi ed hanno anche iniziato ad andare il sabato mattina al mercato centrale di Peja/Pec.

Perché Siga e Brestovik, dove sono rientrate le prime 25 famiglie e ci sono i primi bambini, non ha bisogno di alcun posto di controllo della Kfor? Perché a Siga e Brestovik albanesi , bosniaci, rom possono tranquillamente girare e, di tanto in tanto, fermarsi a parlare con i loro vecchi vicini serbi?
Perché gli abitanti di Siga e Brestovik che debbono andare in Montenegro utilizzano i bus di linea come tutti gli altri? Perché gli abitanti di Siga e Brestovik hanno accettato la collaborazione della tanto temuta "protezione civile " del Kosovo. Perché il TMK aiuta i cittadini serbi a rinsediarsi nei loro vecchi villaggi?

Eppure in queste terre il conflitto è stato duro, ci sono state pesantissime distruzioni (70% delle
abitazioni albanesi bruciate e distrutte – 100% delle case serbe distrutte e bruciate – un considerevole numero di morti).

Ci potrebbero essere varie spiegazioni ma citiamo solo quella che a noi appare la fondamentale:
la comunità locale albanese e bosniaca fin dall'inizio è stata coinvolta nel progetto di rientro, le autorità di Peja/Pec sono state spinte ad essere parte del processo di rientro, mai si è arretrati nella richiesta che i cittadini rientranti venissero trattati come tutti gli altri cittadini del Kosovo senza rivendicare per loro trattamenti particolari e scontrandosi con coloro che anche qui volevano costruire un sistema parallelo come avviene nelle enclaves serbe.

Tutte le parti hanno dovuto assumersi la propria responsabilità e ognuno lo ha potuto fare con pari dignità e rispetto. Certamente il processo è ancora all'inizio ma oggi la municipalità di Peja ha preparato il proprio piano per un "rientro sostenibile" e lo fa coinvolgendo e confrontandosi con i rappresentanti serbi sia di Gorasdevac che di Belo Polje che dei rappresentanti degli sfollati.

Di fronte a queste aperture, a questa nuova disponibilità, noi crediamo che si debbano forzare le muraglie delle enclaves affinché la presenza dei cittadini serbi in città diventi un fatto un poco più normale.

Tutto ciò è un azzardo? E' pericoloso? Forse, ma in ogni caso è meglio che vivere per anni in una riserva indiana, meglio che vivere scortati, meglio che continuare a vedere gli "Altri" come potenziali assassini, pronti ad aggredirti, meglio che pensare che per "Noi" non c'è futuro.

Questo nostro approccio, queste forzature, stanno portando buoni risultati e i riconoscimenti positivi sull'utilizzo di una metodologia partecipativa e rispettosa delle diverse sensibilità nella costruzione di un percorso di con-vivenza stanno giungendo da tutte le parti.

Non che ci interessi più di tanto a confronto di quanto riceviamo dai sorrisi e dalla fiducia delle persone che stanno facendo questa strada con noi, siano essi albanesi o serbi.

Da un mese comunità internazionale, KFOR, ONG, analisti più o meno seri si cimentano nella previsione di ciò che potrà succedere in Kosovo a marzo. Carabinieri , Ambasciata italiana richiedono le presenze di cittadini italiani (lo stanno facendo tre uffici diversi senza parlarsi tra di loro), studiano piani di evacuazione in attesa di eventi disastrosi.

A noi tutto ciò appare esagerato, frutto più di pregiudizi e di ignoranza che di elementi reali, ci appare irrispettoso di un popolo che faticosamente sta cercando di avviarsi verso una difficile normalità, di una popolazione(albanese) che ha riletto quanto successo lo scorso marzo e che sta rifiutando la strada della violenza per la soluzione dei conflitti.

Una popolazione che dopo sei anni dalla guerra ha voglia di lavoro, di scuole dignitose per i propri figli, di una sanità pubblica migliore, di un sistema di diritti per i lavoratori, di un sistema pensionistico che difenda gli anziani, una popolazione che ha voglia di conoscere il mondo.

Noi non sappiamo e non possiamo sapere se ci sono forze che vogliono ricreare tensioni, destabilizzare i faticosi passaggi che attendono questo paese ma sappiamo quello che deve competere al movimento non violento e democratico internazionale che invece troppo spesso si perde nelle astruse discussioni parolaie sui principi.

Noi vogliamo essere parte, intrometterci, stare con le persone in mezzo alle loro contraddizioni e difficoltà, vogliamo difendere e appoggiare chiunque richieda i propri diritti di vita quotidiani, vogliamo esporci in prima persona al loro fianco e non nascondersi dietro ad uomini armati che forse, garantendo la sicurezza, protraggono all'infinito l'isolamento e la divisione tra le varie etnie. Noi abbiamo fiducia nelle persone di questo paese siano essi serbi, albanesi, rom o bosniaci, noi a tutti loro chiediamo di essere attori della trasformazione, di partecipare alla costruzione del loro futuro. L'inclusione è un valore a cui non vogliamo rinunciare perché solo coinvolgendo il più possibile, perché solo partecipando ai cambiamenti ognuno di loro si sentirà soggetto e non solo oggetto delle decisioni che riguardano il loro futuro.

Essere catastrofisti in Kosovo in questo momento è controproducente e vuol dire non saper leggere la realtà della vita delle persone, non capire sogni e speranze. In tanti piccoli o grandi atti si può oggi percepire che la voglia di normalità, di sicurezza, di futuro iniziano a prevalere sugli incubi del passato.

E forse anche le autorità iniziano a far prevalere la ragione sulla passata barbarie: il documento che segue proviene da una persona il cui futuro sarà probabilmente il Tribunale dell'Aja, e noi lo leggiamo come un atto che in ogni caso sta favorendo il percorso della pacificazione a livello più basso.

Circolare del Primo Ministro del Kosovo inviata il 23 gennaio a tutti i Sindaci del Kosovo.

1)Lingue:
a) tutte le strade della città debbono avere il nome nelle tre lingue ufficiali;
b) a partire da oggi tutti i documenti ufficiali se non compilate in tre lingue non possono essere distribuiti;
c) ogni documento non compilato in tre lingue può essere rifiutato da chiunque;

2) Impiego delle minoranze:
a) una campagna per l'assunzione delle minoranze deve partire a cominciare da questa settimana;

3) Diritti di proprietà:
a) dichiararsi immediatamente contro l'usurpazione di proprietà pubbliche;
b) prevenire e condannare l'usurpazione della proprietà privata richiedendo nel caso alla polizia di applicare immediatamente la legge;

4) Ritorni
a) La strategia per il ritorno deve essere completata entro questo mese;
b) mettere in atto azioni politiche, economiche e giudiziarie per rendere possibile il ritorno nelle
proprie case;

6) Condanna della violenza:
a) fermare, condannare e prevenire ogni tipo di violenza , vandalismo che possa essere commesso da chiunque;
b) dichiarasi pubblicamente contro ogni tipo di atto violento con motivazioni etniche;

Io non so se tutto ciò avverrà ma ritengo positivo che sia scritto e sono convinto che nostro ruolo è da subito controllare e spingere perché questi punti diventino al più presto realtà, rivendicando anche con la popolazione serba il valore di queste dichiarazioni e il loro diritto a pretenderne il rispetto in tutte le occasioni.

E noi ONG "un poco diverse" dobbiamo stare in mezzo ......... ma per davvero.



* Bergamo per il Kosovo




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