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Miodrag Lekic: la mia guerra alla guerra

02.02.2007    scrive Michele Nardelli

1999, 78 giorni di bombardamenti NATO nel cuore dell'Europa. "La mia guerra alla guerra" è il diario di quelle settimane dell’ex ambasciatore jugoslavo a Roma, Miodrag Lekic, pubblicato da Guerini e Associati. Una recensione
Ripercorrere oggi i drammatici giorni della primavera 1999, quei lunghissimi 78 giorni di bombardamenti Nato nel cuore dell’Europa, è un utile esercizio per meglio mettere a fuoco i nodi di una questione niente affatto risolta, proprio nel momento in cui la comunità internazionale cerca a fatica di trovare una soluzione diplomatica inerente lo status del Kosovo.

Il fatto che da allora siano passati otto anni, non toglie nulla all’attualità di quegli avvenimenti, in particolare se consideriamo lo stallo in cui s’è ritrovata la diplomazia internazionale.

Ecco perché “La mia guerra alla guerra” di Miodrag Lekic è un lavoro prezioso: ti fa rivivere il clima di quei giorni, il dramma di un popolo che reagisce con l’humor nero dei graffiti sulle facciate dei palazzi, il coacervo di paradossi che attraversano l’aspro confronto internazionale fino alla beffa di una guerra ultratecnologica (e sporca, come tutte le guerre) che si conclude con la conquista dell’aeroporto di Pristina da parte di una colonna affamata di soldati russi che bruciano sul tempo le truppe d’elite nepalesi di Sua Maestà britannica.

Lo fa con la leggerezza del diario piuttosto che dell’analisi politica, quasi a sottolineare lo sguardo professionale dell’ultimo ambasciatore di Jugoslavia in Italia. Senza per questo inficiare il valore di testimonianza politica di un racconto certamente di parte ma ciò nonostante rigoroso e critico, utilissimo per rileggere dall’interno gli avvenimenti.

Nel suo racconto di quei giorni, l’autore procede per paradossi. Il primo è quello di una guerra inutile, come tutte le guerre si potrebbe dire, almeno per le finalità dichiarate. Che non ferma la pulizia etnica, ma la rinvigorisce; che non abbatte un dittatore come Milosevic, paragonato a Hitler dopo averlo legittimato come uomo di pace qualche anno prima, ma al contrario lo rafforza; che annichilisce l’opposizione che a parole si dice di voler sostenere, in Serbia come in Montenegro; che “libera” una regione riempiendola di cluster bomb e di uranio impoverito; che ottiene a Kumanovo molto meno sul piano dell’autonomia del Kosovo di quel che avrebbe ottenuto a Rambouillet senza bisogno di 78 giorni di bombardamenti a tappeto; che distrugge quel che poi si trova a dover ricostruire.

Paradossi stridenti, come nella vicenda della Zastava, la grande fabbrica automobilistica (e non solo) di Kragujevac, prima bombardata dalla Nato e poi divenuta produttrice d’armi su licenza della stessa Nato.

E poi, ancora, il paradosso di una generazione di politici formatisi nel cuore delle lotte degli anni ’60 e che avevano fatto della pace la loro bandiera alla testa di una coalizione che decide la guerra in aperta violazione del diritto internazionale; che vuole affermare il nuovo ruolo della Nato come la più grande alleanza politico – militare mai conosciuta nella storia e che – malgrado la differenza colossale sul piano degli arsenali in gioco – esce se non sconfitta quantomeno incapace di sostituirsi alle Nazioni Unite come garante di un nuovo ordine internazionale sotto l’egemonia degli Stati Uniti.

Ed infine un ultimo paradosso, quello di un’Europa che decide di fare la guerra a se stessa per conto di chi ne teme il possibile ruolo internazionale e la sua nascente moneta.

Che tutto questo emerga non per partito preso dell’autore, ma nel dispiegarsi contraddittorio degli avvenimenti, nei retroscena della diplomazia come negli incontri privati di un ambasciatore non perfettamente allineato, fa di questo libro un documento prezioso. E forse anche un autoritratto dell’autore.
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