Dopo il 1999 sono stati evacuati dalle proprie case e trasferiti in campi contaminati dal piombo a nord del fiume Ibar. L’emergenza, che doveva durare poche settimane, è giunta al sesto anno. Una situazione paradigmatica dello stato del Kosovo. Nostra traduzione
Di Martin Fisher, Transitions Online, 15 dicembre 2005 (titolo originale: “Camp Life”)
Traduzione per Osservatorio sui Balcani: Carlo Dall'Asta
Budapest - Dopo i bombardamenti NATO in Serbia del 1999 nella città kosovara di Mitrovica, etnicamente composita, la popolazione albanese aggredì le comunità Rom. L’agenzia dell’ONU per i rifugiati (UNHCR) aiutò allora ad evacuarle a pochi chilometri di distanza, in una regione ora come allora controllata dai Serbi. L’idea era di porle fuori dalla portata degli Albanesi, che vedevano i Rom come alleati dei Serbi; ma i Rom finirono in un’area contaminata, non dall’odio etnico bensì dal piombo.
Non era un segreto che il posto in cui erano andati a vivere fosse contaminato. Un rapporto delle Nazioni Unite del 2000 definisce non sorprendente l’alto livello di contaminazione della regione, dato che i tre campi sono in prossimità di una miniera di piombo responsabile, stando alle parole dei peacekeeper della KFOR, di un “massiccio inquinamento ambientale”.
La giustificazione addotta per porre consapevolmente queste persone, oggetto di una dislocazione interna, in condizioni così pericolose era che esse sarebbero rimaste lì solo per 45 giorni.
Oggi, sei anni dopo, sono ancora lì.
Un problema ignorato
Test condotti nel 2004 rilevarono che la maggioranza della popolazione esposta aveva elevati livelli di piombo nel sangue, una scoperta confermata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Test più recenti condotti dal dr. Klaus-Dietrich Runow sui capelli dei bambini rivelano livelli di avvelenamento da piombo tra i residenti anche più alti di quanto si temesse in precedenza.
Come riferito da Transitions Online il 24 novembre, alcuni poteri in Kosovo stanno prendendo posizione riguardo alla situazione di queste famiglie. Soren Jessen-Petersen, Rappresentante Speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite, ha dichiarato che “le condizioni di vita sostenute dalle famiglie Rom in questi campi sono un affronto per la dignità umana”.
Indubbiamente lo sono, ma lo sono state per sei anni. Allora perché nulla è stato fatto finora nonostante si fosse a conoscenza del rischio? Perché queste povere famiglie non sono state spostate dalla zona contaminata in un posto più sicuro? Sicuramente per l’ONU avere dei bambini che muoiono avvelenati dal piombo, sotto i suoi occhi, non è il tipo di cosa per cui vuole essere ricordata in Kosovo?
Jean-Marie Guéhenno, Sottosegretario delle Nazioni Unite per le operazioni di peacekeeping, riconosce che “è imperativo spostare questa gente dalle terre contaminate”. Ma l’avvertimento che aggiunge rivela la situazione reale delle famiglie Rom: “la ricollocazione avverrà su basi ancora da definire”.
È questo immobilismo che fa infuriare Dianne Post, del Centro Europeo per i Diritti dei Rom (ERRC) di Budapest. Diretta e determinata, essa è impegnata in una campagna per far pressione all’UNMIK facendo petizioni all’ONU, arrivando fino a Kofi Annan, perché sia tolta l’immunità allo staff dell’UNMIK specificamente responsabile della situazione, in modo da poterlo perseguire legalmente.
Tutto ciò che le interessa è “porre fine ai campi” e alle interminabili riunioni e agli scaricabarile. La Post paragona la sua rabbia per questo ad un più noto caso recente di oltraggio dei diritti umani.
“Ieri ho rivisto [il film] Hotel Rwanda”, ha detto, “e sono esasperata dal fatto che ancora una volta i governi e le agenzie internazionali temporeggiano mentre la gente muore. Essere massacrati con un machete è certamente una morte orribile e più rapida che morire di avvelenamento da piombo, ma la vittima è altrettanto morta, in entrambi i casi”, ha detto in riferimento al genocidio in Rwanda.
