Per serbi e albanesi fare i conti con il passato è difficile. Ma non impossibile. Da Peacereporter un resoconto dello scenario di rielaborazione del conflitto a 6 anni dalla fine della guerra nel Kosovo
Di Enza Roberta Petrillo – Peacereporter, 21 luglio 2005
Si chiamavano Avni, Flamur, Fatime, Florentina ma anche Tomislav, Milan, Dragica, Bajram, o Mediha. Nomi albanesi, serbi e turchi a ricordarci che dall'orrore a volte può nascere la speranza, nonostante il silenzio e i tentativi di camuffare la storia.
Dalla vergogna alla speranza
Le cifre della vergogna fanno rabbrividire. In Kosovo, quasi quattromila tra uomini e donne sono
scomparsi durante il conflitto del 1999 senza lasciare tracce. Oggi l'Ufficio Persone Scomparse e Medicina Legale della missione Onu, presente in Kosovo dal 1999, cerca di recuperare gli anni di silenzio e di inattività sulle indagini. E i risultati iniziali sono agghiaccianti.
Ciò che emerge a sei anni dalla fine della guerra è uno scenario fatto di silenzi, depistaggi e tentativi di strumentalizzazione che per anni hanno oscurato il desiderio di verità di chi attendeva il ritorno dei propri cari.
Elementi inquietanti che per la prima volta fanno convergere sullo stesso fronte vincitori e vinti. Tutti accomunati dalla ricerca della verità.
Il balletto di cifre sul numero degli scomparsi serbi e albanesi passa così il testimone alla volontà di mettere in discussione anche i crimini commessi della propria popolazione. Questo è almeno quanto dichiarano le madri dei tanti ragazzi scomparsi che anno dopo anno sono scese in piazza ad urlare la propria voglia di verità.
L'ultimo ritrovamento di persone scomparse risale allo scorso 19 aprile. A Volljakë/Volujak fu ritrovata una fossa comune con i corpi di 22 serbi scomparsi nel 1998 da Rahovec/Orahovac, a
50 km a ovest di Pristina.
Da aprile, in un susseguirsi di discussioni e confronti, per la prima volta il Kosovo ha provato a rielaborare collettivamente il dramma della propria storia recente con un obiettivo difficile ma non impossibile. Fare i conti con il proprio passato e provare a ricominciare. Insieme.
Oltre il "passato che non passa"
Jeta Beitullahu del Humanitarian Law Centre è ottimista: "La presentazione generalmente precisa e imparziale della notizia nei media mostra che la società albanese del Kosovo è pronta ad accettare che anche i serbi, sia pure su scala minore, sono stati vittime della guerra. Questo è un passo avanti rispetto alla completa negazione che esisteva negli anni dell'immediato dopoguerra" .
Intanto, mentre la società civile serba e albanese sembra decisa a scalzare il falso mito del "passato che non passa", in molti si chiedono quando verrà fatta luce sui mandanti di questo genocidio.
Per Olgica Bozanic, serba kosovara rifugiata a Belgrado, la ricerca disperata dei propri cari è finita. I corpi dei suoi due fratelli e del cugino erano tra quelli dei ventidue serbi rinvenuti lo scorso aprile.
Per Olgica la ricerca dei mandanti responsabili di quegli orrori è rimasta l'unica ragione di vita. "Il 18 luglio 1998 i miei fratelli furono sequestrati dai miliziani dell'Esercito di Liberazione e portati
via. Ho passato gli ultimi sette anni della mia vita a cercare la verità su quanto accaduto. Ho sempre sperato che l'Esercito di Liberazione avesse tenuto in vita i miei fratelli per i loro obiettivi politici, per le negoziazioni, per mostrare al mondo che loro non erano criminali, ma i liberatori del Kosovo, come loro chiamano se stessi".
Nelle parole di Olgica non c'è desiderio di vendetta ma soltanto un'ansia di giustizia che l'accomuna profondamente alle donne albanesi. Le stesse che il 30 agosto dello scorso anno, giornata internazionale degli "scomparsi", sono state bloccate ed arrestate dalla polizia
dell'Unmik, la Missione delle Nazioni Unite in Kosovo, mentre manifestavano nel centro di Pristina.
Ad unire serbi e albanesi non è soltanto la volontà di elaborare insieme il dramma vissuto. Un altro collante, di portata ben più preoccupante, è la distanza che entrambi i gruppi avvertono rispetto a istituzioni che hanno spesso cavalcato la vicenda degli "scomparsi" per ragioni di calcolo politico.
Quella politica, a detta di chi è restato ad attendere invano i propri cari, ha semplicemente perso. Agli albanesi e ai serbi del Kosovo la possibilità di costruire la propria rinascita.