Leader dalle forti ambivalenze, ha avuto il merito di scegliere la nonviolenza in un contesto regionale e internazionale basato sulla forza delle armi, senza però avere la volontà o capacità di opporsi all'evoluzione violenta del conflitto. Il commento di Mauro Cereghini, direttore di Osservatorio sui Balcani
Ibrahim Rugova era l'ultimo leader nei Balcani rimasto al potere senza interruzioni dall'inizio degli anni '90. Ma a differenza dei vari Tudjman, Izetbegovic, Milosevic o Gligorov, presidenti veri oltre che leader dei loro paesi, il suo è stato un potere essenzialmente debole. Prima perché eletto in semi-clandestinità nel 1992 presidente di un'auto-proclamata Repubblica del Kossovo, che non ha mai avuto il pieno riconoscimento internazionale. Poi, dopo i bombardamenti Nato del 1999 e gli accordi di pace di Kumanovo, perché divenuto presidente ufficiale di un'entità che nessuno sa dire cosa sia, e che nei fatti è un protettorato a guida ONU.
Debole, dunque. Ma in questo forse anche la sua forza. La forza di chi è divenuto leader anzitutto per il riconoscimento della sua gente, e per la statura morale riconosciutagli all'estero. Certo, l'immagine di "Gandhi dei Balcani" è impropria ed esagerata. Rugova non è mai stato una figura carismatica, né ha guidato apertamente manifestazioni o lotte popolari. Il suo gesto più estremo, quello che gli è valso poi il riconoscimento popolare, è stato firmare nel 1989 un appello di intellettuali contro l'abolizione dell'autonomia speciale della provincia attuato dal leader serbo Milosevic. Lui, scrittore che proveniva dall'apparato comunista, non ha mai avuto l'appeal di un Adem Demaci, incarcerato per decenni in nome dell'indipendenza albanese. Né la fantasia provocatoria di un Veton Surroi, che insieme ad altri attivisti guidò le proteste di piazza del 1990-91 e ideò il "funerale della violenza" del giugno 1991, quando migliaia di persone per le strade di Pristina seppellirono una bara vuota in nome dell'autonomia da riconquistare senza armi.
Rugova al contrario ha sempre temuto le piazze e le manifestazioni, una debolezza che però è stata anche una sua forza. Solo così infatti ha saputo trattenere, almeno fino al 1998, gli albanesi del Kossovo dall'accendere un nuovo focolaio di violenza nei Balcani. E' stato una voce di pace e un leader riconosciuto. Sicuramente la sua è stata una nonviolenza strumentale e di ripiego, un po' per paura e un po' per mancanza di alternative reali, cioè di armi e appoggi esterni. Questi infatti arrivano solo dal 1996-97, visto che prima le rotte internazionali delle mafie miravano altrove e l'Albania era troppo impegnata dai suoi problemi interni. Però è stata comunque una nonviolenza eccezionale nel contesto balcanico, dominato da nazionalisti intransigenti e signori della guerra. Una nonviolenza che ha impegnato per anni gran parte della popolazione – compresa la diaspora – nella resistenza passiva e nella costruzione di un governo parallelo, così diffuso che il controllo formale serbo sulla provincia era del tutto svuotato di efficacia.
La morte di Rugova sui quotidiani del Kosovo
Ma questa forza debole di Rugova non è stata colta dalla comunità internazionale, che gli ha sempre concesso lodi e complimenti ma senza considerarne seriamente le richieste. Ricordo quel diplomatico che lo paragonò allegramente a Bossi... "Forse aspettano che prendiamo anche noi le armi per ascoltarci", fu la battuta di un suo collaboratore quando incontrai Rugova nel 1996. Ed in effetti è stato, tristemente, così. La strategia della LDK, il partito di raccolta albanese guidato appunto da Rugova, era quella di congelare la situazione interna alla provincia e trovare una soluzione internazionale alla crisi con Belgrado. Addirittura proponeva una formula – indipendenza sotto l'egida dell'ONU, senza esercito e con frontiere aperte verso Serbia e Albania – poco realistica ma molto indicativa di una volontà non estremista. E invece l'internazionalizzazione del conflitto viene rifiutata. Nel 1995 a Dayton, quando si ridefiniscono gli assetti complessivi dell'area dopo gli sconquassi della guerra in Bosnia, il tema Kossovo viene tolto dal tavolo della discussione per assecondare Milosevic. La strategia di Rugova va in frantumi.
