Forum cooperazione: don Lush Gjergji sulla ricostruzione in Kossovo
18.03.2002
Intervista a don Lush Gjergji, parroco cattolico ed intellettuale molto apprezzato in Kosovo. In questi due anni si sono perse troppe occasioni.
L’intervista è stata tratta dal libro “Ricostruire il domani. La Caritas italiana e le Caritas diocesane per una nuova convivenza in Kosovo” edito recentemente dalla Caritas italiana. Un ulteriore contributo al “Forum cooperazione”.
Don Lush Gjergji, parroco di Bince, è intellettuale molto apprezzato in Kosovo. Teorico e animatore del processo di nonviolenza e riconciliazione che ha caratterizzato il Kosovo nella prima metà degli anni Novanta, è biografo di madre Teresa di Calcutta. Responsabile dell’associazione Madre Teresa (la società di mutuo soccorso degli albanesi kosovari, in patria e all’estero), è persona stimata e ascoltata anche dai leader politici della provincia.
Don Lush, in Kosovo la crisi del ‘99 è stata seguita in tempi rapidi da un imponente sforzo di ricostruzione da parte di organismi umanitari, governativi e non. Che giudizio dà dell’impegno della comunità internazionale per la ricostruzione? A livello di ricostruzione materiale – case, scuole, strade, acquedotti, uffici pubblici - è stato fatto molto, più di quanto speravo si facesse in due anni. In molte aree del Kosovo non c’è quasi più traccia delle distruzioni prodotte dalla guerra. Le persone sono tornate, la vita è ripresa con regolarità e continuità. Certamente, però, il processo di ricostruzione poteva essere meglio coordinato e articolato. In alcune zone gli interventi sono stati massicci, altre sono state relativamente abbandonate. Si tratta di aree che la guerra non ha colpito catastroficamente, ma che erano assai povere e arretrate, e oggi permangono in situazione di passività e marginalità. L’insieme degli aiuti internazionali poteva essere organizzato secondo priorità e gradualità meglio definite, in base a una più attenta analisi del territorio e dei bisogni. Non è raro scoprire che le persone e le famiglie più povere sono anche le più trascurate.
Quali sono le emergenze ancora presenti in Kosovo? Ripeto, molto è stato fatto. Ma occorre assicurare a tutti il tetto. L’emergenza non potrà dirsi superata finché ci saranno decine di migliaia di persone e famiglie impossibilitate a recuperare, con la propria casa, condizioni normali di vita. Secondo l’associazione Madre Teresa, bisognerebbe costruire e riabilitare ancora tra le 20 e le 25 mila abitazioni. Eppure, i budget degli organismi internazionali destinati a questo impegno si stanno estinguendo.
Guardando al futuro, di cosa ha maggiormente bisogno il Kosovo per entrare in una stagione di reale sviluppo? La regione è a pezzi dal punto di vista delle grandi infrastrutture. La ripresa e lo sviluppo non rispondono, per ora, a efficaci criteri di pianificazione. Pristina, il capoluogo, cresce senza un dettagliato progetto urbanistico, ammassando costruzioni abusive e selvagge. Ma dovendo indicare alcune priorità, dico che vi è immediata necessità di una seria politica fiscale e industriale. Nel primo caso, bisognerebbe partire da un censimento delle imprese attive, per impostare un’azione di prelievo equilibrata, non improvvisata. Oggi non esiste ancora un sistema fiscale credibile, che consenta di dividere equamente la ricchezza prodotta nella provincia. Eppure si dice che scuola e sanità siano già coperte al 60% dal gettito attuale: con una migliore organizzazione si potrebbero raggiungere risultati positivi, perché buona parte di coloro che hanno un’attività produttiva o commerciale sono disposti a pagare, ma oggi non sono messi in condizioni di farlo. In campo industriale, bisogna riattivare e riorganizzare, in parte privatizzandole, le grandi industrie un tempo statali. La politica industriale in Kosovo è tutta da inventare: esistono potenzialità, esistono interessi internazionali, ma nessuno sarà disposto a investire sino a quando in quest’area non esisteranno condizioni di pace e tranquillità. Il problema, in realtà, è comune all’intera area balcanica. Stabilizzarla significa anche creare, al suo interno, legami di sviluppo. Oggi, dopo un decennio di disgregazione e conflitti, il dialogo è difficile. Ma gli interessi economici possono anticipare e accelerare questo processo, nella consapevolezza che i paesi balcanici potranno entrare nell’Unione europea solo nella misura in cui sapranno ricostruire un clima di armonia e nuove forme di collaborazione.
