Musulmani, ortodossi o cattolici, gli albanesi sono fieri della loro tradizione secolare ed ecumenica. Fatos Lubonja interroga però il mito nazionale della tolleranza, insieme al noto aforisma secondo cui «la religione degli albanesi è l'albanesità», collocandoli nel nuovo contesto nazionale e internazionale
Di Fatos Lubonja, Korrieri, 14 gennaio 2006; traduzione di Mandi Gueguen, Le Courrier des Balkans, e Carlo Dall'Asta per Osservatorio sui Balcani
Fatos Lubonja
La storia ha spesso mostrato come un mito storiografico possa servire da pretesto per impedire ad una società di vedere la realtà. Ciò può risultare pericoloso soprattutto quando questi miti sono antichi, o quando si trasformano in simboli del potere e poco alla volta si degradano invece di restare una forza ispiratrice, unificatrice, formatrice dell'identità. Essi sono anche pericolosi, nel caso in cui la società non adotti più lo sguardo critico della storia e dei suoi sviluppi. Gli esempi non mancano, nella storia mondiale come in quella del popolo albanese.
Un mito storiografico che non dovrebbe essere avulso dal suo contesto e che deve essere analizzato per essere ben compreso è quello della presunta tolleranza religiosa che prevarrebbe presso gli albanesi. Dopo la caduta del comunismo, questo tema è stato motivo di orgoglio per gli albanesi. Al punto che il Presidente lo ha definito, nel suo ultimo discorso a Oxford, una «caratteristica etnica degli albanesi», «una tradizione che emerge profondamente dal corso dei secoli», che «non si è sviluppata durante l'era moderna», ma che «esisteva già prima dell'occupazione ottomana». Ciò gli basta per presentarla come una caratteristica preziosa, che può facilitare la nostra accettazione nella comunità occidentale. Perché «la tolleranza interreligiosa è una delle qualità che hanno subito attirato l'attenzione di tutti quegli studiosi e quei politici, albanesi o stranieri, che credevano in un'altra immagine del popolo albanese e la cercavano».
Intolleranza e totalitarismo
Queste citazioni mostrano in che modo ci si può nascondere dietro questo mito, come degli struzzi. Alcune questioni bastano a mostrare i limiti del mito. Se per tolleranza si intende l'accettazione dell'altro nella sua diversità, come si può comprendere che gli albanesi siano stati così intolleranti gli uni verso gli altri, al punto da costruire il regime più totalitario in Europa dopo la Seconda guerra mondiale? Come hanno potuto arrivare al punto di chiudere le chiese e le moschee, distinguendosi in questo da tutti gli altri Paesi comunisti dell'Europa dell'Est? E infine, come comprendere la reciproca intolleranza che regna oggi tra le forze politiche?
Questa secolare specificità «etnica» della tolleranza è in realtà paradossale. C'è una spiegazione: quello che viene chiamato «tolleranza religiosa» non è una caratteristica data una volta per tutte, il che sarebbe il caso della tolleranza nel senso più generale, ma dipende da condizioni che si sono venute a determinare storicamente, soprattutto nell'età moderna. Se si cercano le sue radici nella storia albanese, le troveremo soprattutto nella tolleranza verso le diverse religioni che caratterizzava l'Impero ottomano, da cui gli albanesi, musulmani, cattolici o ortodossi, hanno dipeso per 500 anni.
La costruzione dello Stato-nazione
Si nota soprattutto che questa «tolleranza» è apparsa durante il periodo che ha fatto nascere il bisogno di costruire lo Stato-nazione albanese, ossia agli albori del XX secolo. La religione laica della nazione dominava all'epoca le religioni tradizionali, per evitare che esse rallentassero il processo di formazione dello Stato-nazione. È in questa stessa epoca che Pashko Vasa, cristiano e pascià ottomano al tempo stesso, lanciò il suo slogan «non state a guardare le chiese o le moschee, la religione degli albanesi è l'albanesità», il che era già, in sé, intollerante. Ciò non è successo presso i nostri vicini, dove la religione dominante è divenuta un fattore dell'identità nazionale.
Storicamente, la nozione di tolleranza ha un'origine religiosa che sottintende una comunità religiosa, superiore per numero di credenti e soprattutto dal punto di vista del potere, che tollera un'altra comunità, che diventa quindi inferiore. In Francia per esempio Enrico IV tollerava i protestanti (Editto di Nantes, 1598), pur proclamando al tempo stesso il cattolicesimo come religione nazionale. Jacques Derrida spiega anche la derivazione del termine «tolleranza» dal vocabolario della biologia, nel senso che essa sottintende anche l'assimilazione dell'elemento inferiore da parte di quello superiore. In Albania, il potere ottomano e la religione musulmana tolleravano i cristiani (anche se d'altra parte non sempre andò così).
