Fornivano pachetti "all inclusive" per i migranti provenienti da Kosovo e Albania. Ed erano coinvolti anche nelle violenze del marzo 2004. L'inquietante scoperta degli inquirenti italiani. Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Di Antonio Castaldo
Il sospetto c’era. Ma fino ad oggi non era mai emersa alcuna prova della possibile saldatura esistente tra criminalità organizzata e nazionalismo kosovaro. La risposta a questi sospetti viene da un’inchiesta della Procura di Bari. Al termine di lunghe indagini condotte nell’arco di tre anni, gli investigatori della squadra mobile barese hanno scoperto un’associazione a delinquere che grazie a teste di ponte italiane dislocate alle dogane e presso questure e uffici pubblici, erano in grado di offrire al migrante, albanese o kosovaro, pacchetti
all inclusive, comprendenti spostamenti in autobus, traversate su traghetti, documenti e visti fasulli, al costo di due massimo tremila euro. In questo modo diverse centinaia di kosovari e anche numerosi albanesi sono riusciti a superare i controlli della frontiera, e rifarsi una vita con i documenti falsi forniti dall’organizzazione. Gli arresti già effettuati sono 13, altrettanti gli indagati.
Nel corso delle indagini, però, non sono mancate delle clamorose sorprese dovute appunto al coinvolgimento di alcuni dei personaggi di maggior rilievo dell’organizzazione criminale in alcuni tra i più cruenti scontri etnici degli ultimi anni in Kosovo. Nel marzo del 2004 gli inquirenti italiani erano a Pristina, per intercettare le conversazioni di alcuni indagati kosovari.
Il 16 marzo, tre bambini albanesi annegano nel fiume Ibar. Si diffonde la notizia che sarebbe stata colpa di coetanei serbi e le manifestazioni della comunità albanese si trasformano presto in violenza. A sobillare la rivolta sembra ora vi fossero anche personaggi della malavita organizzata, intercettati dai potenti scanner utilizzati dagli investigatori italiani mentre si scambiano suggerimenti su come e dove intervenire, vantandosi delle devastazioni e degli incendi messi a segno nei luoghi dove maggiore è la presenza serba. In pochi giorni muoiono 19 persone, sia serbi che albanesi, oltre mille i feriti, e centinaia tra abitazioni serbe e chiese ortodosse vengono date alle fiamme.
A distanza di due giorni, mentre gli episodi di intolleranza si ripetono in rapida successione in diverse aree della piccola provincia autonoma, gli investigatori baresi intercettano una conversazione a suo modo sorprendente. Sono le 17 del 17 marzo 2004, Murrem, uno degli indagati nell’inchiesta della Procura di Bari è al telefono con suo fratello Hazen, a sua volta indagato, al quale chiede: “A Mitrovica sei andato?”. Ovvero città dalla quale sono partite le violenze antiserbe. “No – risponde Murrem – ma in compenso abbiamo bruciato tutte le chiese di Prizren”, città del Kosovo meridionale fortemente colpita dagli scontri di marzo. “Accendete e sentite la televisione come sono bruciate. Tutte le chiese sono state bruciate, nessuna è rimasta, la Jugoslavia e tutto un fuoco, anche quelle altre due, in centro tutta in fiamme sta Prizren”.
Poco più tardi, al telefono con un’amica di nome Hamida, Hazen racconta qualche dettaglio in più degli scontri con gli uomini dell'Unmik, amministrazione internazionale del Kosovo, che inutilmente hanno tentato di riportare la calma: “Ci sono i feriti al centro, molti. Adesso con il gas lacrimogeno. Io non potevo più stare, perché non riuscivo a respirare dal gas lacrimogeno”. Più tardi ancora, in serata, gli agenti italiani intercettano la conversazione intercorsa tra un altro indagato nell’inchiesta della Procura barese, Jeta, e tale Jahir, il quale chiede: “Quante persone sono ferite?”. Dall’altra parte, Jeta risponde: “Ma sai, settecento, ottocento sono gli albanesi feriti e circa quindici sono i morti serbi”. Neppure i mezzi dell’autorità internazionale la scampano “Bruciavano tutte le macchine dell’Unmik, a Pristina”.
In un’altra conversazione, addirittura si tirano in ballo i militari della forza multinazionale Kfor: “Ah, li abbiamo bruciato... cazzo! Tutta la Jugoslavia in fiamme”. E poco dopo: “Ah, anche la chiesa è stata bruciata? La chiesa di qua, io dicevo di fare un accordo con loro... sai? Entrare, poi la Kfor si è allontanata”.
Più oltre Tale Bashskim racconta come si siano accaniti contro i Drama, i posti di sorveglianza della Kfor, ad un amico di nome Driton: “Avete liberato la strada?”, chiede quest’ultimo. “La stiamo quasi liberando. Stiamo bruciano le Drama della Kfor”. Più tardi, prima di mezzanotte, ancora Jeta chiede ad un amico: “Perché non state uscendo pure voi a protestare ?” E l’altro risponde: “Ma che uscire, tu non sai cosa sta succedendo”.
Tutte le intercettazioni che non riguardano direttamente l’indagine sul traffico e lo sfruttamento di immigrati clandestini sono state inviate alla procura internazionale di Pristina, che lavora per conto dell'Unmik. Sulla base di questi atti di indagine sono ora in corso ulteriori accertamenti per scoprire i legami esistenti tra le frange della criminalità organizzata e le forze nazionalistiche kosovare. Sempre che non si tratti della stessa cosa.