L’azione umanitaria e l’opera di ricostruzione rispondono in maniera equilibrata alle esigenze di tutte le comunità presenti in Kosovo? No, bisogna ammettere che la comunità serba è stata molto trascurata. Era comprensibile che la comunità internazionale assumesse un atteggiamento per certi aspetti filo-albanese, dopo ciò che noi avevamo realmente subito. Ma è stato un errore mettersi dalla nostra parte emotivamente. La comunità serba ne è stata doppiamente svantaggiata: oltre a sentirsi insicura, si è considerata trascurata nell’erogazione degli aiuti. Inoltre, almeno fino alle elezioni dell’ottobre 2000, si è compiuto l’errore di tollerare che gli ex combattenti Uck occupassero i posti chiave nelle strutture amministrative, politiche ed economiche del paese: il loro atteggiamento e i loro eccessi hanno danneggiato l’immagine degli albanesi. Non abbiamo tratto alcun vantaggio dall’uccisione o dall’allontanamento dei serbi, e abbiamo nel contempo creato seri problemi a loro e alla comunità internazionale. In questo senso, i due anni trascorsi dalla fine della guerra sono stati anni un po’ sprecati: ha prevalso, entro certi limiti, lo spirito di reazione e di vendetta, il quale non fa che alimentare gli estremismi.
È realistico pensare a un ritorno dei serbi che hanno abbandonato il Kosovo? Prima o poi dovrà avvenire. Ma non lo si può solo auspicare, si deve anche operare perché avvenga. Bisogna agire ancora più in profondità, nel popolo albanese, per far capire che la dittatura di Milosevic ha arricchito e beneficiato se stessa, non tutti i serbi. Finché il popolo albanese non capirà che odiando distrugge e penalizza se stesso, non solo non sarà in grado di vivere con gli altri, ma non sarà nemmeno libero.
Quali sono i principali effetti culturali e di costume che la presenza internazionale esercita su una società molto legata alle proprie tradizioni, come quella kosovaro-albanese? L’effetto positivo, per gli albanesi, è rappresentato dalla garanzia della protezione e della salvezza. Ma la convivenza è certamente foriera anche di problemi. Le persone più mature e anziane faticano un po’ a capire chi non vive da albanese, talora percepiscono questa massiccia presenza come un’intrusione. La gioventù, d’altro canto, è vissuta per circa vent’anni nella paura e nell’oppressione, che hanno reso difficoltosa la trasmissione della tradizione. I giovani non avvertono forte l’impronta dell’albanesità e sono più facilmente preda degli effetti negativi della presenza internazionale, come la diffusione di alcolismo, tossicodipendenza e prostituzione. La nostra gioventù, che negli ultimi decenni non ha potuto fruire di adeguate opportunità nel campo dell’istruzione e della formazione, appare sovente disorientata, benché sinceramente alla ricerca di se stessa. I giovani non vanno lasciati soli, esposti alle lusinghe di ciò che è più comodo e facile. Dopo l’uscita dalla stagione dell’oppressione, il popolo albanese si trova di fronte la sfida cruciale dell’educazione.
