Fin dal 1999 il Kosovo sperimenta un ''intervallo temporale determinato da cose che non sono più e cose che non sono ancora''. L'intervento di Christophe Solioz presso la conferenza “Kosovo, regione d’Europa'', organizzata a Roma il 15 dicembre 2006 da Osservatorio sui Balcani
Di Christophe Solioz*, Ginevra, 30 novembre 2006 (titolo originale: “Kosovo: No longer and not yet”)
Traduzione per Osservatorio sui Balcani: Carlo Dall'Asta
L’attuale situazione del Kosovo dimostra l’osservazione di Hannah Arendt secondo cui “pensiero e realtà si sono divisi, e la realtà è diventata opaca alla luce del pensiero”. Fin dal 1999, il Kosovo sperimenta “un intervallo temporale determinato da cose che non sono più e da cose che ancora non sono. Nella storia, questi intervalli hanno mostrato più di una volta di poter contenere il momento della verità”
(1). La questione è come affrontare questo momento decisivo, ed è strettamente legata agli standard e allo status.
Lo Stato delle cose
La presenza internazionale in Kosovo di personale civile e di forze di sicurezza fu stabilita dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU nella risoluzione 1244 del giugno 1999 “per un periodo iniziale di 12 mesi, da prorogare successivamente salvo che il Consiglio di Sicurezza decida altrimenti”. La missione fu anche incaricata, nella fase finale, di “supervisionare il trasferimento dell’autorità, dalle istituzioni provvisorie del Kosovo ad istituzioni stabilite in seguito ad un accordo politico”
(2). Sette anni dopo la risoluzione 1244, appare molto dubbio che questo esperimento di democrazia controllata abbia avuto successo, e che una soluzione politica per lo status finale della provincia possa essere raggiunta in tempi brevi.
In recenti esaustivi rapporti, il Segretario generale delle Nazioni unite dipinge un quadro deprimente. Nel febbraio 2005 egli affermò che – nonostante le pressioni internazionali – nessuno degli otto standard stabiliti in precedenza era stato pienamente implementato
(3). Da allora, il focalizzarsi sulla questione dello status ha portato alla rapida implementazione di alcuni standard, ma ha anche ritardato le riforme, e soprattutto ha ostacolato l’effettiva implementazione e l’entrata in vigore di leggi già approvate. Infatti, il 25 gennaio 2006, il Segretario generale notò che il progresso nell’implementazione degli standard era più lento che in ogni altro periodo monitorato, e afflitto da numerosi ritardi e battute d’arresto
(4). A metà agosto 2006, solo 5 implementazioni prioritarie su 13 erano considerate completate
(5).
Analogamente, anche se il governo del Kosovo ha istituito una Agenzia per l’integrazione europea e ha adottato un piano d’azione per affrontare le priorità in vista del partenariato europeo, queste priorità, sul breve termine, sono state soddisfatte solo parzialmente
(6). Nonostante questo impegno recentemente aumentato per l’implementazione degli standard – uno sforzo per migliorare la credibilità di Pristina ai negoziati di Vienna sullo status – complessivamente la situazione politica ed economica rimane cupa
(7). I serbi del Kosovo continuano a rifiutarsi di participare alle istituzioni provvisorie. Nell’estate del 2006, le municipalità di Leposavić, Zveçan e Zubin Potok hanno tagliato tutti i legami con le istituzioni provvisorie del Kosovo, pur mantenendo la cooperazione con l’Unmik. Il posto chiave di ministro dell’Agricoltura, delle Foreste e dello Sviluppo rurale, all’interno del gabinetto di governo, riservato ad un serbo kosovaro, è rimasto vacante. Ciò ha portato ad una pressoché completa assenza dei serbi del Kosovo dalla scena politica ed amministrativa.D’altra parte, i serbi del Kosovo settentrionale fanno parte della delegazione guidata da Belgrado ai colloqui sullo status.
