Un approccio regionale, con forte ancoraggio alle istituzioni europee, come proposta per uscire dal rebus kosovaro. Un commento del direttore del Ceis che riprende il dibattito avviato su queste pagine da Michele Nardelli. Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Di Christophe Solioz*, Ginevra, 22 agosto 2006
Traduzione per Osservatorio sui Balcani: Carlo Dall’Asta (Titolo originale: “Kosovo: pour qui sonne le glas?”)
Christophe Solioz
Il primo settembre 2006 il diplomatico tedesco Joachim Rücker diventerà il settimo inviato speciale del Segretario generale dell’ONU in Kosovo e capo della missione di amministrazione ad interim delle Nazioni Unite (Unmik). È il secondo tedesco a ricoprire questo incarico, dopo Michael Steiner. Ora che le discussioni sullo status del Kosovo entrano in una fase cruciale – una decisione in merito dovrebbe essere presa quest’inverno – il diplomatico tedesco avrà il gravoso compito di preparare la conclusione della missione ONU e di predisporre una futura presenza internazionale, che sarà molto probabilmente posta sotto la responsabilità dell’Unione europea. In questo contesto, si impone una breve analisi retrospettiva.
Dopo lo scacco dei colloqui di Rambouillet, ed un ultimo tentativo di negoziazione tra l’inviato americano Richard Holbrooke e Slobodan Milosevic, il 24 marzo 1999 incominciavano i bombardamenti aerei della NATO, che sarebbero terminati il 10 giugno dello stesso anno. Non avendo la Nato ricevuto carta bianca dall’ONU, le basi giuridiche di questo intervento sono ancora oggi l’oggetto di aspre controversie. Una guerra neanche troppo latente, la catastrofe umanitaria e la minaccia di un imminente genocidio della popolazione albanese del Kosovo necessitavano però di un’intervento della comunità internazionale – se non legale, legittimo – al fine di far intendere la ragione a Slobodan Milosevic, allora presidente della Repubblica federale di Jugoslavia.
La dimostrazione di forza e la potenza di fuoco della NATO – il cui obiettivo non era la sovranità del Kosovo – porta finalmente i militari serbi a firmare l’accordo di Kumanovo il 9 giugno 1999 e a procedere al ritiro dal Kosovo di tutte le loro forze militari, paramilitari e di polizia. Il 10 giugno 1999 il Consiglio di sicurezza dell’ONU dà all’Unmik il mandato di stabilire ed «assicurare una amministrazione ad interim nel cui quadro la popolazione del Kosovo potrà godere di una sostanziale autonomia, nel seno della Repubblica federale di Jugoslavia» (risoluzione 1244). Il testo precisa anche che «la presenza internazionale civile e la presenza internazionale di sicurezza sono stabilite per un periodo iniziale di 12 mesi, e in seguito continueranno fino a che il Consiglio non avrà deciso altrimenti».
Dopo sette anni, ed altrettanti inviati speciali del Segretario generale dell’ONU, l'Unmik opera ancora, certo per lo sviluppo de «la democrazia, la prosperità economica, la stabilità e la cooperazione regionale», ma con quali risultati? Una missione tanto più ardua, in quanto è sua responsabilità anche «a uno stadio finale, supervisionare il trasferimento dei poteri dalle istituzioni provvisorie del Kosovo alle istituzioni che saranno definite nel quadro di una regolamentazione politica». La formula è tanto più vaga in quanto la risoluzione da un lato afferma l’integrità territoriale della Repubblica federale di Jugoslavia, ma reintroduce anche, facendo riferimento agli Accordi di Rambouillet, una possibile indipendenza del Kosovo.
Scegliendo, non senza ragione, di far fronte alle esigenze più pressanti, la comunità internazionale ha privilegiato la creazione delle istituzioni democratiche ed un approccio qualitativo – prefigurando il principio degli «standard prima dello status» formulato dall’inviato speciale Michael Steiner nell’aprile 2002. L’apertura dei negoziati sulla questione dello status veniva così rinviata a più tardi, e condizionata all’applicazione di standard riguardanti otto campi d’azione prioritari. Ossia, rispettivamente: il funzionamento delle istituzioni democratiche, lo stato di diritto, la libertà di movimento, i ritornanti ed i diritti delle comunità, l’economia, i diritti di proprietà, il dialogo diretto con Belgrado ed il corpo di protezione del Kosovo, incaricato della sicurezza civile (KPC).
In mancanza di risultati probanti nell’applicazione degli standard, è stato necessario optare per una posizione più realista: «gli standard e lo status»; sperando così di regolare al tempo stesso la questione dell’applicazione degli standard e quella dello status. Purtroppo, i rapporti dell’inviato speciale dell’ONU per il Kosovo, il diplomatico norvegese Kai Eide, non danno speranze. Il rapporto pubblicato il 14 febbraio 2005 sottolinea che «nessuna delle otto norme è stata interamente applicata». Quello del 7 ottobre 2005 non si esime dall’ammettere l’esistenza di una mafia potente e di una corruzione generalizzata, appoggiata alle reti dei clan; precisa inoltre che a questo stadio sarebbe prematuro prospettare il trasferimento delle competenze dell’Unmik alle autorità locali. Malgrado uno stato delle cose nel complesso negativo, il rapporto si pronuncia a favore dell’apertura dei negoziati sullo status finale della provincia. Vengono citate le parole di Kofi Annan: «anche se l’applicazione delle norme per il Kosovo è stata diseguale, è tempo di passare alla prossima fase del processo politico». I negoziati vengono dunque decisi, tra vari temporeggiamenti, dato che «non ci sarà mai un momento privilegiato per affrontare la questione del futuro status del Kosovo» (Kai Eide).