Nei mesi seguenti la LDK prova comunque ad aprire trattative dirette con Belgrado, grazie alla mediazione privata della Comunità di Sant'Egidio. Rugova e Milosevic firmano anche un accordo parziale, sul rientro delle scuole parallele albanesi negli edifici pubblici. Ma si tratta di una via troppo ardua e troppo lenta, viste le distanze e le resistenze ormai createsi nelle due comunità. Rugova è debole e non capisce – o non vuole ammettere – lo smottamento della realtà albanese sotto ai suoi piedi. Quando si affacciano le prime operazioni da parte di gruppi armati albanesi, le bolla come provocazioni della polizia segreta di Belgrado e persevera con una politica ormai solo passiva. Rifiuta perfino di convocare nuove elezioni parallele, che pure a rigore di costituzione auto-proclamata dovrebbero tenersi a quattro anni dalle prime.
Forza e debolezza: non è lui a puntare sulla via armata all'indipendenza, ma nemmeno è in grado di opporsi. Di nuovo la comunità internazionale – e in primis gli Stati Uniti, che pure si erano mostrati i più attenti alla vicenda kossovara tanto da aprire un loro ufficio informazioni a Pristina – peggiora le cose. Nel giro di pochi giorni cambia parere sull'UCK, non più "gruppo terrorista" ma "legittima resistenza". E' il giugno 1998, ed è scattato il count down verso l'intervento armato. All'inizio del 1999 ci sono i negoziati-farsa di Rambouillet: Rugova è ancora nominalmente capo-delegazione per gli albanesi, ma deve subire al suo fianco il leader della guerriglia Hasim Thaci. Seduti vicini, ma lontanissimi per personalità e stile.
Il fallimento dei negoziati apre la strada ai bombardamenti Nato. Ne esce un Kossovo indipendente sulla carta, ma stravolto socialmente e occupato militarmente. Rugova nella guerra perde la sua vera mente politica, Fehmi Agani, e subisce l'onta dell'esilio dopo un'apparizione televisiva con Milosevic che ne indebolisce ulteriormente l'immagine. La LDK viene affiancata da altri partiti influenti, e soprattutto entrano in gioco pesanti interessi economico-mafiosi legati alla ricostruzione, agli aiuti e ai traffici neri che lo status incerto della provincia favorisce. Nel 2002 Rugova viene eletto ancora presidente, ma il suo ruolo politico è stretto tra politici ormai autonomi dal suo controllo e funzionari internazionali che governano di fatto la provincia.
Così gli ultimi anni di vita li spende ancora con l'immagine di moderato, ma incapace di compiere alcuna azione significativa nemmeno dal punto di vista simbolico. Di nuovo, sarà semmai l'antico rivale Surroi a colpire per alcune uscite pubbliche contro la degenerazione albanese e le violenze inflitte ai serbi. Rugova è debole, ma forte nel continuare a chiedere una soluzione internazionale alla crisi kossovara. Come dieci anni prima, e ancora inascoltato.
Ricordo nel suo studio la fotografia dell'incontro con Papa Giovanni Paolo II, lui leader di una comunità a maggioranza musulmana. "Sua Santità ha ascoltato molto", ci disse Rugova. Mi chiedo ora se fosse un segno di forza. O di debolezza, perché altri invece non l'avevano fatto…
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