Tuzla, 11 marzo 2007
14.03.2007
Tuzla, 11 marzo 2005 (Gughi Fassino)
Come ogni 11 del mese, le donne di Srebrenica hanno manifestato chiedendo verità e giustizia per i propri cari scomparsi. Le reazioni alla sentenza della CIG, la proposta di creare un distretto autonomo. Polemiche per un articolo comparso sulla stampa italiana
di Luca Leone*
Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Una lunga catena fatta di mani che tenevano “cuscini” ricamati ha svolto anche questo mese, come negli ultimi dodici anni, la sua silenziosa e mesta processione per chiedere giustizia e non dimenticare. Domenica 11 marzo le donne, le madri, le figlie delle vittime di Srebrenica hanno inscenato la loro marcia sfilando dal lago artificiale salato fino al centro della città storica, accanto al luogo dove, il 25 maggio 1995, una granata serbo-bosniaca uccise 71 ragazzi che in strada cercavano, un sabato pomeriggio, di sfidare la guerra dando una parvenza di normalità alla loro vita.
L’occasione di questa sfilata, per ricordare le 10.701 vittime del genocidio di Srebrenica (i familiari delle vittime respingono le cifre ufficiali, che si aggirano intorno agli 8.000 morti) uccise tra l’11 e il 21 luglio 1995 dalle forze serbo-bosniache guidate dal generale Ratko Mladić e dai paramilitari venuti dalla Serbia aveva però molti elementi di differenza e di novità rispetto alle volte precedenti. Le donne hanno voluto innanzitutto protestare contro la sentenza della Corte internazionale di giustizia dell’Aja, che non ha riconosciuto la Serbia colpevole del genocidio, ma solo di non avere fatto il necessario per prevenirlo. “Eppure – racconta Ešefa Alić, 46 anni – ricordo benissimo i bombardamenti provenienti dalla Serbia. Io, mio marito e i nostri figli abitavamo in un villaggio fuori Srebrenica, non lontano dal confine con la Serbia. Durante l’assedio, finché siamo potuti rimanere a casa nostra abbiamo raccolto molte granate inesplose. Su alcune c’era scritto ‘Saluti dalla Serbia’. Abbiamo perduto queste prove quando abbiamo dovuto abbandonare la nostra casa. Come avrei potuto portarle visto che ci è stato impossibile salvare persino i vestiti dei bambini? E oggi ci vengono a dire che la Serbia non c’entrava nulla”.
C’è grande amarezza per la sentenza – definita da tutte le donne “politica” – ma anche dolore per un articolo pubblicato all’indomani della decisione dell’Aja da un grande quotidiano italiano, il cui inviato ha scritto di boschi tagliati dalle donne di Srebrenica per protesta contro la sentenza, di cuscini che sarebbero stati bruciati, di desiderio di vendetta. L’articolo, spedito via e-mail dalla diaspora bosniaca attraverso le organizzazioni civili bosniache, ha generato grande amarezza anche tra gli italiani. Forse non tutti sanno che a Tuzla e Srebrenica centinaia di famiglie italiane, tra cui quella di chi scrive, hanno adottato a distanza bambini bisognosi, che considerano come loro figli. Domenica alla manifestazione hanno partecipato tanti italiani: sono venuti da Bologna, Roma, Firenze, Milano. Si sono sobbarcati 15 ore di viaggio in automobile per andare a vedere se veramente i “loro” figli rischiassero di finire in mezzo a un’altra guerra. Ma qui, tra le sopravvissute di Srebrenica, non c’è voglia di vendetta ma solo desiderio di quella giustizia che finora è stata negata. E se astio c’è, lo si riscontra verso Carla Del Ponte, il procuratore capo del Tribunale per i crimini di guerra nella ex Jugoslavia (Tpi), che secondo le donne “da anni dice di avere le celle pronte per Mladić e per Radovan Karadžić, ma che non ha mai fatto abbastanza per riempirle”. Tante di loro ancora aspettano di poter testimoniare al Tpi.
Un capitolo a parte chiedono le altre due questioni, l’annunciato rogo dei cuscini e il taglio del bosco. “Non è mai esistito alcun bosco dedicato ai nostri cari. Penso che ne avremmo almeno sentito parlare in tutti questi anni” protesta Haira Čatić, leader delle donne di Srebrenica con base a Tuzla e con una brutta malattia alle spalle. “Per quanto riguarda i cuscini – fa prendendone delicatamente alcuni tra le mani e avvicinandoli a una guancia – li abbiamo fatti con le nostre mani tanti anni fa in memoria dei nostri cari scomparsi ricamandovi sopra i loro nomi e li abbiamo lasciati appositamente vuoti, senza l’imbottitura, per testimoniare la gravità dell’assenza dei nostri amati: figli, mariti, genitori… Abbiamo chiesto all’amministrazione di Srebrenica di acquistare delle teche di cristallo per poter proteggere i nostri cuscini e custodirli all’interno del museo sorto in una delle fabbriche dell’orrore di Potočari, fuori Srebrenica, dove molti nostri uomini furono torturati e assassinati. Vi sembra possibile che anche lontanamente qualcuna di noi possa aver pensato di bruciare uno dei nostri beni più grandi?”
Mentre lentamente la lunga catena – rafforzata da molti italiani – scorreva lungo le vie di Tuzla, le donne discutevano di quest’articolo forse ancor di più della stessa sentenza dell’Aja. Nell’aria c’era stordimento, paura. La stampa può riattizzare fuochi mai sopiti, coprendosi di colpe gravi, perché grave è la superficialità. Questo stesso grande quotidiano italiano, tra l’altro, nulla ha scritto della marcia delle donne, evitando di seguire l’evento.
Altra questione particolarmente dibattuta tra le donne di Srebrenica è la proposta, da loro stesse avanzata, di rendere Srebrenica una provincia o distretto autonomo, sull’esempio di Brcko, una delle zone più floride e sviluppate della Bosnia Erzegovina contemporanea. Lunedì 12 marzo alcuni politici nazionali riuniti dal sindaco di Srebrenica, Abdurahman Malkić, hanno parlato della questione, sebbene l’impressione è che la strada sia ancora molto lunga. Intanto la diaspora mondiale dei bosniaci insiste nel chiedere la cancellazione attraverso una riforma costituzionale ad hoc dell’Entità della Republika Srpska di Bosnia (Rs), “nata sul genocidio”, e la fondazione di un Paese finalmente unito. Per questa questione, ammesso che mai sarà affrontata, i tempi si profilano ancora più lunghi e i problemi ardui.
*Giornalista, autore di “Srebrenica, I giorni della vergogna”, Infinito edizioni (a maggio in uscita la seconda edizione del libro) e direttore editoriale della casa editrice Infinito edizioni