Sul versante degli albanesi kosovari, quasi non ci sono segni che il Kosovo venga considerato un Paese multietnico: al di là della vuota retorica ufficiale, non c’è alcuna reale apertura verso i serbi kosovari, nessuna volontà di includere membri di minoranze non serbe nel team negoziale del Kosovo, nessuna garanzia istituzionale né alcuna esplicita discriminazione positiva per i non albanesi. I diritti di proprietà non sono né rispettati né tutelati, e nel complesso non c’è un processo di ritorno. Più che mai, il Kosovo è una società profondamente divisa – molto lontana dalla visione di un Kosovo aperto alle diversità e multietnico.
Il rapporto sui progressi dell’UE sul Kosovo pubblicato l’8 novembre 2006 nota che “strutture amministrative parallele finanziate da Belgrado continuano ad operare nella maggior parte delle municipalità a predominanza serbo-kosovara. Due distinti sistemi continuano a funzionare in Kosovo nei campi della giustizia, dell’istruzione, dell’assistenza sanitaria, dell’amministrazione e del servizio postale”
(8). I serbi del Kosovo stanno sviluppando una società parallela, sostenuta da Belgrado – sull’esempio del modello degli albanesi kosovari prima del 1999
(9).
A completare il quadro, bisogna considerare che il sistema giudiziario è inefficiente e che la corruzione dilaga ad ogni livello. La situazione dei diritti umani è misera: le donne sono vittime di pratiche discriminatorie nella vita economica e sociale, i meccanismi di protezione per i bambini sono inadeguati, le comunità minoritarie affrontano discriminazione e gravi restrizioni, con serbi e rom vittime designate di molestie ed intimidazioni. La maggior parte dei rom, degli ashkali e degli egiziani non hanno accesso ai servizi pubblici, alle attività produttive e all’istruzione. Infine, ma non ultimo in ordine di importanza, pochi progressi sono stati fatti nella lotta contro il traffico di esseri umani, ed il Kosovo resta un Paese d’origine, di transito e di destinazione per il trafficking.
Questa situazione non ha dissuaso l’ambasciatore Kai Eide, Inviato speciale del Segretario generale delle Nazioni Unite, dal raccomandare nell’ottobre 2005 l’apertura dei negoziati sullo status, nonostante l’opinione già precedentemente espressa, secondo cui sarebbe stato prematuro passare le consegne sulle competenze chiave alle autorità locali, e secondo cui non ci sarebbe mai stato un momento adatto per affrontare la questione del futuro status del Kosovo
(10). L’argomento chiave di Eide era che una posticipazione del processo dello status non avrebbe “presumibilmente portato a ulteriori, tangibili risultati nell’implementazione degli standard”
(11). Di conseguenza il Segretario generale decise il 7 ottobre 2005 che era “giunto il tempo di passare alla fase successiva del processo politico”, sottolineando però allo stesso tempo che “l’implementazione degli standard deve continuare con sempre maggiore impegno e risultati”
(12).
Negoziati, ma nessun compromesso
Il processo di definizione del futuro status ebbe inizio a Vienna il 20 febbraio 2006, sotto gli auspici dell’Inviato delle Nazioni Unite ed ex Presidente finlandese Martti Ahtisaari. Ma questi colloqui vertevano essenzialmente sul decentramento e su altri aspetti piuttosto tecnici, come i diritti delle comunità, la protezione della Chiesa ortodossa serba e il patrimonio ed il debito dello Stato, anziché sullo status finale. Ancora peggio, essi non hanno fino ad ora portato ad alcun risultato concreto. L’esito, ampiamente annunciato, di una qualche forma di indipendenza per il Kosovo, chiaramente ha minato i negoziati. Nonostante la presenza a Vienna il 24 luglio 2006 dei Primi ministri e dei Presidenti di Serbia e Kosovo, non si è fatto alcun importante passo avanti, ed il summit si è concluso in una situazione di stallo. Ulteriori colloqui diretti tra le parti hanno rivelato che esse rimangono su posizioni molto distanti in merito alla maggior parte delle questioni
(13).
