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Veton Surroi: l’avvenire del Kosovo è in Europa

23.03.2005   

Veton Surroi, ex direttore del quotidiano albanese Koha Ditore, negoziatore a Rambouillet, e attuale presidente del partito d’opposizione ORA parla della situazione in Kosovo. E punta su alcuni temi chiave: decentralizzazione, dialogo con Belgrado, questione dello status
Veton Surroi
Di Jelena Bjelica, Danas, 12 marzo 2005

Traduzione di Persa Aligrudic (Le Courrier des Balkans, 17 marzo 2005) e, dal francese, di Osservatorio sui Balcani


Cosa rischia di accadere in Kosovo dopo la partenza di Ramush Haradinaj per l’Aja ?

Eravamo inquieti ben prima, quando è stato formato questo governo, quando era probabile una possibile incriminazione di Ramush Haradinaj. Un atto d’accusa contro un membro del parlamento pone gravi questioni per l’intera società come era già avvenuto precedentemente con Fatmir Ljimaj.

Perché la Lega democratica del Kosovo (LDK) ha deciso di formare una coalizione con l’Alleanza per l’avvenire del Kosovo (AAK), il partito di Haradinaj, se la delicatezza della situazione era già conosciuta in ottobre, al momento della formazione del governo?

Non lo so e non posso rispondere a nome dell’LDK. Non voglio fare speculazioni. E’ una questione di principio e, per noi, è sufficiente. Nel caso di Ramush Haradinaj l’AAK e l’LDK avevano il diritto legittimo di formare una coalizione. In quanto opposizione noi abbiamo sostenuto la legittimità politica della loro decisione. Allo stesso tempo abbiamo precisato che il TPI va rispettato e che ciascuno deve assumersi le proprie responsabilità, nel caso venga pronunciata una condanna.

Ritenete dunque che Ramush Haradinaj debba assumersi le proprie responsabilità?

Certamente. Noi l’abbiamo detto in passato e manteniamo questa posizione. Dobbiamo comportarci con dignità nei confronti del TPI. Questo Tribunale ha affrontato la questione del Kosovo nel corso del processo all’ex Presidente della Serbia Slobodan Milosevic. Dato che siamo passati attraverso tutti questi crimini di guerra dobbiamo avere rispetto della giustizia internazionale. Abbiamo spiegato che quest’incriminazione non è differente dalla convocazione di un tribunale locale. Ramush Haradinaj a causa del suo ruolo politico deve avere tutte le garanzie di protezione da parte degli organi ufficiali oltre al diritto di vedersi forniti dei difensori.

Sembra che il processo di soluzione dello status del Kosovo sia finalmente cominciato. Come si svilupperà?

Dal punto di vista delle negoziazioni siamo allo stesso punto nel quale si era a metà 1998. Certamente la situazione è migliore: non c’è più la guerra, né rifugiati, e nemmeno distruzioni. Attendiamo una verifica sugli standard nei mesi prossimi. Se questa sarà positiva allora comincerà il processo. Verranno probabilmente stabiliti dei principi sui quali si baseranno le negoziazioni sullo status. A mio avviso poco importa se i negoziati avranno luogo in una conferenza o attraverso un processo diplomatico itinerante. Nella seconda metà dell’anno si stabiliranno probabilmente dei principi che verranno articolati durante il percorso. Come sapete uno di questi principi sarà che il Kosovo non può ritornare alla situazione che vi era prima del 1999. Il secondo principio, già formulato, è che il Kosovo non può essere diviso. Oltre a questi due principi ve ne saranno senz’altro un’altra decina, che formeranno il quadro delle negoziazioni. A quel punto tutti i diversi interessi saranno esplicitati. Le richieste formulate ai tempi della conferenza di Rambouillet saranno senza dubbio incluse in questi principi. Alla fine dell’anno avremo di fronte una situazione più chiara.

Se la partenza di Ramush Haradinaj per l’Aja non provocherà un intensificarsi del conflitto in Kosovo, il Kosovo rispetterà uno degli standard più rilevanti. Siete d’accordo con questa affermazione?

Assolutamente sì. Ma se accadesse il contrario, se il Kosovo ricadesse nella violenza, allora questo sarà uno degli indicatori più gravi di una tendenza del tutto negativa della società. Non abbiamo ancor ben compreso quanto è avvenuto nel marzo 2004 ed un nuovo ritorno della violenza potrebbe essere distruttivo per gli interessi dei nostri cittadini.

