Le versioni più recenti dei dizionari dell’Oxford University Press hanno aggiunto il termine
Kosovar ai propri contenuti. Con esso si intende ogni abitante del Kosovo indipendentemente dal gruppo etnico di appartenenza. La definizione di
Kosovar ha colto l’interesse dei circoli intellettuali del Kosovo che attraverso un lungo dibattito appuntato sul settimanale Java, e raccolto nel libro “Kush asht kosovari?” hanno rispecchiato una necessità seppur repressa della società kosovara di autodefinirsi, in particolare in questa specifica fase storica nell'area.
Nonostante sia chiaro che il termine
Kosovar stia per un’identità strettamente legata alla regione geografica, escludendo l’elemento cruciale dell’identità etnica - concetto molto caro ai nazionalismi ottocenteschi a cui si ispirano tuttora i nazionalismi balcanici - la polemica ha coinvolto solo intellettuali albanesi, che per kosovaro sembrano abbiano inteso solo l’albanese del Kosovo, e la sua identità oscillante tra il folclore nazional-romantico e i rapporti ambigui con la “madrepatria”, l’Albania.
L’identità kosovara in quanto albanese, nonostante si incominci a parlarne solo di recente, è un prodotto storico-politico di molti anni. Nel tempo si sono sedimentati elementi tesi a distinguere gli albanesi dai serbi, differenziandosi pertanto anche da un’identità presumibile degli albanesi in Albania.
Incomincia a prendere vagamente forma dopo l’acquisizione dell’indipendenza della maggior parte degli stati balcanici, quando il Kosovo si vide fare parte del regno dei serbi, croati e sloveni, e in seguito della Jugoslavia.
Per distinguere gli albanesi dai serbi si immise violentemente nell’autopercezione degli albano-kosovari il mito dell’ “odio atavico” secondo cui i serbi e gli albanesi si sono perennemente odiati e combattuti nonostante si tratti di una convinzione storicamente del tutto infondata. Si è chiuso un occhio davanti alle evidenti prove della fluidità delle identità nella regione (come sostengono Miranda Vickers e Noel Malcolm) in cui le due comunità si sono influenzate reciprocamente, lasciando ad esempio profonde tracce del serbo nell’albanese-kosovaro che va molto oltre il condizionamento dovuto all’essere sotto l’amministrazione serbofona che aveva fatto disimparare la propria lingua agli albanesi - come viene ritenuto dagli intellettuali politicamente corretti del Kosovo - oppure nell’antica organizzazione dei kosovari in
zadrughe anziché nei
fis (clan) tipici della cultura montanara albanese.
La caduta di Aleksandar Rankovic, ministro degli Interni jugoslavo molto aggressivo nei confronti delle minoranze etniche, ha segnato un cambiamento radicale nel rafforzamento dell’identità albanese non solo in quanto identità da contrapporre a quella serba, ma anche in senso culturale e folcloristico dovuto all’intensificazione dei rapporti culturali con l’Albania.
Sono stati cruciali gli anni ’70 quando venne riaperto a Pristina l’Istituto di Albanologia, che contribuì enormemente nell’educazione all’albanità, nell’istruzione nella propria lingua, e inaugurò la posizione di Tirana quale punto di riferimento indiscutibile da cui importare cultura albanese, mentre l’Albania “la terra madre” veniva definita “Piemonte degli albanesi”, un concetto preso a prestito dalla terminologia nazionalistica serba che voleva la Serbia “Piemonte degli slavi del sud”. Negli anni ’70 si aveva in Kosovo un’identificazione totalizzante con tanto di mitizzazione dell’irraggiungibile Albania, come terra a cui prima o poi bisognava annettersi, scaturita dalla superiorità culturale di Tirana rispetto a Pristina. A questo si aggiungeva un vuoto di conoscenze della realtà albanese dell’epoca, conosciuta attraverso le onde di Radio Tirana che riportavano delle fasulle strarealizzazioni dei piani quinquennali in Albania e di altri miracoli altrettanto fasulli del comunismo albanese, tanto da far sconfinare l’ammirazione dei kosovari per Enver Hoxha in un amore incondizionato del tutto ignaro della totale indifferenza del dittatore albanese nei confronti del Kosovo.
