Kosovo: gli scomparsi del 27 aprile
07.05.2002
Un’intervista curata da Marco Ratti, operatore CARITAS, a Engjell I. Berisha, autore del libro “Il massacro di Meja e Korenica” . Il punto di vista albanese su una strage sulla quale ci si auspica il TPI possa fare chiarezza.
La peggiore strage che il Kosovo ricordi pensando alla guerra della primavera del 1999 contro il regime di Belgrado, 372 persone scomparse (il maggior numero in un solo giorno e nello stesso posto nell’arco dell’intero conflitto), senza che nessuno abbia visto una sola goccia di sangue scorrere: tutto questo è il 27 aprile per la popolazione albanese della regione. In occasione del terzo anniversario ne abbiamo parlato con Engjell I. Berisha, noto scrittore e giornalista, 40 anni, autore del libro “Il massacro di Meja e Korenica”, oggi preso in esame dal Tribunale penale internazionale dell’Aja nel corso del processo contro il serbo Slobodan Milosevic.
Dottor Berisha, cosa è successo quel giorno? ”Tutto è iniziato alle cinque del mattino e, come molti testimoni raccontano, si è concluso nel giro di due o tre ore al massimo. I serbi hanno agito simultaneamente in due zone della municipalità di Djakova, nel Kosovo sud-occidentale, a circa due km. di distanza l’una dall’altra: quella compresa tra i villaggi di Dobrosh e Korenica e quella circostante il villaggio di Meja. Procediamo con ordine. Nel primo caso gli uomini armati operavano in tre modi. Entravano nelle abitazioni e obbligavano donne, bambini e anziani ad incamminarsi sulla strada che porta in Albania, mentre chi veniva considerato in grado di imbracciare un’arma veniva ucciso con colpi di arma da fuoco all’interno della propria casa; in altri casi i giovani sono stati catturati lungo la strada, e di loro non si è saputo più niente; in altri quartieri, infine, tutta la popolazione veniva condotta verso il villaggio di Meja. Solo a Korenica, quel giorno, sono scomparse 99 persone.
A Meja, invece, le cose sono andate un po’ diversamente. La popolazione della zona circostante è stata condotta all’entrata del villaggio, dove bambini, donne e anziani sono stati costretti a dirigersi verso l’Albania, mentre gli uomini potenzialmente in grado di combattere sono stati portati nel bosco circostante; anche questi ultimi risultano oggi nelle liste degli scomparsi. I giovani che erano riusciti ad evitare il primo posto di blocco sono stati fermati all’uscita da Meja. Nessuno, comunque, è stato ucciso sul posto; nessuno, dunque, è in grado di raccontare precisamente cosa sia successo loro.”
Lei fino ad ora ha parlato genericamente di serbi, di uomini armati. Chi ha commesso questi crimini? “Le testimonianze sono concordi al riguardo: c’erano serbi in abiti civili, membri della guerriglia paramilitare e soldati dell’esercito regolare di Belgrado e l’azione, evidentemente, era stata organizzata nei minimi dettagli. Basti pensare che nel corso del massacro di Meja e Korenica nessuno ha visto l’uccisione di altri; nessun testimone oculare dei crimini commessi, dunque. Eppure quel giorno sono scomparse 372 persone, quasi la metà di quante non siano morte nell’intera municipalità di Djakova in tre mesi di guerra.”
Nessun giovane è riuscito a salvarsi, magari pagando per essere rilasciato? “Purtroppo neppure questo è stato possibile. I serbi sono arrivati nei villaggi con le liste di chi doveva essere catturato; controllavano i documenti delle persone fermate e, se si era tra i nomi “ricercati”, non c’era nulla da fare. Per quanto riguarda il pagamento di una sorta di riscatto, poi, non era neppure pensabile: anziani, donne e bambini venivano derubati di tutto prima di essere rilasciati e le loro case venivano spesso bruciate.”
E cosa ne è stato di loro? “Si sono diretti verso il confine con l’Albania, come era stato indicato loro. Chi a piedi e chi a bordo di un trattore, dopo alcuni giorni sono riusciti a varcare il confine, dove hanno trovato assistenza presso i campi profughi allestiti”.
Ci sono stati scontri in questa occasione? “No, in questa zona non ci sono stati scontri. I membri dell’Uck, l’Esercito di liberazione del Kosovo, si erano rifugiati ormai da diverse settimane sui monti vicini all’Albania. A Meja e Korenica erano rimasti solo civili, che del resto non si sentivano particolarmente minacciati visto che non avevano preso parte alle azioni contro i serbi”.
In occasione del terzo anniversario è stata organizzata una manifestazione. Vuole essere un momento pensato per non dimenticare, o avete richieste precise? “La manifestazione ha tre obiettivi: conservare la memoria storica di quanto è successo; ricordare le persone che hanno perso la vita in quella tragica circostanza; chiedere agli organi competenti, in particolare Onu e Croce Rossa, di darci informazioni sugli scomparsi. Ad oggi sono stati ritrovati i cadaveri di sole 25 persone, mentre non si sa nulla delle altre 347. Se i morti fossero già stati sepolti avremmo pianto solo fino al giorno del loro funerale; in questo modo, invece, alcuni sperano ancora e sono vittime di gente senza scrupoli, che assicura di poter dare notizie sugli scomparsi in cambio di decine di migliaia di Euro. All’Aja saranno sette i testimoni sul massacro di Meja e Korenica: speriamo che almeno allora la verità possa emergere”.
Marco Ratti, Djakova, Kosovo