Da parte degli albanesi kosovari, come è stato osservato dall'International Crisis Group (ICG), “l’idea di proporre diverse possibili sistemazioni per i serbi del Kosovo, o di addolcire la pillola alla Serbia, di modo che sia più facile per la comunità internazionale indurre una recalcitrante Belgrado ad accettare l’indipendenza del Kosovo, non si è realmente tradotta in pensiero politico”
(14). Da parte dei serbi, ogni cosa è stata fatta per ritardare l’indipendenza, per separare i territori serbi dal Kosovo, e per opporsi ad un'indipendenza formale, in linea con lo slogan di Belgrado “più dell’autonomia, meno dell’indipendenza”.
Questo approccio obsoleto e legalista non ha considerato il fatto che il legame tra Stato e cittadini in Kosovo si è evidentemente spezzato, e che gli albanesi kosovari certamente non sono interessati ad alcuna forma di ampia autonomia all’interno della Serbia; ma anche che la Serbia – essa stessa in una situazione finanziaria critica – non si può permettere il fardello economico dello sviluppo del Kosovo. Se la Serbia non vuole vendere il Kosovo, non è neppure in grado di pagarlo. Una catarsi indotta dalla perdita del Kosovo appare oggi utopistica, ma chissà in futuro...
Dato che i colloqui sullo status secondo le previsioni si dovrebbero concludere all’inizio del 2007
(15), dopo essere già stati posposti una volta, è difficile prevedere come l’Inviato ONU Ahtisaari potrà completare la sua “mission impossible”. Contrariamente a quanto suggerisce il più recente rapporto dell’ICG
(16), appare dubbio che Ahtisaari riesca a presentare un qualche pacchetto di proposte risultanti dai colloqui di Vienna o là sottoscritte. I colloqui sul Kosovo potrebbero perciò concludersi con una soluzione imposta dalle pressioni internazionali e basata su una nuova risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Quest’ultima molto probabilmente non utilizzerebbe la parola “indipendenza” ma si limiterebbe a suggerire una sovranità condizionale o limitata, obbligando la maggioranza albanese del Kosovo a garantire un pacchetto di diritti per i serbi del Kosovo e per le altre minoranze nelle tre sfere delle istituzioni centrali, del decentramento e della salvaguardia dell’identità culturale. Non è in alcun modo certo che un tale status riappacifichi le parti
(17).
La prevista risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, attesa per marzo 2007, darà anche con ogni probabilità mandato di trasferire la maggior parte delle responsabilità dell’Unmik, benché probabilmente in misura minore di quanto dapprima preventivato, al governo del Kosovo, ed incaricherà una missione post-status di supervisionare questo processo di transizione e di subentrare all’Unmik in via di smobilitazione. Il Gruppo di contatto
(18) probabilmente coordinerà il progettato Ufficio civile internazionale (ICO), che inizialmente era inteso come una missione guidata dall’UE. Resta da vedere se una qualsivoglia presenza internazionale sarà efficace, con poteri inferiori a quelli dell’Alto rappresentante in Bosnia ed Erzegovina. Per esempio, è un mistero come la parte settentrionale del Kosovo possa essere incorporata senza almeno qualche potere di coercizione. È ovvio che la missione post-status non si può focalizzare solo sulla supervisione, ma dovrà intervenire in alcune aree chiave, specialmente in quelle di cui si è discusso a Vienna.
Una Regione dell’UE, che altro?
Una solida cornice, che contribuisca allo sviluppo sociale ed economico ed al consolidamento di strutture sostenibili e democratiche, come anche alla stabilità nella regione, può essere costruita solo sulla base di uno status specifico. Ma sono veramente realistiche le opzioni del protettorato o della sovranità?