Gli stessi kosovari incominciarono a sentirsi una parte aggiuntiva dell’Albania, interiorizzando le massime del romanticismo albanese come parte della cultura nazionale.
Quando è stata standardizzata la lingua albanese basandosi sulla versione tosk, dell’Albania meridionale, anche in Kosovo essa è diventata subito la versione ufficiale, accolta acriticamente come la “lingua pura” e colta, quella della madrepatria che tutti devono parlare, nonostante fosse grammaticalmente e foneticamente piuttosto difficile per gli albanofoni del Kosovo. In quegli anni si incominciò a sforzarsi di parlare in tosk, tanto che i serbi kosovari che capivano l’albanese dicevano di non essere più in grado di capirlo perché gli albanesi non parlavano più come prima, ma parlavano come in Albania.
Negli anni ’70 si forma presso l'Istituto Albanologico quella corrente con a capo l’accademico Rexhep Qosja, da alcuni definita la Rilindja kosovara, che mirava all’unificazione del Kosovo con l’Albania. Le posizioni dell’albanofilia e della totale identificazione con l’Albania, con la bandiera albanese, il mito di Skanderbeg, e l’autoctonia di illirica memoria sono diventati slogan politici delle aspirazioni dei kosovari negli anni ’80 e ’90, sempre in funzione antiserba, contrapponendo l’Albania come Piemonte salvifico.
L’Albania del post muro però, che aprì al mondo tutta la desolazione accumulata in decenni di dittatura surreale, fu una delusione per i kosovari che trovarono un paese per niente simile a quello che avevano immaginato. I primi kosovari che pieni di aspettative rosee si recarono in Albania nei primi anni ’90 dicevano di aver trovato un paese estremamente povero con gente però molto più istruita rispetto agli albano-kosovari. Ma quello che si tradusse in uno choc irreversibile nei rapporti dei kosovari con l’Albania fu la crisi dei valori in cui versava tragicamente l’Albania post-comunista: quella tendenza di massa a distruggere radicalmente il passato che la scrittrice e giornalista croata Slavenka Drakulic (nel suo “Caffè europa”) definisce “effetto casamatta”.
In quegli anni si viveva in Albania un processo di derisione dei valori del comunismo tra cui anche l’amore per la patria che era stato insegnato con il tipico linguaggio revanscista da slogan comunisti, svuotati ormai di significato. Così i kosovari scoprirono che gli albanesi dell’Albania non amavano più la patria e tanto meno avevano qualche sentimento di conforto patriottico verso il Kosovo. Presso gli albanesi in Albania invece, del Kosovo non si aveva alcunché tipo di informazione se non il sapere che era una regione problematica, ma i primi contatti con i kosovari muniti di macchine private, e liberi di viaggiare nell’Europa tanto ambita dagli albanesi, aveva fatto sì che in Albania si diffondesse la convinzione ambigua che i kosovari fossero benestanti ma anche tradizionalisti, incivili e anacronisticamente nazionalisti. In seguito con l’esplosione della malavita e dei vari traffici che irruppero improvvisamente in Albania, ai kosovari venne attribuita la colpa di aver importato loro il crimine in un’Albania ingenua che non aveva neanche mezzi per orientarsi all’estero essendosi appena aperta al mondo.
Nacquero in tal modo una serie di pregiudizi che non facevano godere affatto di buona reputazione gli albano- kosovari in Albania. Una situazione del genere venne interpretata dagli intellettuali nazionalisti del Kosovo come costruita da misteriose forze esterne che manipolavano l’opinione pubblica in Albania, secondo loro da sempre dominata dalle minoranze etniche greche e slave o semplicemente dai tosk ortodossi e slavofili che portavano acqua al mulino dei vicini piuttosto che ai fratelli del Kosovo.
In realtà i lunghi anni di isolamento, e la stessa ideologia nazionalista albanese che si basava sul principio “Il sole dell’Albania sorge a occidente” avevano fatto sì che l’Albania avesse da sempre scarso interesse e conoscenze molto lacunose per tutto ciò che riguardava i Balcani mentre la concezione dell’Estero si proiettava e si proietta tuttora verso l’Italia e l’Europa Occidentale e in minor misura verso la Grecia, mentre la percezione del vicinato balcanico si limita ai luoghi di vacanza in Montenegro, in Macedonia e recentemente in Croazia.
