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I Balcani nel futuro dell’Europa

19.04.2005    scrive Andrea Rossini

Pubblicato il rapporto della Commissione Internazionale per i Balcani. Solo una rapida integrazione dei Paesi dell’area nell’Unione Europea può disinnescare i rischi per la stabilità del continente. Proposto un percorso concreto per la soluzione della questione del Kosovo
La scuola di Atene (dett.)
Nei primi giorni dell’assedio di Sarajevo, la fotografia delle mura del palazzo semidistrutto delle Poste della città aveva catturato l’immaginazione del mondo. Si leggeva una prima scritta, che diceva: “Questa è Serbia!”; poco sotto: “Questa è Bosnia”; ancora più giù: “Idioti, questa è la Posta!” In fondo, uno storico europeo del presente aveva aggiunto il suo commento: “Questa è Europa”.

Si apre con una citazione che ci riporta indietro di dieci anni (Timothy Garthon Ash, “La Bosnia nel futuro europeo”, New york Review of Books, 21 dicembre 1995) il rapporto della Commissione Internazionale sui Balcani titolato “I Balcani nel futuro dell’Europa”, pubblicato martedì scorso, 12 aprile. La Commissione, presieduta da Giuliano Amato e sostenuta da alcune Fondazioni europee e statunitensi (Robert Bosch Stiftung, Fondazione Re Baldovino, German Marshall Fund degli Stati Uniti e la Fondazione Charles Mott), interviene con autorevolezza nel dibattito sul presente e futuro dell’area balcanica – a dieci anni dalla firma degli accordi di Dayton e a cinque dalla guerra del Kosovo.

Le 65 pagine, esito di un anno di ricerca e preparazione, corredate da dati e sondaggi condotti nella regione, sono un capolavoro di disincanto e al tempo stesso svolgono la funzione di far suonare un campanello d’allarme: il futuro è a rischio, la regione è “altrettanto vicina al successo quanto al fallimento”, “per il momento non ci sono guerre, ma l’odore della violenza ristagna ancora pesantemente nell’aria”.

Il gruppo di esperti che ha collaborato alla stesura del documento - tra i 18 membri della Commissione ci sono molti nomi noti, rappresentanti della politica internazionale degli ultimi anni, tra gli altri Carl Bildt, Kiro Gligorov, Goran Svilanovic, Ilir Meta, Zlatko Lagumdzija, Richard von Weizsacker, pone al centro della propria analisi la questione Europa.

Nonostante l’enorme massa di aiuti, buona volontà e risorse umane investite nella regione - sostiene Giuliano Amato nell’introduzione al rapporto – la comunità internazionale non è riuscita a offrire una convincente prospettiva politica alle società della regione: “Stiamo correndo il rischio reale di un’esplosione del Kosovo, un’implosione della Serbia e di nuove fratture nelle fondamenta di Bosnia e Macedonia”.

La prospettiva politica – sottesa al ragionamento – è chiara: una rapida e certa integrazione dell’area balcanica nell’Unione Europea. “Stiamo nuotando controcorrente nel suggerire che l’Europa dovrebbe essere sufficientemente coraggiosa da aprirsi a questi Stati deboli, ma i costi della prosecuzione dello status quo sarebbero un problema per l’intera Europa – ha dichiarato Giuliano Amato (v. “The great bargain?”, Transitions Online, 18 aprile 2005).

Il documento è ricco di riferimenti storici e simbolici: “E’ a Sarajevo nell’estate del 1914 che l’Europa è entrata in un secolo di follia e autodistruzione[…], è a Sarajevo nell’estate del 2014 che l’Europa deve dimostrare che un nuovo secolo europeo è arrivato”, si sostiene – alludendo ad una data precisa per l’integrazione.

Tuttavia il rapporto, che resta coerente con il punto di vista espresso in apertura (“La domanda oggi non è più ‘Cosa bisogna fare?’. Bisogna chiaramente portare la regione nell’Unione Europea”), non resta nel terreno della filosofia ma sceglie di sporcarsi le mani, cercando di esplicitare “la sequenza dei passi e delle politiche da intraprendere, e delle strutture e incentivi che li faranno funzionare”.

Da Mary Kaldor a Giuliano Amato

Tra le righe del rapporto, ce n’è per tutti: l’Ufficio dell’Alto Rappresentante (OHR) in Bosnia Erzegovina ha esaurito il suo ruolo, il Tribunale Internazionale dell’Aja ha fallito nel comunicare la propria missione alla popolazione della regione, l’UNMIK è stato coinvolto in politiche discriminatorie, per evitare che i Balcani diventino il buco nero d’Europa bisogna rimuovere il muro di Schengen con una nuova politica dei visti, sono solo alcune delle – poco diplomatiche – osservazioni che è possibile trovare nel documento.

La Commissione, che propone un nuovo summit UE-Balcani da tenersi nell’autunno del 2006, pone l’accento sulla necessità di risolvere urgentemente le questioni costituzionali e di status ancora aperte, per far muovere la regione intera dallo stadio di protettorati e Stati deboli (“weak states”) a quello dell’integrazione europea, secondo un calendario certo da presentare nel nuovo summit.

Per l’Unione Europea, la scelta relativamente all’area balcanica è tra allargamento o Impero: “O gli Stati balcanici potranno diventare membri dell’UE entro la prossima decade, oppure in luoghi come il Kosovo, la Bosnia e anche la Macedonia, l’UE assumerà le forme di una potenza neocoloniale”.