Nel momento della formazione dello Stato albanese, più che di tolleranza si può parlare di coabitazione relativamente pacifica di comunità di diverse religioni. Ciò fu possibile grazie al dominio della «religione» della costruzione dello Stato-nazione, «l'albanesità», e in seguito dell'ideologia comunista, sulle religioni tradizionali. Ora, l'ideologia dell'albanesità e, più di ogni altra, quella di Enver Hoxha, non sono riuscite a coesistere in armonia con tutte le religioni tradizionali, e questo è tutt'altro che un segno di tolleranza. Al contrario. Il comunismo albanese ha estromesso ogni altra religione o convinzione che fosse diversa da sé. Dunque, far credere agli europei che la tolleranza sia esistita presso gli albanesi ancora prima dell'Editto di Nantes è ridicolo.
Bisogna comprendere che se le distinzioni religiose in Albania non sono state un motivo di conflitto e di intolleranza, non è stato grazie a una qualche tradizione «secolare» degli albanesi, ma perché la religione in Albania non ha mai costituito uno strumento politico di potere, dato che lo strumento ideologico del potere era incarnato da un'altra religione o ideologia. Allora, se si fossero venute a creare le condizioni socio-politiche perché l'appartenenza religiosa potesse influenzare il potere politico - come è successo in particolare nel mondo arabo o nella politica americana degli ultimi 20 anni - restando chiusi in questo mito della tolleranza religiosa ci troveremmo a dover fronteggiare delle situazioni impreviste.
Un contesto nazionale ed internazionale teso
L'Albania d'oggi ha già conosciuto qualche incidente interreligioso. L'ultimo caso in ordine di data riguardava una grande croce di legno, piantata sulle colline di un villaggio, che è stata segata nottetempo. Si è cercato di chiudere l'incidente facendo appello alla tradizione della tolleranza religiosa e addossandone la responsabilità, come ricordava un giornale, ai serbi anziché ai musulmani albanesi. Ancora una volta ci si rifiuta di tenere conto della realtà del Paese, piuttosto che affrontare i nuovi contesti religiosi ed interreligiosi che vi emergono.
Senza voler negare il valore di questa tradizione bisogna comprenderla, mantenendo uno spirito critico, nella sua storia, al fine di comprendere bene il presente e per proiettarci verso il futuro, perché il mito della tolleranza non basta a rispondere alla realtà contemporanea. Oggi non basta più ricordare agli albanesi che «la religione degli albanesi è l'albanesità». Esattamente come ieri la propaganda del regime comunista, con la sua volontà di inculcare per 50 anni di seguito agli albanesi l'amore e il sacrificio per la patria, si rivelò insufficiente a trattenerli nel momento in cui le frontiere si aprirono.
Io penso dunque che per poter fronteggiare i fenomeni che oggi ci si presentano, come la costruzione di moschee o di croci in posti offensivi per altri credenti, si devono tenere in conto alcuni altri fattori importanti del periodo post-comunista, nazionale e internazionale.
A livello nazionale, noi abbiamo vissuto e viviamo tuttora una crisi morale e identitaria, generata dalla caduta del comunismo, il che ha orientato alcune persone verso la religione, un modo di cercare speranza e identità. D'altronde la rinascita delle comunità religiose non può essere marginalizzata o ignorata, perché il loro ruolo nella ricostruzione morale e spirituale del Paese deve divenire parte integrante della costruzione di tutta la società. Senza dimenticare d'altra parte che questo è un terreno molto favorevole alla strumentalizzazione della religione, che si manifesta talvolta nella demonizzazione di una comunità o nella volontà di definire una religione in quanto religione «originaria» degli albanesi. Senza dimenticare che noi stiamo vivendo un terribile imbarbarimento e criminalizzazione della società, governata da una classe politica profondamente immorale e corrotta.
Lasciare la gente in preda all'ignoranza, al crimine, alla povertà, all'immoralità e sperare poi che essi non diventino dei lupi l'uno per l'altro, accontentandosi di ricordargli giorno e notte la loro saggezza e obbedienza «innate», è un'illusione dalle pericolose conseguenze. Bisogna aggiungere a livello internazionale che noi assistiamo nel mondo a una rinascita delle religioni in questo periodo seguito all'11 settembre 2001, che ha sensibilmente accresciuto il fenomeno della strumentalizzazione della religione per degli obiettivi politici. Ciò ha messo in evidenza l'inquietante pericolo di contrapporre il mondo cristiano a quello musulmano.
Io insisto anche sull'idea che l'attitudine secolare ed ecumenica dell'Albania dev'essere considerata come una sfida permanente, che deve rispondere ai nuovi contesti emergenti tanto a livello nazionale che internazionale, e non un pretesto per mettersi al riparo dietro la tradizione nazionalista di un secolo fa o, peggio ancora, dietro quella totalitaria del comunismo.