La TV Klan, una delle più seguite in Albania, ha trasmesso per alcune settimane il programma in prima serata "Le canzoni del secolo. Una trasmissione molto seguita, durante la quale venivano presentate le canzoni più in voga dell'epoca comunista, per la maggior parte riguardanti la propaganda di quel periodo. Quello che segue è il commento del noto intellettuale albanese Fatos Lubonja.
Di Fatos Lubonja, 16 dicembre 2007, Korrieri (tit. orig. Biznesi banal me nostaligjinë e komunizmit)
Traduzione per Osservatorio sui Balcani: Marjola Rukaj
Martedì scorso ho seguito con interesse la trasmissione di Keli (diminutivo del giornalista Enkel Demi) in cui c’erano anche gli organizzatori della trasmissione “Le 100 canzoni del secolo”. Ho notato che Demi, mentre rivolgeva le sue domande agli organizzatori non riusciva a nascondere la preoccupazione sul fatto che la maggior parte di quelle canzoni fossero quelle della propaganda social-realista e che il loro riciclo è un fenomeno che non dev’essere preso con la leggerezza con cui il regista Pandi Laço e i suoi collaboratori hanno riportato queste canzoni alla ribalta. E non sembrava neanche convinto che quelle canzoni meritassero il titolo pomposo di “Le canzoni del secolo”. La stessa preoccupazione ma in modo molto più grezzo me l’aveva espressa qualche tempo fa un mio amico, ex detenuto politico, che mi ha chiamato per dirmi indignato: “ma cosa stanno facendo… Con queste canzoni è stato fatto il lavaggio del cervello alla gente durante il regime, mentre a noi, là in prigione, ci torturavano facendocele ascoltare dalla mattina alla sera!”.
Alle domande di Demi il regista Pandi Laço e gli altri invitati hanno cercato di rispondere spiegando a modo loro ciò che intendevano trasmettere con queste canzoni. Secondo Laço è stato fatto un ottimo lavoro, perché si è contribuito a conservare canzoni che stavano andando perdute. Quindi un lavoro di archiviazione, diciamo. “Come la galleria delle Arti che conserva i quadri e le sculture del social-realismo” – ha detto uno degli invitati sostenendo Laço. Ma chiunque abbia un po’ di senno sa che tra l’archiviazione e la grande festa televisiva in cui si è trasformata la trasmissione c’è una bella differenza.
Le canzoni non sono state ritrasmesse così come erano state registrate in passato, lasciando magari spazio all’analisi critica, ma sono state cantate con tanto di pathos da cantanti giovani e anziani in versioni rivisitate. La serie delle trasmissioni di Laço è stata pubblicizzata su TV Klan con toni enfatici. Inoltre, come poi è stato confessato nella trasmissione, gli organizzatori avevano ritoccato delle parti dei testi per far sì che non suonassero proprio come nell’originale: ad esempio al posto di “partia” (partito) si è scoperto che avevano messo “rinia” (la gioventù) e non avevano incluso nel repertorio le canzoni dedicate al compagno Enver, mentre la pretesa conservazione avrebbe dovuto includere anche quelle. Quindi dire che si tratta di una questione di archiviazione e di conservazione equivale a mentire grossolanamente.
Ma gli stessi produttori dello spettacolo non hanno esitato a smentire l’idea dell’archiviazione, quando, nel tentativo di legittimare il fatto che queste canzoni vengano tuttora cantate, hanno menzionato il caso di “Bella Ciao” in Italia o delle canzoni su Che Guevara. Hanno detto: perché noi non dobbiamo cantare le nostre canzoni di quell’epoca se in Italia tuttora si canta “Bella Ciao”, e in America Latina e altrove tuttora si canta al comandante Che Guevara? Quindi neanche loro sono stati in grado di negare che si tratta di riciclo. E questo, a mio avviso, merita di essere analizzato seriamente.
Non sono assolutamente dell’idea che queste canzoni debbano essere distrutte o non debbano essere ascoltate. Bisogna invece conservarle e ascoltarle (nel modo in cui sono state cantate originariamente) perché aiutano a capire quell’epoca. Bisogna conservarle e ascoltarle anche per studiare le diverse fasi di quell’epoca, perché anche attraverso le canzoni si possono distinguere, grazie ai cambiamenti dei testi e delle musiche, i vari momenti della dittatura e della propaganda social-realista. Naturalmente bisogna che anche i musicologi di vari ambiti e di vari generi musicali le studino. Vi sono molte ragioni per cui bisogna conservarle ed ascoltarle. Ma il fatto che vengano cantate, che vengano rivisitate, e che vengano reinterpretate da giovani cantanti, come hanno fatto Laço e i suoi collaboratori, e che si definiscano “Le canzoni del secolo” mi sembra tutt’altra cosa, e non la condivido per niente. Trovo che sia un fenomeno che va esaminato con molta preoccupazione. Vorrei presentare alcune delle mie argomentazioni senza pretendere di esaurire un tale fenomeno, del quale, ripeto, bisogna che ci si occupi seriamente.
