In modo lucido e pacato Zlatko Dizdarevic, già giornalista del sarajevese Oslobodjenje ed ex ambasciatore della BiH in Croazia, ci parla della Bosnia, della Croazia e della Serbia e Montenegro. Affrontando il processo di avvicinamento all’Unione europea, i crimini di guerra e il Tribunale dell’Aia. Nostra intervista raccolta a Ginevra
Zlatko Dizdarevic (Ginevra)
Di recente lei ha rilasciato un’intervista piuttosto severa per il sarajevese DANI, nella quale ha parlato della situazione catastrofica della Bosnia Erzegovina. È più ottimista oggi dopo l’introduzione delle riforme della polizia e del sistema televisivo pubblico, che hanno portato l’UE a dare un parere favorevole per l’avvio dei negoziati sull’Accordo di associazione e stabilizzazione con la Bosnia Erzegovina?
No, non lo sono. Ma non si tratta di essere ottimisti o pessimisti. Si tratta dei fatti. Bisogna essere realisti, ciò che è stato raggiunto come minimo sufficiente per l’Unione europea, cioè la riforma della polizia, non è una riforma della polizia. È un documento che rappresenta il massimo compromesso e che consente ad ognuno, in Bosnia Erzegovina, di interpretarlo come vuole. Si tratta semplicemente di una concessione fatta da tutti per consentire alla Bosnia Erzegovina di essere chiamata ad avviare i negoziati per l’Accordo di associazione e stabilizzazione.
All’Unione europea è del tutto chiaro che, dopo la Serbia e Montenegro, la Bosnia Erzegovina non poteva rimanere sola ed unica al di fuori di questo processo. Proprio con quel documento si è salvata la situazione su tutti i fronti, ma di per sé il documento non significa nulla, perché a 48 ore dalla sua firma può essere già interpretato come si vuole. La Republika Srpska dice ancora che ciò non significa l’eliminazione del Ministero degli Interni, che non significa il passaggio attraverso le frontiere delle entità, che tutto ciò durerà 5 o 6 anni, e così via. Secondo me fa parte di piccoli e grandi giochi politici che permettono a tutti di rimanere in vita.
Ciò che a noi manca è l’energia necessaria per chiamare le cose col proprio nome, per metterle al loro posto e fare ciò che deve essere fatto, per poter definire la Bosnia Erzegovina nel modo in cui funzionano tutti gli stati del mondo. La Bosnia Erzegovina non cerca, e non ne ha bisogno, di più né di meno di essere, nel senso più elementare del termine, un paese, come lo sono tutti gli altri. Evidentemente, in Bosnia Erzegovina per vari motivi tutto questo a molti non sta bene. Dall’altra parte per la comunità internazionale, per buona parte della comunità internazionale, questo non rappresenta un motivo sufficiente per occuparsi energicamente della Bosnia Erzegovina. Ecco perché penso che questa conferenza [di Ginevra] sia significativa, nonostante assomigli molto ad altre conferenze. Questa è importante perché ha raggruppato un numero incredibile di persone che pensano in modo positivo alla Bosnia Erzegovina, a prescindere dalle differenze. Si tratta di persone che sono in grado di attrarre di nuovo l’attenzione sulla Bosnia Erzegovina, che obiettivamente oggi non compare come problema nelle relazioni internazionali.
Mi ha già risposto alla domanda successiva, ossia cosa pensa di questa conferenza?
Ecco, se posso aggiungere un’altra frase, penso che questa conferenza non sia stata organizzata per prendere una decisione sulla Bosnia Erzegovina, questo è chiaro. Non si può prendere in questa sede, si prenderà in Bosnia Erzegovina o in un altro luogo. Tuttavia, è molto importante che si crei una massa critica di energia che possa fare in modo di realizzare questo processo il più velocemente possibile e lungo una direzione che deve essere chiara. Fino ad oggi, le iniziative sulla Bosnia Erzegovina le abbiamo ricevute perlopiù dall’esterno. In Bosnia Erzegovina molte persone serie e intelligenti hanno preso parte individualmente a vari gruppi, a varie associazioni e organizzazioni e hanno discusso delle stesse cose che si discutono oggi qui, ma non si sono mai incontrati in un unico luogo e ciò non ha mai sortito alcun risultato. Penso che proprio questa sia la grande possibilità di questa conferenza. Qui, almeno spero, si definirà ciò che, usando il condizionale, le forze politiche positive desiderano. Dopo di che resta la possibilità e l’obbligo di tutti noi, in un modo che può essere inteso come lobbying, a prescindere dal fatto che a qualcuno piaccia o no, di esercitare una pressione sulla comunità internazionale per far sì che ci aiuti a fare delle cose. Nonostante sia chiaro che la comunità internazionale non risolverà più i problemi della Bosnia Erzegovina, ma li dovremo risolvere da soli.
Cambiando argomento, secondo lei perché Carla del Ponte ha cambiato così velocemente idea riguardo la Croazia?
[sorridendo] Non saprei, dovremmo chiederlo a Carla del Ponte. Ciò che sembra a me, dal punto di vista di un’analisi politica, è che durante l’estate scorsa la comunità internazionale, mi riferisco soprattutto alle strutture europee, era divisa da un dilemma molto importante. Cioè: o insistere in modo stringente sulle condizioni poste alla Croazia per l’avvio dei negoziati, e alla Serbia e Montenegro per la loro fase, quindi insistere sulle condizioni fino alla fine e con ciò rinviare il cammino di questi paesi verso l’Unione europea oppure cambiare le posizioni, come ha fatto per esempio Carla del Ponte, e rendere possibile che questi paesi avviino i processi di associazione, in modo più rapido e migliore. Il problema evidente è che rinviare l’avvio dei negoziati con la Croazia aveva iniziato a modificare la situazione interna del Paese. Aveva aperto lo spazio per forze distruttive, nazionaliste, che potevano mettere in questione l’intero processo. L’euro-scetticismo aveva iniziato a crescere in fretta.