Ma non è solo l’ONU ad essere coinvolta in questo caso.
Indecisione
Il Comitato Internazionale della Croce Rossa (ICRC) ha programmato che i residenti nei campi ricevano latte per meglio disintossicarsi. Un mese fa, Norwegian Church Aid ha rilevato la gestione dei tre campi dell’UNMIK, con un contratto annuale. La Federazione Internazionale della Croce Rossa/Mezzaluna Rossa e l’OMS prevedono di dispensare un supporto sociopsicologico per le famiglie dei campi. E il governo degli Stati Uniti finanzierà un programma dell’UNICEF per i bambini e le madri, per l’ammontare di 68.000 dollari, perché vengano istruiti sui pericoli legati all’avvelenamento da piombo e sui modi per minimizzare i suoi effetti attraverso una adeguata igiene e nutrizione.
Tutte queste sono valide iniziative, ma non cambiano il fatto che le famiglie vivono su un terreno tossico. Anche se le agenzie internazionali stanno migliorando le disumane condizioni di vita nei campi, fornendo più cibo e più legna per il riscaldamento e provvedendo alla raccolta dei rifiuti, non per questo l’esposizione al piombo si riduce.
L’unica vera soluzione è trasferire gli abitanti fuori da questi campi. Solo l’UNMIK può farlo.
Spesso si dà alle vittime stesse la colpa di non voler lasciare i campi. Le si accusa di non parlare con un’unica voce e di preferire restare nei campi, nella speranza che alla fine siano costruite delle case per loro. In incontri organizzati dall’UNMIK e dal governo locale sono state proposte numerose soluzioni, ma nessun passo è stato fatto per metterle in pratica.
Rinfocolato dalle discussioni sul futuro status del Kosovo, c’è un nuovo ottimismo che il problema sarà finalmente affrontato, e stanno arrivando donazioni dai governi di Germania, Irlanda e Svezia per trasferire i Rom in una ex base francese della KFOR. Certo, questo campo avrebbe acqua calda e sarebbe più pulito, ma è sempre vicino a dove sono ora, cioè a dove sono stati per sei anni, e rimangono dei dubbi sul livello di contaminazione di quel sito.
L’UNMIK insiste che il trasferimento deve avvenire su base volontaria, per evitare lo smembramento delle famiglie. Questa potrebbe essere una considerazione valida in circostanze normali, ma da quanto risulta da tutti i rapporti stilati fino ad ora, non si può permettere che questa gente rimanga esposta a un ulteriore avvelenamento da piombo .
L’obiettivo a lungo termine è il ritorno a sud del fiume Ibar, nel quartiere rom di Mitrovica (o Mahala), da cui proviene la maggior parte dei residenti. Ci sono ovvii problemi al riguardo, non ultimo che lo spostamento, specialmente se in piccoli gruppi, li esporrebbe a violenze da parte della popolazione di etnia albanese. Potrebbero i Rom fidarsi della KFOR, dell’UNMIK, o di una amministrazione kosovara dopo l’esperienza del 1999, quando la NATO non seppe proteggerli?
Ma un secondo problema è che i fondi sono gravemente inadeguati, sia per una soluzione temporanea che per una permanente. Finora è stata raccolta solo la metà dei soldi necessari a ristrutturare adeguatamente il campo francese della KFOR, per non parlare degli 8 milioni di euro che secondo le stime servirebbero per tornare a sud dell’Ibar.
Fu certamente opportuno allontanare i Rom nel 1999 da un immediato pericolo, anche se ciò voleva dire metterli in mezzo a un rischio ambientale per qualche settimana. Ma quelle poche settimane sono diventate ora sei anni. Forse i Rom sono esposti all’avvelenamento da piombo perché l’UNMIK vuole evitare un altro allarme sulla sicurezza proprio ora che i colloqui sullo status stanno progredendo?
È chiaro che i Rom devono essere urgentemente evacuati dai campi. Ma la questione del perché essi siano stati tenuti lì così a lungo resta e dovrà rimanere aperta.