Il Segretario generale dell’ONU, sostenuto dal Gruppo di Contatto (USA, Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia e Russia), affida così, alla fine del 2005, il mandato di affrontare finalmente la questione al finlandese Martti Ahtisaari. Sotto la sua autorità, delegazioni albanesi e serbe s’incontrano regolarmente a Vienna a partire dal 20 e 21 febbraio 2006, senza però pervenire ad un accordo. Le posizioni sembrano in effetti irrimediabilmente inconciliabili: gli albanesi del Kosovo vogliono l’indipendenza e nient’altro; i serbi sono disposti ad accettare quasi tutto, ma in nessun caso l’indipendenza. Dunque lo si sapeva già prima : i negoziati diretti, apertisi il 24 luglio a Vienna in presenza dei più alti responsabili serbi ed albanesi, non hanno raggiunto il loro obiettivo. Ormai non resta più che qualche mese a Martti Ahtisaari per uscire dall’impasse, prima che il Consiglio di sicurezza deliberi, alla fine del 2006, una soluzione. Secondo diverse fonti governative, sembra che la questione non sia più quella dell’indipendenza del Kosovo, ma della sua modalità: si parla così di «sovranità progressiva» e di «indipendenza condizionale».
Si può tuttavia dubitare che gli albanesi del Kosovo siano disposti ad accontentarsi di una indipendenza limitata. Poco interessati ad una concezione postmoderna della sovranità, essi vogliono – dopo sette anni di protettorato ONU – uno Stato tutto per loro: ovvero una bandiera, un inno, un seggio alle Nazioni Unite, ecc. Poco gli importa che il diritto all’autodeterminazione non implichi per nulla il diritto alla secessione, e che un genocidio non sia un motivo sufficiente per lasciare definitivamente una Federazione jugoslava che al giorno d’oggi non esiste più. Quanto ai serbi, si può sospettare che essi abbiano seriamente intenzione di reintegrare la provincia del Kosovo, con uno status di autonomia sostanziale. In effetti, come immaginare dei ministri albanesi che siedano a Belgrado? Come potrebbe la Serbia, essa stessa in preda ad enormi difficoltà finanziarie, assumersi l’onere colossale della ricostruzione e della democratizzazione del Kosovo, spese oggi sostenute dalla comunità internazionale?
Più che in passato, sembra oggi difficile tagliare il nodo gordiano del Kosovo. Il Consiglio di sicurezza potrebbe essere tentato dalla «soluzione di Alessandro», ed imporre una sovranità controllata e, in un primo tempo, limitata. Spetterebbe all’Unione Europea alleggerire le condizioni poste all’integrazione europea della Serbia, al fine di mitigare i malumori di Belgrado. Questo scenario presuppone ugualmente la presenza di una autorità internazionale che controlli l’applicazione delle misure decise, come anche la continuazione della presenza civile e militare in Kosovo. Questo in un momento in cui le cancellerie occidentali desidererebbero sia richiamare in patria i propri diplomatici, esperti e militari, sia dar loro nuovi incarichi in altre zone di crisi – a cominciare dal Libano. Questa opzione creerebbe inoltre un increscioso precedente per altri territori con ambizioni di sovranità e che beneficiano dell’appoggio di Mosca (l’Abkhazia, l’Ossezia del Sud, la Transnistria ed il Nagorno-Karabakh).
Se lo status quo è impensabile, e l’indipendenza una scommessa azzardata, è allora giunto il momento di cercare una soluzione originale ed innovativa. Converrebbe per esempio studiare la possibilità di decretare che il Kosovo come regione benefici di uno status di partner del Consiglio d’Europa e dell’Unione Europea. L’UE già prevede, nel quadro della sua politica europea di vicinato (ENP), uno status diverso da quello di membro a pieno titolo per i Paesi dell’Europa dell’Est. Inoltre, queste due istituzioni hanno ciascuna una camera regionale: rispettivamente il Congresso dei poteri locali e regionali (CPLRE), ed il Comitato delle regioni. Nel momento in cui le regioni crescono di potenza nel seno stesso dell’UE, questa soluzione avrebbe il merito di essere coerente e di iscriversi sulla linea del summit di Salonicco (giugno 2003) – in occasione del quale l’UE prometteva un avvenire europeo ai Balcani.
Un albanese del Kosovo confidava l’anno scorso a Kai Eide che la comunità internazionale aveva «portato al Kosovo la pace, ma non un avvenire». L’approccio regionale potrebbe costituire una soluzione per l’avvenire.
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Direttore esecutivo del «Centro per le strategie d’integrazione europea» (Ginevra – Vienna – Sarajevo)
V. anche Kosovo: prima regione europea