Credete che i cittadini del Kosovo riusciranno ad ottenere il diritto all’autodeterminazione?

Il diritto all’autodeterminazione non si ottiene, è inerente alla società. La questione del referendum è quasi superflua. Ritengo siano altre le dimensioni sulle quali dobbiamo riflettere. A mio avviso lo status del Kosovo è fortemente legato all’adesione all’Unione europea. Quella è la questione principale, sia politica che tecnica, perché l’adesione all’UE è una questione di management.

Ma lo Stato non è un’azienda …

No, ma il percorso verso l’adesione dimostra le capacità e la maturità di una società ad autogestirsi. Guardate la Bulgaria, è sempre servita a confronti negativi. Ciononostante nel 2007 farà parte dell’UE. Naturalmente la Bulgaria non è uno Stato maturo se la si confronta alla Francia, alla Germania o alla Spagna, ma la società è sufficientemente avanzata dal punto di vista del suo autogoverno. Questo Paese offre numerose garanzie di compatibilità delle proprie istituzioni con quelle dell’UE. Questo aspetto mostra in modo chiaro al Kosovo come arrivare ad avvicinarsi all’UE. Questo avverrà in tempi rapidissimi se la società si prende le proprie responsabilità e così fanno le istituzioni. La questione dello status non riguarda il governo, il potere, la bandiera, i corpi di polizia ma è una questione di capacità della società di trasformare se stessa.

Quale situazione vi è in Kosovo dopo le elezioni legislative?

Le cose hanno ripreso un po’ di dinamismo, soprattutto in seguito all’arrivo di Soren Jessen-Petersen che ha modificato le modalità con le quali la comunità internazionale agisce per entrare nella fase finale. Le elezioni hanno cambiato la situazione in Kosovo. Innanzitutto perché hanno portato all’elezione di un Primo ministro dinamico. Inoltre i tre partiti albanesi sono entrati da soli a trattative, senza la mediazione della comunità internazionale. Per ultimo anche l’opposizione che si è venuta creando dimostra la qualità di queste elezioni legislative.

E’ interessante notare come per la prima volta, dopo queste elezioni, vi è in Kosovo un’opposizione parlamentare di cui voi fate parte …

Noi rappresentiamo un fattore terzo. Sia durante la campagna elettorale che dopo le elezioni abbiamo stabilito un livello razionale di dibattito politico. Una parte di questa razionalità è data ora dal fatto che esiste un’opposizione. Ritengo che da questo punto di vista vi siano stati molti miglioramenti. Ciò che resta negativo è la posizione di Belgrado che non ha saputo riconoscere questi passi positivi ed ha invece insistito sullo status quo, in particolare quello della chiesa ortodossa in Kosovo. In questo modo, invece di favorire questi passi positivi, i serbi hanno perso perché sono nuovamente rimasti marginali.

Quale è la forza d’opposizione reale nel parlamento del Kosovo?

Noi, il Partito democratico del Kosovo (PDK) e ORA, non siamo così numerosi da poter bloccare qualsiasi cosa. Ciononostante possiamo influire su come vengono trattate certe questioni. Una delle iniziative di ORA è stato ottenere che, a differenza del passato governo, questo presenti dei rapporti sul proprio operato, con trasparenza. Questo procedere è ora obbligatorio ed il governo presenta anche i dettagli finanziari. Possiamo notare anche un altro livello di reattività rispetto alle nostre iniziative: abbiamo sollevato questioni inerenti alle modalità con le quali si comporta il Presidente dell’Assemblea. Ed abbiamo ottenuto risposte. Infine abbiamo richiesto un consenso sociale per la decentralizzazione, con un atteggiamento diverso da quello dimostrato dal PDK.

Ciononostante i serbi di Gracanica rifiutano d’accettare il piano di decentralizzazione all’elaborazione del quale hanno partecipato …

Questa riforma, come tutte le altre, deve avere il pieno sostegno della società ed una forte base politica. Questo è vero soprattutto per la riforma delle amministrazioni locali che è una delle questioni principali nelle società post-comuniste. Non si fa né attraverso dei progetti pilota, né in modo improvvisato. E’ una riforma dove tutti devono partecipare e che modifica la situazione della società. Ciò esige molto tempo ed energia.


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