Lo scenario del quasi-protettorato, così come è stato implementato in Bosnia ed Erzegovina, potrebbe apparire ad alcuni – specialmente a Belgrado – come la migliore via di uscita dal pantano, e permetterebbe ad una entità del Kosovo di avere speciali vincoli con Belgrado
(19). Ma se si dovesse scegliere questa opzione, la missione post-status finirebbe per avere molta più autorità di quanto immaginato da principio.
Se la piena indipendenza sembra tuttora fuori questione, ci si potrebbe chiedere se nelle attuali circostanze l’indipendenza condizionale sia davvero una soluzione attuabile, per non dire se gli albanesi del Kosovo la accetterebbero. Se nei loro cuori c’è l’indipendenza, essi hanno meno comprensione per le esigenze di un’amministrazione statale qualificata. Certamente il processo di state-building nel Kosovo non ha avuto abbastanza successo – se mai ne ha avuto - da costruire uno Stato sostenibile e democratico.
Il tacito consenso che il Gruppo di contatto sembra aver raggiunto dietro porte chiuse – sul fatto che l’indipendenza condizionale sia la via di uscita – è controbilanciato dal fatto che nessuno di questi Paesi è preparato ad imporre una soluzione senza l’accettazione di Belgrado. Al massimo, la risoluzione del Consiglio di Sicurezza potrebbe sostenere un nuovo pacchetto sulla presenza del successore internazionale ed accettare un atto di autodeterminazione. In questo caso, il riconoscimento potrebbe non seguire immediatamente, frustrando le aspettative degli albanesi kosovari, mentre l’atteggiamento della Serbia potrebbe continuare a minacciare l’intera presenza post-status, così come pure il futuro del Kosovo.
Comunque, l’indipendenza con sovranità piena o condizionale non garantirà che la “sindrome da democrazia illiberale” da cui è attualmente affetto il Kosovo possa essere superata. Potrebbe esser giunto il momento di abbandonare i concetti, propri del diciannovesimo secolo, di Stato-nazione e di confini nazionali, e di spostarsi verso un'integrazione transnazionale, un processo che ha negli scorsi decenni rimodellato l’Europa? Come ha suggerito Carl Bildt, l’alternativa “ad istituire nuovi Stati-nazione nella regione è istituire nuove strutture europee e regionali”
(20).
Indubbiamente gli Stati moderni si devono confrontare – in Kosovo come in ogni altro posto – con la realtà degli Stati multinazionali, e devono “imparare a convivere con il pluralismo culturale, e ad escogitare strategie per la coesistenza che non contraddicano i principi di libertà, giustizia e democrazia”
(21). In questo campo, le raccomandazioni Lund
(22) potrebbero suggerire dei princìpi base e delle buone norme pratiche su come implementare queste strategie di integrazione, e su come promuovere opzioni per l’autogoverno che non siano la sovranità e la secessione
(23).
Per sfuggire all’attuale vicolo cieco della dicotomia ”indipendenza-autonomia”, si deve trovare una soluzione innovativa che servirebbe da ponte tra passato e futuro. Davvero è tempo di immaginare una soluzione su basi completamente differenti: il Kosovo come una autonoma Regione Europea, all’interno di una struttura legale regionale basata sulla legislazione dell’UE, potrebbe fornire delle reali prospettive per un avanzamento del “processo dello status”
(24). Di conseguenza, il grado di intrusività esterna decrescerebbe, e la missione progressivamente si trasformerebbe, da una cospicua amministrazione internazionale – includendo in ciò l’attualmente esistente co-amministrazione ed il limitato trasferimento, già in corso, all’amministrazione autonoma locale – ad una di impronta più leggera, che si concentrerebbe sul monitorare e sul consigliare le autorità locali.