Anche nei manuali di storia nelle scuole, viene data sempre priorità alla storia dell’Europa occidentale mentre i Balcani si studiano minimamente, facendo sì che tra gli albanesi, del Kosovo si sappia vagamente che è una regione albanese, abitata da sempre da albanesi, sin dai tempi degli Illiri, che poi è stata invasa dai serbi. Si spiega così anche la relativa mancanza di pregiudizi nei confronti dei vicini balcanici che stupisce sempre chi si reca in Albania con delle aspettative condizionate dagli schemi dei conflitti balcanici.
Un altro momento choc, dopo il quale gli albanesi da entrambe le parti del confine hanno avuto molto da ridire reciprocamente gli uni degli altri è stato il conflitto del ’99, quando i kosovari che fuggivano dalla guerra per trovare riparo in Albania, invece di un luogo sicuro trovarono un’Albania lacerata dalla crisi del ’97 dove la popolazione era in massa armata e di notte si sparava quasi come in Kosovo. Sono in molti in Kosovo a non avere un buon ricordo del periodo trascorso in Albania, oltre ad aver avuto a che fare direttamente con i pregiudizi di essere incivili e arretrati.
Il politologo di Prishtina Besnik Pula, denuncia nelle pagine del Java e in seguito nel libro “Kush asht kosovari?” (Chi è il kosovaro?) il fatto che in Albania i pregiudizi nei confronti dei kosovari sono molto diffusi e si avvertono in maniera abbastanza evidente. “I kosovari in Albania – scrive Pula - passano per essere contrabbandieri, incivili e che parlano un albanese sgrammaticato che manca di eleganza”. Quello che molto a lungo ha profondamente offeso gli albano-kosovari è la distinzione che in Albania si fa tra albanesi e kosovari, dove gli originari dell’Albania vengono chiamati albanesi, mentre quelli del kosovo, semplicemente kosovari, sottintendendo di essere considerati diversi rispetto agli albanesi di Albania, e quasi di non essere considerati albanesi, ma qualcosa di estraneo all’albanità.
La stigmatizzazione degli albano-kosovari in Albania ha stimolato nella classe urbana del Kosovo una risposta altrettanto stigmatizzante degli albanesi in Albania, cui si rivolge con disprezzo: “Quelli dell’Albania”, che oltre a non essere dei “buoni albanesi” come sostiene l’ala più nazionalista degli albano-kosovari, “non sono maturi per avere un proprio stato”, sottintendendo che i kosovari lo siano, ponendo una netta distinzione tra il “noi” e “loro” pur non compromettendo l’albanità.
Gli intellettuali kosovari più critici come Migjen Kelmendi e altri ritengono che l’identità kosovara specie presso la classe urbana della società, esiste da molto tempo però costituisce un elemento tabù, che può compromettere l’albanità del Kosovo, e l’indipendenza che promettono tutti i partiti politici e tutti gli intellettuali, ma è anche un argomento su cui si tace per non far avvicinare la questione al vecchio concetto serbo secondo cui gli albanesi in Kosovo sono diversi rispetto a quelli in Albania, i primi sono Siptari, mentre i secondi sono Albanci. Mentre nei discorsi pubblici l’identificazione con l’albanità come una categoria che ha per centro Tirana, e il coltivare romanticamente il culto dell’Albania rimane parte di quello che è politicamente corretto.
Si nota nel Kosovo del dopo ’99 una netta razionalizzazione anche dell’idea dell’unificazione con l’Albania. Nei minisondaggi condotti saltuariamente dai media kosovari la percentuale di coloro che optano per l’unione con l’Albania è sempre più bassa, sino ad arrivare al di sotto del 30%. Si sottolinea come non ci si capisca con gli albanesi di Albania, che sono diversi, o che l’Albania non è un paese stabile. Mentre in Albania un sondaggio del genere non è stato neanche proposto, è molto diffusa l’idea che il Kosovo e l’Albania abbiano problematiche diverse, siano culturalmente diversi e che l’unione tra i due non gioverebbe a nessuno, rallenterebbe piuttosto il cammino già molto faticoso dell’Albania verso i traguardi euro-atlantici, facendo del Kosovo solo un peso in più da portare addosso.