Il gruppo di esperti sottolinea impietosamente tutti i limiti delle costituzioni sostenute dalla comunità internazionale tra il 1994 e il 2002 (Accordi di Washington, Dayton, Ohrid, la ‘Cornice’ costituzionale in Kosovo): sono tutte basate su criteri etnici; hanno creato Stati deboli, internamente divisi e con forti intrusioni internazionali; sono state firmate da élites armate senza il consenso delle popolazioni.

Come conseguenza – si sostiene, con un linguaggio che dimostra di aver presente tutta l’analisi sulle ‘nuove guerre’, da Mary Kaldor in avanti – gli attori pubblici (statali) sono divenuti sempre più deboli mentre quelli privati, inclusi partiti politici, oligarchi e imprese criminali, sempre più potenti e fuori controllo. Questo significa che “istituzioni non statali provvedono a molti servizi pubblici di base che normalmente dovrebbero essere di competenza dello Stato”.

Interessante anche la breve analisi dedicata al Tribunale Internazionale dell’Aja (TPI), la cui azione ha negli ultimi anni avuto un impatto frontale sulla politica degli Stati della regione. Secondo la Commissione Amato, la collaborazione degli Stati con il TPI dovrebbe essere misurata più attraverso lo sforzo di riflessione sulla storia recente, la promozione di tolleranza e riconciliazione attraverso i propri sistemi educativi e l’istituzione di sistemi giudiziari (locali) efficaci, che nella consegna di singoli individui.

Kosovo e Bosnia Erzegovina

La sezione sul gioco del domino nei Balcani oggi si apre con una considerazione molto impegnativa, ma schietta: “Secondo noi, l’incubo della comunità internazionale secondo cui l’indipendenza del Kosovo provocherebbe automaticamente la disintegrazione della Bosnia non ha in realtà alcun fondamento […] Il problema non è l’indipendenza ‘per se’ – ma come arrivarci.”

In Kosovo, infatti, “il tempo sta scadendo, e la comunità internazionale ha chiaramente fallito nel tentativi di portare sicurezza e sviluppo alla regione”.

Il percorso sostenuto dalla Commissione – che ribadisce come “l’irrisolto status del Kosovo e i quadri costituzionali provvisori in vigore altrove [siano] tra i maggiori ostacoli all’europeizzazione dei Balcani” – considera quattro fasi, per traghettare la comunità internazionale dalla politica degli “standards prima dello status” ad una politica di “standards e status”:

1. separazione “de facto” del Kosovo dalla Serbia
2. indipendenza senza piena sovranità (entro il 2005/2006) in un Kosovo decentralizzato: la comunità internazionale – non le Nazioni Unite-UNMIK ma l’UE – manterrebbe i propri poteri nel campo dei diritti umani e della protezione delle minoranze. La Kfor dovrebbe conservare la propria forza e il proprio mandato. Per l’area di Mitrovica – in questa fase – si sostiene “uno speciale accordo amministrativo” (sulla falsariga dell’esperienza UNTAES nella Slavonia orientale), così come uno speciale status legislativo per i Monasteri ortodossi, escludendo tuttavia ogni possibilità di una partizione. L’Unione Europea dovrebbe finanziare un “Fondo di inclusione” per assistere l’integrazione nella società serba degli sfollati serbi kosovari che scelgono di non rientrare in Kosovo.
3. “sovranità guidata”: candidatura del Kosovo a membro dell’UE e apertura dei negoziati
4. piena e “condivisa” sovranità: Kosovo nell’Unione con tutte le prerogative della sovranità limitata che pertiene agli Stati membri dell’UE

Per quanto riguarda invece la Bosnia Erzegovina, la Commissione sostiene la necessità di passare dall’Ufficio dell’Alto Rappresentante ad una figura di Rappresentante (negoziatore) dell’Unione Europea, l’abbandono dei “poteri di Bonn” e la creazione di un quadro preciso per l’integrazione [europea] a partire dal sistema federale attuale, ma attraverso un processo di “chiarificazione sistematica delle responsabilità a tutti i livelli di governo”, dato che “l’attuale architettura costituzionale [del Paese] non è funzionale”.

“Non funzionale” è il giudizio riservato anche all’Unione Serbia-Montenegro. In questo caso, la Commissione sostiene la necessità di un voto dei cittadini per decidere tra una “federazione funzionale” e una “separazione funzionale” entro l’autunno del 2006.

Una messe di grafici e sondaggi, condotti da diversi istituti statistici nella regione, viene presentata in chiusura, a sostegno del rapporto. Una delle rilevazioni più significative mette in luce come – con la stridente eccezione degli Albanesi del Kosovo – nessuna comunità nazionale si dichiari a favore di Stati “etnicamente puri”.

Ma l’ultima parte è dedicata all’ultimo muro rimasto a separare i Balcani dal resto dell’Europa: quello di Schengen. “La generazione europea dei Balcani – afferma il rapporto – uomini e donne sotto i 30 anni che condividono con maggior passione i valori europei e che votano più regolarmente partiti pro europei, sono quelli che hanno le maggiori difficoltà di movimento. Più del 70% degli studenti serbi non ha mai viaggiato all’estero […] Per sostenere la generazione europea dei Balcani la Commissione propone che i Paesi membri creino un ‘Balkan Student Visa Programme’ per 150.000 studenti di Serbia-Montenegro Bosnia Erzegovina, Macedonia e Albania entro il giugno 2005”.

Poche parole, chiare. Resta da vedere se a Bruxelles prevarrà la paura o la lungimiranza.


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