Un tale status, realmente unico, sarebbe sostenuto dal Consiglio d’Europa e dall’Unione Europea, introdurrebbe l’euro come moneta, compirebbe una effettiva smilitarizzazione, supervisionata da una forza di polizia a guida UE, liberalizzerebbe i visti alle frontiere, metterebbe in atto un organico programma nel campo dell’istruzione, la riduzione del debito pubblico, e una concreta assistenza allo sviluppo pre-accesso
(25). Un’adesione facilitata all’FMI, alla Banca mondiale, e ad altre agenzie specializzate dell’ONU (quali l’Organizzazione mondiale della sanità, OMS, o l’Organizzazione mondiale del lavoro, ILO), completerebbe un pacchetto attraente per gli albanesi kosovari, e che potrebbe appianare le riserve di Belgrado, preparando la strada ad un’accettazione completa in Serbia.
Un tale approccio, focalizzato sullo status e sugli standard, rappresenterebbe chiaramente un compromesso, e richiederebbe concessioni di pari valore da entrambi i lati. Le forze populiste, tanto a Belgrado quanto a Pristina, dovrebbero trovare un terreno d’intesa mediano, e lasciarsi alle spalle quelle posizioni estremiste che appartengono ad un altro secolo. Tutto ciò, che potrebbe essere considerata una utopia concreta, potrebbe senza problemi essere immediatamente integrato in strutture già esistenti, come il Congresso delle autorità locali e regionali del Consiglio d’Europa, ed il Comitato delle regioni della UE; ciò corrisponde anche ad una crescente consapevolezza dell’importanza di sviluppare e rafforzare la rilevanza politica delle regioni dell’UE, e delle strategie di innovazione regionale.
Come si è detto, l’approccio regionale – in quanto concetto realmente dinamico – potrebbe accompagnare il passaggio da una missione post-Unmik verso una missione di monitoraggio, che usi poteri meno intrusivi ed una maggiore condizionalità. Potrebbe anche favorire un passaggio delle consegne ed una strategia di uscita ben regolati, come pure i passi successivi verso l'adesione all’UE e la piena indipendenza – con entrambi i processi che stanno richiedendo molto più tempo di quanto si pensasse inizialmente, sia a causa della lenta implementazione dell’acquis communautaire in Kosovo, sia a causa della “fatica dell'allargamento” avvertita in Europa.
Il Kosovo come Regione Autonoma EUropea – concepita come parte del processo dello status – fornirebbe alla UE una strategia chiara, che eviterebbe lo scontro di approcci: nel momento in cui il Kosovo avesse lo status di regione, la missione a guida UE avrebbe ancora alcuni poteri esecutivi, focalizzati su un insieme di parametri da raggiungere; una volta che il Kosovo avesse ottenuto l’accesso alla piena indipendenza, le azioni dell’UE si baserebbero solo sul monitoraggio e sull’implementazione delle riforme.
La struttura regionale – in quanto status chiaramente definito – potrebbe innanzi tutto aiutare a superare lo scarto tra imposizione esterna ed autogoverno, disponendo un consistente trasferimento di poteri e strategie dirette verso l’autogoverno e, in secondo luogo, fornire una cornice strutturale comune per l’integrazione del Kosovo settentrionale e la definizione di relazioni interfrontaliere sul modello di esempi europei come la Regione europea del Tirolo - Alto Adige - Trentino e la Regio Basiliensis. Questa reintegrazione sarebbe raggiunta da una missione transizionale a nord dell’Ibar, sul modello della pienamente riuscita missione ONU del 1996-1998 nella regione croata della Slavonia orientale (Untaes). In questo modo, le relazioni con la Serbia non minaccerebbero più l’integrità del Kosovo e contribuirebbero ad una complessiva normalizzazione.
