Il 10 febbraio l'Italia ricorda le vittime delle foibe e l'esodo degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra. Una proposta per ricordare esplicitamente anche i crimini avvenuti durante il ventennio fascista e l'occupazione. Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Di: Renzo Nicolini*
Paul Klee (1925)
Tra il 2000 ed il 2004, in Italia sono state istituite due giornate commemorative di altrettanti eventi storici risalenti all’ultimo conflitto mondiale. Gli articoli 1 delle rispettive leggi recitano:
- “La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell'abbattimento dei cancelli di Auschwitz, «Giorno della Memoria», al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione,
la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati” (Legge 20 luglio 2000, n. 211; art. 1)
- “La Repubblica italiana riconosce il 10 febbraio quale «Giorno del ricordo» al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale” (Legge 30 marzo 2004, n. 92; art. 1).
Risale invece alle settimane scorse l’iniziativa di alcuni parlamentari dell’attuale maggioranza finalizzata a modificare la prima legge, riguardante il “Giorno della Memoria” del 27 gennaio, affinché accanto ai cittadini ebrei vengano citati esplicitamente i nomadi (rom e sinti), gli handicappati e gli omosessuali. Atto di per sé encomiabile, che però suggerisce l’esistenza di un vero e proprio “vicolo cieco”: ricordare alcuni, ricordare tutti o non ricordare nessuno? Soprattutto, ricordare ancora per quanto tempo?
Assistiamo dunque ad una corsa alla “parcellizzazione della memoria”: una memoria a strati, a settori, di parte. Nessuno si illude della possibilità che nel nostro paese si possa mai giungere ad una “memoria condivisa”, ma l’istituzionalizzazione di “memorie a lotti” cala una pietra tombale anche solo su ogni ragionevole ed accettabile prospettiva di ricomposizione storica minimale delle vicende del Novecento.
In questo triste quadro di memoria “lottizzata”, segnalo come del tutto inaccettabile anche se tristemente coerente, nel momento in cui si decide di istituire o modificare delle “giornate” di questo tipo, il fatto di escludere dalla “memoria” una o più parti della popolazione. In questa sede mi riferisco nella fattispecie ai cittadini di lingua slovena e serbo-croata – spesso identificati come dei non meglio specificati “slavi” – che abitavano i territori annessi dall’Italia dopo la Prima Guerra mondiale (la cosiddetta “Venezia Giulia”) e i territori dall’Italia occupati durante la Seconda Guerra mondiale (la Slovenia fino a tutta la città di Lubiana, l’entroterra della Dalmazia croata fino addirittura a parti dell’Erzegovina).
Contro queste popolazioni il regime fascista fu da subito molto duro. Mussolini affermava a Trieste nel settembre 1920: “Di fronte ad una razza inferiore e barbara come la slava non si deve perseguire la politica che dà lo zucchero, ma quella del bastone”. Era l’avvio di quello che gli storici hanno definito “fascismo di frontiera”, che si scagliò, non solo sul confine orientale, contro tutte le minoranze allogene ed alloglotte.
In particolare, verso le popolazioni di lingua slovena e croata fu avviato un vero e proprio processo di “italianizzazione forzata” con una serie di divieti e di “Regi decreti”: vietata l’omelia nelle lingue e nei dialetti slavi durante le messe, vietato l’uso della lingua madre in pubblico e vietato ogni tipo d’associazione culturale; trasformazione dei nomi, dei cognomi e dei toponimi. Fu così che decine di villaggi si videro cancellare la loro storica denominazione slovena e che tante famiglie si vedettero improvvisamente italianizzati i propri cognomi: Ivancič in Giovannini, Kovač in Fabbro, Kovačić in Fabretto, ecc. ecc. Stessa sorte subirono i cognomi tedescofoni della fascia confinaria ex-austriaca da Tarvisio a Trieste. Un’operazione di “pulizia” profonda, radicata, di cui oramai anche le “vittime” o più facilmente i loro discendenti hanno perso memoria. Ne rimane traccia solo negli elenchi telefonici di Trieste e Gorizia, incredibilmente densi di cognomi diversi (gli addetti all’anagrafe regia ebbero all’epoca molta fantasia nel cambiare i cognomi anche verso membri della stessa famiglia) per una popolazione così esigua.
Si trattò una vera e propria “bonifica etnica” che aveva lo scopo di “assimilare” popolazioni che abitavano da secoli le zone limitrofe al nostro confine orientale.
L’apice della violenza fu raggiunto durante il secondo conflitto mondiale, quando l’Italia invase il Regno di Jugoslavia. Lubiana fu circondata con il filo spinato e migliaia furono i civili e i militari jugoslavi che trovarono la morte in quelli che Spartaco Capogreco ha chiamato, nel suo libro edito nel 2004 da Einaudi, “I Campi del Duce”. Questi lager erano diversi, i più tristemente noti sono quelli di Arbe, Gonars, Visco, Monigo di Treviso, Renicci, Alatri e Colfiorito.
Queste vittime del pregiudizio etnico fascista non sembrano trovare alcuno spazio nella memoria italiana. Di tutto ciò non si parla, di tutto ciò si è persa la memoria.
Significativa è a questo proposito la stessa legge che istituisce il “Giorno del Ricordo” del 10 febbraio da me sopra citata.
A proposito di questi fatti, nel testo di legge si parla genericamente della “più complessa vicenda del confine orientale italiano” tralasciando o generalizzando tutto quanto precedette la firma del Trattato di Parigi del 1947. In altre parole, degli eventi delle nostre terre insanguinate da mille tragedie ed un susseguirsi di domini totalitari, oltre alle foibe ed all’esodo giustamente richiamati, rimane per lo Stato italiano solo una generica “più complessa vicenda”.
Questo è un esempio appunto di inaccettabile “memoria parcellizzata”.
Quella della Venezia Giulia fu decisamente una “complessa” e tragica vicenda, che non coinvolse però solo la componente etnica italiana, ma tutte, stravolgendo un territorio in cui per secoli convivevano pacificamente popolazioni di diverse origini e lingue. Pacifica convivenza che la gente locale sta ristabilendo ormai da anni, ma che può essere nuovamente messa in discussione da “memorie” e “commemorazioni” strumentalizzate politicamente da una o più fazioni.
Si usa affermare che un popolo che non ricorda il proprio passato non ha futuro. Il passato di ogni popolo è fatto sia di sentimenti che di risentimenti, sia di torti subiti che di torti fatti. Un popolo civile ha però il dovere di riconoscere entrambi.
Per questo credo che la Repubblica Italiana debba saper fare un passo avanti per quanto riguarda il “riconoscimento” di quanto avvenuto sul confine orientale dal 1918 in poi (da quando cioè questa zona è passata all’Italia) superando quel luogo comune post-bellico di “Italiani brava gente” che permise tra l’altro la rimozione collettiva più completa degli eccidi compiuti dai generali Roatta , Robotti e Graziani in Slovenia o dal Tribunale speciale di Trieste, molto “attivo” contro gli antifascisti sloveni.
Credo che lo strumento per tutto ciò ci sia e sia a portata del nostro Parlamento: propongo che la legge 92/04 venga modificata nel titolo e nell’articolato al fine di rendere più esplicito ciò che genericamente si indica con “più complessa vicenda”, citando cioè espressamente, accanto alla tragedia “dei martiri delle foibe e dell'esodo”, quella “delle minoranze linguistiche slavofone vittime della politica di snazionalizzazione operata nel ventennio fascista”.
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Renzo Nicolini è vice-presidente del Circolo di cultura istro-veneta “Istria” (www.circoloistria.it)