Innanzitutto, bisogna chiarire che quelli che cantano tuttora “Bella ciao” in Italia si identificano ancora con quella canzone. Anche il giornalista Enzo Biagi, morto di recente, aveva chiesto prima di morire, che al suo funerale venisse cantata “Bella Ciao”, e così è stato. Anche quelli che cantano e ricantano le canzoni del “Che” vi si identificano, perché credono nel mito del rivoluzionario che è morto per un ideale. Mentre i nostri produttori non ci hanno detto se pensano che dobbiamo identificarci con quelle canzoni o meno. O meglio, se noi ci identifichiamo con quelle canzoni o meno. O quantomeno chi vi si identifica. Chi si potrebbe identificare oggi con la canzone “Le nostre compagne illegali” (Shoqet tona ilegale), che qualcuno ha detto che è una canzone partigiana che noi non abbiamo rigettato.
In realtà canzoni come questa, o come la canzone “Baballarët” (I padri) sono state canzoni prodotte molto più tardi, non al tempo della Seconda Guerra Mondiale, bensì in tempi più recenti per coltivare ulteriormente il culto delle compagne (come la compagna Nexhmije) e dei compagni (come il compagno Enver), capi del partito che nel nome della Seconda Guerra Mondiale hanno represso e disumanizzato un intero popolo per ben 45 anni. Per questo motivo, la maggior parte della gente si rifiuta di cantarle e di ascoltarle così come rifiutarono di cantarle e di ascoltarle all’epoca. Erano canzoni che gli venivano imposte attraverso la propaganda. Il solo fatto che quelle canzoni abbiano accompagnato con le loro note la marcia dei malvagi sul popolo albanese, è una ragione più che sufficiente per non cantarle.
Inoltre, bisogna dire che queste canzoni, artisticamente, nella maggior parte dei casi sono di pessimo gusto. Il loro contenuto sia musicale, sia dei testi, ha poco o niente a che fare con i veri sentimenti umani e tanto meno con i sentimenti degli albanesi dell’epoca, e ancor meno con la musica dell’epoca in cui sono state create. Poi l’eliminazione di qualche parola come “partia” (partito) o “Enver” non cambia granché il loro contenuto e non diminuisce per niente l’atmosfera festosa ingannevole e l’ottimismo che si cercava di suscitare tra la gente, nell’ambito della propaganda da lavaggio del cervello, mentre la realtà era desolante. Il fatto che a una parte della gente piacciano perché è cresciuta con quelle canzoni e per associazione gli ricorda il tempo in cui gli riempivano la testa dalla mattina alla sera, dimostra che questa gente è rimasta con un pessimo gusto. Ma ribadisco che la parte più sana e più colta della nostra società non ha ascoltato quelle canzoni e non ha ballato al loro ritmo nelle serate intime, perché non vi si identificava, anzi tutt’altro.
Secondo i produttori, però, lo spettacolo è stato un successo. Non lo escludo, nonostante non possa giudicarlo complessivamente perché non l’ho seguito. Mentre passavo da un canale all’altro, quando trovavo “Le canzoni del secolo” non mi ci fermavo. Ma non posso negare che sono rimasto inchiodato per un attimo quando ho visto che lo spettacolo è stato concluso con i nostri cantanti giovani e anziani, che hanno cantato passandosi il microfono a turno, la canzone preferita del compagno Enver “Për ty Atdhé” (Per te patria). Si è detto che è la canzone cantata dal grande Mentor Xhemali, ma non si è detto che era la canzone preferita dal dittatore, un inno all’ideologia nazional-comunista del potere di Enver Hoxha, che, falsamente in nome della patria che resisteva “come masso di granito gigante contro ogni tempesta”, l’ha invece isolata e massacrata all’inverosimile. E il destino di questo “gigante” l’abbiamo visto, e continuiamo a vederlo tutti i giorni.