Per il Gruppo di contatto ed i Paesi dell’UE, il valore aggiunto di simili innovativi e flessibili approcci sarebbe che questi permetterebbero alla comunità internazionale di muoversi verso una soluzione politica ed un intervento post-crisi dai costi adeguati. Ciò sarebbe particolarmente benvenuto, dato che è dubbio che questi Stati vogliano incrementare le risorse che essi impegnano nel Kosovo. Lo status sopra delineato favorirebbe una riallocazione dei fondi, dal settore militare allo state-building e alle priorità dello sviluppo.
Introdurre nuove regioni in Europa, un concetto familiare anche al mondo degli affari, potrebbe in questo momento fornire un potente strumento per risolvere conflitti irrisolti, non solo in Kosovo ma anche in Spagna (il conflitto basco), in Turchia (la questione curda), e in Nagorno Karabakh, Abkhazia, Ossezia del Sud e Transnistria
(26). In ognuno di questi casi, un approccio regionale adattato alle specificità di ogni situazione e inserito nel contesto strutturale della membership o della Politica di vicinato della UE (ENP), potrebbe essere d’aiuto nel produrre soluzioni politiche, anziché militari.
Ginevra, 30 novembre 2006
Scritto nel contesto della conferenza “Kosovo, regione d’Europa. Il ruolo dei partenariati territoriali nella composizione dei conflitti”, organizzata a Roma il 15 dicembre 2006 da Osservatorio sui Balcani. Il testo inglese verrà pubblicato da South East Europe Review, Nomos, Baden-Baden, no.4, 2006.
Note
1. Hannah Arendt,
Tra passato e futuro, Garzanti, Milano 1991.
2. Unscr,
Resolution 1244 (1999), New York: UNSCR, S/RES/1244 (1999), 10 giugno 1999.
3. Unscr,
Report of the Secretary-General on the UN Interim Administration Mission in Kosovo, New York, Unscr, S/2005/88, 14 febbraio 2005.
4. Questi otto parametri – formulati nel 2002 dall’Srsg Michael Steiner e presentati in un documento di 10 pagine il 10 dicembre 2003 – fanno riferimento a: funzionamento delle istituzioni democratiche, legalità, libertà di movimento, ritorno e reintegrazione, economia, diritti di proprietà, dialogo con Belgrado, ed il Corpo di protezione del Kosovo. Vedi Unscr,
Report of the Secretary-General on the UN Interim Administration Mission in Kosovo, New York, Unscr, S/2006/45, 25 gennaio 2006.
5. Ci si riferisce alle 13 priorità individuate nel giugno 2006 dal Gruppo di contatto; vedi SRSG, “Technical assessment of progress in implementation of standards for Kosovo” allegato a Unscr,
Report of the Secretary-General on the UN Interim Administration Mission in Kosovo, New York, Unscr, S/2006/707, 1 settembre 2006, pp.9-20.
6. A metà del 2006 il Piano di azione per il partenariato europeo ha preso il posto del Piano per l’implementazione degli standard in Kosovo (KSIP), istituito nel marzo 2004.
7. Vedi Commission of the European Communities,
Kosovo (under UNSCR 1244) 2006 Progress Report, Bruxelles, SEC (2006) 1386, 8 novembre 2006.
8. Commission of the European Communities,
Kosovo (under UNSCR 1244) 2006 Progress Report, Bruxelles, SEC (2006) 1386, 8 novembre 2006, p.9.
9. Vedi Shkëlzen Maliqi,
Kosova: Separate Worlds, Pec, Dukagjini, 1998.
10. Unscr,
A comprehensive review of the situation in Kosovo, New York, Unscr, S/2005/635, 7 ottobre 2005.
11. Unscr,
Ibidem, pp.18.
12. Unscr,
Letter dated 7 October from the Secretary-General addressed to the President of the Security Council, New York: Unscr, S/2005/635, 7 ottobre 2005.
13. Unscr,
Report of the Secretary-General on the UN Interim Administration Mission in Kosovo, New York, Unscr, S/2006/707, 1 settembre 2006, p.1.