Ma si nota anche un cambiamento di visioni persino dell’ala più nazionalista degli intellettuali kosovari che hanno moderato le proprie opinioni passando da un’auspicabile unificazione delle terre albanesi alla proposta seppur unilaterale di una federazione con l’Albania. La stessa classe politica non opta più per la versione dell’unificazione, e i pochi partiti che hanno immesso nei propri programmi tale ambizione, hanno accolto scarso consenso nell’elettorato.
Rimangono tuttora fedeli alla grande Albania solo i veterani dell’UCK, che ogni tanto si pronunciano per la stampa kosovara minacciando di unirsi all’Albania. L’intellettuale Shkelzen Maliqi ritiene che è evidente che il Kosovo finirebbe per diventare una provincia settentrionale emarginata e bistrattata dal centro albanese, quindi si necessiterebbe di costruire un’entità in cui l’Albania e il Kosovo fossero membri di pari diritti. “Oggi in Albania non si ha alcun interesse per il Kosovo – partecipa al dibattito Maliqi - gli albanesi in Albania si credono superiori, e disprezzano ogni prodotto culturale kosovaro. Nei festival internazionali di teatro per esempio in Albania non manca mai la Serbia, il Kosovo invece viene invitato molto di rado, viene percepito come provinciale dai criteri artistici romantici che hanno fatto il loro tempo in Albania.”
Pur riconoscendo la linea politica dell’Albania disposta ad aprirsi a tutti i Balcani, Kosovo incluso, in un senso economico-europeista, Maliqi ritiene che prima o poi ci sarà una federazione tra l’Albania e il Kosovo, che passerà però dall’eliminazione dello status di regione di serie B del Kosovo, partendo ad esempio dalla tanto discussa correzione del tosk con elementi gheg per renderlo facilmente accessibile anche ai kosovari. Sembra si voglia creare così un “esperanto” su base albanese che difficilmente riuscirebbe agibile a qualcuna delle parti. Il concetto di federazione in Albania invece sembra del tutto fuori discussione, improduttivo e anacronistico e ricorda agli albanesi i complessi claustrofobici del passato e il rischio di un auto-isolamento in un mondo albano-centrico, da cui si cerca di fuggire con tutti i mezzi possibili dalla caduta del comunismo.
L’affermazione dell’identità del Kosovo, traspare tra l’altro anche tra i più nazionalisti, che non vogliono rinunciare all’inno e alla bandiera albanese, proponendo di innalzare questi simboli a valenza pan-albanese e far adottare persino all’Albania un inno e una bandiera diversa dall’attuale, volendo equiparare tutti gli albanesi, creando un multi-centrismo che non veda il Kosovo inferiore davanti all’arroganza di Tirana. Mentre vi sono anche altri intellettuali nazionalisti che afflitti dall’indifferenza di Tirana, propongono la svalutazione di Tirana, dato che lì nessuno vuole la grande Albania, e spostare il “Piemonte albanese” verso Pristina.
Che si esponga in termini realistici o meno, il fatto reso estremamente visibile oggi, è l’esistenza di un’identità kosovara, che prescinde dalla categorizzazione etnica, maturata nel corso degli anni dai processi storico-politici dell’ultimo secolo. Gli scarsi rapporti nel passato e nel presente tra l’Albania e il Kosovo, i diversi percorsi storici subiti, gli orientamenti politico-culturali altrettanto diversi, hanno fatto sì che si creino due identità diverse, incompatibili con la staticità della visione romantica della nazione albanese. Con il venir meno dell’elemento esterno - la pressione serba - che spingeva verso l’albanità mistificata, sta venendo a galla la legittima percezione dell’identità kosovara, che al di là dei rancori e dei complessi storici verso l’Albania sta cercando di assumere una dimensione autosufficiente che dia al Kosovo un futuro dignitoso nell’assetto balcanico.