Ovviamente grazie alle TV che le pubblicizzano tutto il giorno, queste canzoni possono anche avere successo, ma un tale successo, che spero non sia rilevante, è drammatico per ciò che ci dimostra e per le sue conseguenze. Perché questo successo è molto simile al “successo” che quelle canzoni ebbero ai tempi in cui avevamo una sola televisione e una sola radio che trasmettevano solo quelle canzoni con lo scopo di fare il lavaggio del cervello a chi le ascoltava.
Questo successo quindi è il risultato di un nuovo tipo di lavaggio del cervello che non è difficile definire. L’ha espresso uno dei produttori dello spettacolo. Quando il giornalista Demi gli ha chiesto come andavano le vendite dei CD delle canzoni del secolo, il produttore gli ha risposto che stavano andando benissimo, a comprarli sono più gli anziani quindi i nostalgici di quell’epoca ma, secondo lui, anche i giovani le stanno inserendo nelle discoteche. In breve, tutta questa storia, a mio avviso, è una commercializzazione banale della nostalgia. Nella nostra competizione tra l’arricchimento di alcuni e lo strapazzarsi per sopravvivere della maggioranza, anche quelle canzoni, anche la nostalgia, sono viste semplicemente come merce che procura guadagno.
Abbiamo a che fare con una delle forme più brutte di quello che Stiglitz definiva “il fondamentalismo del mercato”, del guadagno come unica misura e peso di qualsiasi cosa. Naturalmente nella vita della gente di quell’epoca, vi sono stati anche episodi personali felici che molti ricordano con nostalgia. Non si può negare che la nostalgia come fenomeno psicologico sia qualcosa di molto complesso. Non manca mai neanche quando si tratta dei periodi più bui. Ho anche scritto un saggio dal titolo “La nostalgia dell’amarezza” (Nostalgjia e hidhërimit) dove cerco di spiegare che l’uomo ha nostalgia anche per il luogo più orrendo in cui è vissuto, la prigione, perché dopo tutto anche lì ha provato delle emozioni.
Sembra che partendo da questo fenomeno complesso gli autori dello spettacolo abbiano pensato con leggerezza di riciclare queste canzoni. Dico con leggerezza perché si sono dimenticati o forse non sanno che una persona seria che rivisita un passato come la nostra dittatura, oltre alla nostalgia bisogna che abbia anche un atteggiamento critico, con indignazione e senso di condanna. Anzi queste considerazioni dovrebbero essere dominanti. Vi si ritorna anche con l’idea che questi messaggi vanno trasmessi ai giovani che devono conoscere un’epoca per la quale non hanno alcun tipo di nostalgia dato che non l’hanno vissuta, per fare in modo che non vengano ripetuti gli errori delle generazioni precedenti. Mentre una nostalgia per quell’epoca, senza uno sguardo critico, senza un sentimento di empatia per le vittime dell’epoca, senza pentimenti e il dovuto senso di giustizia, possono averla solo i peggiori boia dell’epoca, quelli che sono rimasti allo stato di lavaggio di cervello e che sono disumanizzati.
E purtroppo il pathos con cui sono state cantate le canzoni del secolo, dimostra che tra di noi di disumanizzati ve ne sono ancora parecchi. Non penso che Laço e i suoi collaboratori abbiano realizzato lo spettacolo perché sono cripto-comunisti e perché provano simpatie per l’epoca e per i suoi boia, non credo nemmeno che mirino ad aumentare i voti dei nostalgici del PS, ma penso che lo zelo nostalgico-commerciale con cui è stata pubblicizzata questa serie di spettacoli, e il pathos con cui cantavano i cantanti, sia scioccante, perché mi ha fatto capire quanto poco abbiamo riflettuto su quell’epoca, facendomeli vedere simili ai boia di quel tempo.
Ma questo fenomeno dimostra anche qualcos’altro di più importante, come l’altra parte della medaglia di una mancata riflessione sul passato, e forse ne è proprio un risultato. Dimostra un enorme vuoto spirituale del nostro tempo. Anche la maggior parte della musica che si produce oggi è molto banale. Anche questo tipo di musica non fa parte di quello che si ascolta tra intimi, perché non corrisponde ai bisogni spirituali. Anche la musica che noi produciamo oggi, è destinata a una maggioranza di incolti cui è stato fatto il lavaggio del cervello, non nel nome del cooperativismo, ma in nome del guadagno. Abbiamo a che fare con due estremi compatibili. Quindi direi che il culto del denaro come unico valore, unico indicatore di status che predomina nella nostra società rinsecchendo spiritualmente la società, paradossalmente ci riporta al tempo dell’anti-denaro. La commercializzazione di pessime canzoni che servivano il male deriva dal fatto che non riusciamo a produrne di buone, perché davvero siamo spiritualmente poveri.