Qual è il contributo specifico che le chiese e le comunità religiose presenti in Kosovo possono dare al processo di ricostruzione, e poi a quello di convivenza e riconciliazione? La religiosità, nei paesi social-comunisti, è stata per decenni una dimensione dell’esistenza marginalizzata, privatizzata, senza diritto di cittadinanza: ufficialmente si poteva essere solo atei. È evidente che ora ci troviamo di fronte a una stagione di grandi opportunità e grandi responsabilità. La nostra religiosità è rimasta ancorata a forme tradizionali: dobbiamo anzitutto preoccuparci di farla evolvere verso una dimensione di maggior consapevolezza personale, e quindi verso una più matura partecipazione comunitaria. Nella società albanese, il cristianesimo ha una tradizione antichissima, gloriosa e martire, ma è da secoli minoritario. Ne è derivata una sorta di complesso di inferiorità, che si traduce in una mancanza di creatività e di iniziative. L’islamismo, invece, è superficiale e formale: vive di una pratica e di ragionamenti che non conducono a verificare la fede. Questo è il punto di partenza da cui muovono le nostre comunità religiose. Ora però la storia ci spalanca grandi opportunità. All’interno del popolo albanese si può sviluppare un dialogo interreligioso capace di certificare che la tolleranza non è un’utopia: in Kosovo il cristianesimo e l’Islam hanno un’occasione provvidenziale per dimostrare che possono coesistere e collaborare. La nostra fraternità, basata sull’albanesità, può diventare una vicenda di tolleranza attiva e collaborativa.Meno facile appare il rapporto con gli ortodossi serbi… La chiesa cattolica, in Kosovo, può avere un ruolo-ponte: il dialogo ecumenico con gli ortodossi non è appoggio al serbismo, ma al cristianesimo dei serbi. Mentre avvicina a questi ultimi, mostra agli albanesi islamici che la fratellanza della fede consente di superare i vincoli etnici. Gli uomini di chiesa e gli uomini di fede devono interpretare questo ruolo anticipatorio: se restiamo fermi alla constatazione dei fatti, alla registrazione dei conflitti, che cristiani siamo? Gli uomini di fede sanno di non poter cambiare la storia, ma di poter cambiare se stessi. Non è poco, per costruire un futuro migliore. Purtroppo, i vertici kosovari delle tre confessioni non hanno ancora trovato la forza di incontrarsi qui, in mezzo alla loro gente, per dare visibilità al dialogo e sottoscrivere una dichiarazione comune. Speriamo che i tempi maturino, anche su questo fronte.
Nel 2000 il piccolo Kosovo ha ricevuto aiuti, dalla comunità internazionale, quanto l’intera Africa. Come interpreta questo paradosso dell’umanitario? Si tratta di una sproporzione enorme. Che rende evidente come l’opinione pubblica, gli organismi, i governi e i poteri economici internazionali siano sensibili solo alle catastrofi. Questa sensibilità denota, nei fatti, un grave problema etico: ci si ricorda e ci si preoccupa della comune umanità solo quando accade qualcosa di drammatico. Ma la solidarietà è l’unica possibilità di sopravvivenza, anche per il mondo ricco. Finché non matureremo un profondo senso di comune appartenenza all’umanità, vi sarà chi è condannato a soffrire. La sproporzione sopra denunciata non deve poi nascondere il fatto che in Kosovo, in alcuni casi, la comunità internazionale si è preoccupata più dello spettacolo dell’aiuto, che della sua reale efficacia. Il mondo ricco ama talvolta dare dimostrazione della sua forza, della sua organizzazione, della sua sensibilità. Ma la fraternità si vive, ripeto, nella perseveranza della quotidianità, non solo nell’eccezionalità. Sono certamente grato per gli aiuto ottenuti dal mio popolo, ma non posso che rimpiangere la scarsa attenzione attribuita ai problemi dell’Africa e del mondo povero. I dieci giorni che trascorsi nell’81 a Calcutta, in compagnia di madre Teresa, rimarranno tra i ricordi indelebili della mia vita. Un’esperienza traumatica, che mi ha insegnato cosa significa vivere da privilegiati, mentre una moltitudine di fratelli è costretta alla miseria dall’insensibilità del resto dell’umanità.