14. ICG,
Kosovo: The Challenge of Transition, Bruxelles, ICG, Europe Report n.170, 17 febbraio 2006, p.19.
15. Tim Judah, “Fresh Delays Likely to Kosovo’s Independence,”
Balkan Insight, 23 novembre 2006.
16. ICG,
Kosovo Status: Delay is Risky, Bruxelles, ICG, Europe Report n.177, 10 novembre 2006.
17. Una condizione menzionata da Kai Eide; vedi Unscr,
A comprehensive review of the situation in Kosovo, New York, Unscr, S/2005/635, 7 ottobre 2005, p.5 e p.19.
18. Formato nel 1994, il Gruppo di contatto raggruppa Stati chiave interessati ai Balcani: USA, Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia e Russia.
19. Vedi Christophe Solioz, “L’avenir du Kosovo à la lumière des Accords de Dayton,”
Diagonales Est-Ouest, n.38, gennaio 1996, pp.28-9.
20. Carl Bildt, “A second chance in the Balkans,”
Foreign Affairs, 80, 1, 2001, p 157.
21. Will Kymlicka,
The Rights of Minority Cultures, Oxford, Oxford University Press, 1995, p.157.
22. Foundation on Inter-Ethnic Relations,
The Lund Recommendations on the Effective Participation of National Minorities in Public Life, L’Aja, settembre 1999.
23. Vedi Walter A. Kemp, “Between assimilation and secession: Integrating diversity in multi-ethnic states,” in: Daniel Warner e Valérie Clerc (a cura di),
The OSCE in the Landscape of European Security (2000), Ginevra, HEI, PSIO, n.1, 2002, pp.37-67.
24. Kai Eide ha insistito sul concetto di “processo dello status” – una cosa che è sfuggita alla maggioranza degli osservatori – ed ha sottolineato che “entrare nel processo dello status futuro non significa entrare nella fase finale, ma nella successiva fase della presenza internazionale”; vedi Op. cit, p.22.
25. Alcuni di questi aspetti sono stati citati in ICG,
Kosovo: The Challenge of Transition, Bruxelles, ICG, Europe Report n.170, 17 febraio 2006, p.30.
26. Vedi Christophe Solioz, “Décréter le Kosovo région européenne serait une solution originale et innovante,”
Le Temps, 10 ottobre 2006, p.19 (riportato anche in
eur|topics, Berlino, 10 Ottobre 2006; http://www.eurotopics.net).
*
Nato a Brema nel 1957 come cittadino svizzero. Ha studiato filosofia, psicologia, pedagogia e letteratura italiana e tedesca presso le università di Zurigo e Ginevra. Dal 1992 è coordinatore di vari progetti nel campo dello sviluppo della società civile e dei processi di transizione e di democratizzazione in diverse repubbliche post-Jugoslave. Ex presidente dell’Assemblea dei cittadini di Helsinki svizzera (fino al 1997), fondatore della Associazione Bosnia ed Erzegovina 2005 (fino al 2005), attualmente direttore esecutivo del Centro per le strategie di integrazione europea (CEIS). Da 2000 è responsabile del progetto di ricerca “The Next Step” (“Il passo successivo”), sulle strategie per ampliare l’autogoverno in Bosnia ed Erzegovina, Croazia e Serbia. Suoi articoli sono stati pubblicati in Le Temps, Libération, Le Courrier des Pays de l’Est, come anche in Südosteuropa Mitteilungen. Con Svebor Dizdarević ha curato Ownership Process in Bosnia and Herzegovina (Baden-Baden: Nomos, 2003) e, con T.K. Vogel, Dayton and Beyond (Baden-Baden, Nomos, 2004). È autore di L’après-guerre dans les Balkans (Parigi, Karthala 2003) e di Turning Points in Post-War Bosnia (Baden-Baden, Nomos, 2005; seconda edizione rivista, 2007)
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