In Serbia è accaduta una cosa simile. Guardate oggi, quella di Seselj è la forza politica più forte della Serbia, almeno per quanto riguarda il numero di elettori. Anche in Bosnia Erzegovina ha iniziato a crearsi una situazione che ha facilitato solo i nazionalisti, la gente che desiderava una Bosnia chiusa, che si è mostrata contraria all’Unione europea, ecc. Quindi c’è stato il pericolo reale, che l'insistere in modo restrittivo su quelle condizioni poteva condurre al dilemma su cosa questo avrebbe dato come esito finale. Forse il risultato finale potrebbe essere negativo.
Ci si può attendere che la Bosnia Erzegovina raggiunga tutti gli standard europei e solo dopo venga accolta nell’Unione europea, oppure un metodo migliore è quello di introdurre tutti questi paesi nel processo, e poi da dentro con la forza degli standard dell’Unione europea, con la forza di chi c’è attorno, costringere questi paesi ad adottare e accettare più in fretta questi standard? Io penso che si siano orientati su questa seconda strada. Penso che abbiano valutato che è molto meglio ammorbidire la posizione attuale, iniziare i processi di negoziazione e in generale l’integrazione nell’Unione europea, e poi attraverso questo processo avere dei meccanismi per cambiare le cose in modo più veloce ed energico. Secondo me è stata una buona valutazione.
E per quanto riguarda la Bosnia Erzegovina credo che sia l’unica cosa sensata, che in termini politici può avere una lunga durata. Era illusorio aspettarsi che noi sistemassimo tutto quello che serve alla BiH - ottenere dei risultati in senso economico, portare a termine dei processi nel senso della democratizzazione - e poi legittimarci come candidato per la continuazione del processo. In questo modo noi, volenti o nolenti, entrando nel processo avremo un obbligo, verso questo processo, verso gli standard europei, verso ciò che ci circonda.
Riguardo la Serbia e Montenegro, devo dire che molto spesso in Bosnia ed Erzegovina si discuteva che era scandaloso che fossero entrati prima di noi, che noi come vittima arriviamo dopo e invece loro con ciò che hanno fatto vengono prima. In senso emotivo questo è vero e naturalmente è logico che la gente si ponga queste domande. Ma in senso pragmatico e politico - a qualcuno forse sembrerà anacronistico - io credo che per la Bosnia ed Erzegovina può essere vantaggioso che la Serbia e Montenegro sia entrata nel processo, perché sia la Serbia che il Montenegro dovranno rispettare alcuni standard europei, e non tirare per le lunge alcuni problemi coi quali fino ad ora hanno giocato. Quindi, in un certo senso, la Serbia e Montenegro sarà costretta a comportarsi in modo europeo, molto di più che stando fuori dal processo. La stessa cosa vale anche per la Bosnia Erzegovina e naturalmente per la Croazia, tenendo conto che la Croazia è molto più avanti e che si trova in un’altra fase.
E per quanto riguarda i criminali di guerra, adesso sarà più semplice per la Croazia consegnare Gotovina?
Semplicemente credo che la questione dei criminali di guerra fino adesso - e credo che sia chiaro a qualsiasi persona che sia almeno un po’ ragionevole - era più un gioco politico che una possibilità o impossibilità tecnica di prenderli. Per determinati ambiti politici, per determinate strategie politiche i criminali di guerra, quelli che non sono ancora stati catturati, rappresentavano una sorta di carta da giocare. Non sono in libertà perché non riescono a catturarli, ma perché non vogliono farlo. Ne sono pienamente convinto. Ma ora che la situazione è chiara, che non si ha più nulla da calcolare con la loro libertà o cattura, credo che la situazione finirà molto più velocemente.
Pensa che il Tribunale dell’Aia sia sotto pressione politica?
Non credo. Ho avuto occasione, quattro cinque anni fa, di essere all’Aia come giornalista, di andarci più volte e di osservare tutta la situazione dall’interno. Credo che siano infondate le affermazione che dicono che il tribunale dell’Aia fa dei giochi politici. Loro fanno la loro parte di lavoro, ovviamente in modo diverso da quello a cui noi siamo abituati. Noi, nelle nostre teste, pensiamo che tutto quello che succede sia frutto di un qualche accordo, di una qualche politica, e così via. Ma cosa vuoi che interessi al giudice del Sud Africa, della Cina, del Giappone, dei nostri piccoli giochi politici balcanici? Dall’altra parte il giudice è obbligato, secondo la sua formazione, secondo il suo sapere, secondo il suo status ad occuparsi delle cose di cui si deve occupare.
Un’altra questione è come noi percepiamo in generale la legge. Quando si parla di arresti, si dice di arrestare quel tale perché è un criminale, perché è noto cosa ha fatto. Cosa significa è noto? Esistono argomenti, esistono le prove, esiste tutto nero su bianco che dimostra quello che ha fatto. Va bene. Ma se non è così, allora quando diciamo che è noto, è solo una chiacchiera da osteria. La nostra percezione della politica, della giustizia, dei tribunali, è che tutto è sotto pressione, perché c’è la pressione della politica, della corruzione, delle tangenti, e noi continuamente pensiamo in questo modo. Io non credo che il Tribunale dell’Aia, in generale, agisca in funzione dei giochi politici di qualcuno. Il tribunale dell’Aia ha la sua missione. Un’altra cosa è che possiamo discutere dell’Aia, del concetto di tribunale, vedere se ha adempiuto al proprio ruolo o no, ma in generale non credo che l’Aia funzioni in base alle pressioni politiche.