In un toccante incontro alla Narodni Dom, la Casa della Cultura slovena nel cuore di Trieste, il bambino che vide coi suoi occhi quello stesso palazzo bruciare in un incendio appiccato dai fascisti, è tornato, 95enne, per essere applaudito e acclamato dai suoi concittadini, dopo il successo nazionale della traduzione italiana di
Necropoli, il romanzo con cui nel 1964 si narrò come prigioniero politico, deportato e reduce da un campo di sterminio.
Con un ritardo di oltre 40 anni, la città di Trieste si è accorta di avere tra i suoi residenti autoctoni un grande scrittore europeo: lo sloveno Boris Pahor, autore dell’evento letterario del momento. Così, nel pomeriggio di venerdì scorso, un pubblico numeroso e calorosissimo era pronto, finalmente, ad accogliere quel “piccolo signore triestino”, come lui ama definirsi, in un appuntamento organizzato dalla rivista
Konrad e dall’Università di Trieste, presso quello che fu l’Hotel Balkan.
Segnalato più volte all’Accademia di Svezia che assegna il Nobel per la Letteratura, insignito nel 1992 del Premio Prešeren, il massimo riconoscimento letterario sloveno, nel 2007 Boris Pahor ha anche ricevuto la Legion d’Onore da parte del Presidente della Repubblica francese. I suoi libri sono stati tradotti finora in tedesco, francese, spagnolo, catalano, serbo-croato, finlandese e inglese. Una prima edizione di
Necropoli in lingua italiana era stata pubblicata nel 1997 dal locale “Consorzio Culturale del Monfalconese”, nel quadro di un concorso per traduzioni di opere letterarie slovene in italiano.
Ma è adesso, grazie alla diffusione in tutt’Italia del suo romanzo più emblematico mediante l’editore Fazi (ispirato nella scelta dal responsabile di cultura del quotidiano “Il Piccolo” di Trieste, Alessandro Mezzena Lona); grazie alla presentazione di
Necropoli in una puntata della trasmissione CheTempoCheFa di Fabio Fazio su Rai Tre e la conseguente scalata delle classifiche dei bestsellers; grazie infine alla prefazione firmata da Claudio Magris e alla recensione su
La Repubblica scritta da Paolo Rumiz: è adesso che Boris Pahor trova la collocazione che si merita anche nella sua Trieste.
Trieste, infatti, è la città dove è nato e cresciuto, e dove è vissuto tutta la sua vita, eccettuato il periodo che da adolescente, per sfuggire ai soprusi del fascismo, trascorse al seminario di Capodistria: qui, accanto ad altri studenti sloveni e croati provenienti da tutta la Venezia Giulia poté apprendere il valore della sua diversità e l’importanza dell’impegno politico e intellettuale per la libera espressione della propria identità, trovando risposta alla inquietante domanda che si era posto durante l’infanzia: «vogliono distruggerci: ma perché?».
Ed eccettuato naturalmente il periodo passato all’interno di diversi campi di sterminio e soprattutto nel lager nazista di Natzweiler-Struthof, dove finì a causa di un collaborazionista sloveno che aveva fatto il suo nome alla Gestapo, e dove transitò dalla Resistenza che aveva condotto tramite la lotta antifascista a un’accanita resistenza individuale, percorso di intransigente opposizione all’ingiustizia del male, fino a uscire vivo dall’abisso più profondo dell’inferno, pur mantenendo un inconsolabile senso di colpa nei confronti di chi invece non è sopravvissuto.
A colloquio con i triestini, Boris Pahor ha rievocato episodi e immagini che ricorrono lungo tutta la sua prosa autobiografica, come il fumo dei falò che incenerivano i libri in sloveno per le strade della città; la paura delle camicie nere che inneggiavano davanti alla Narodni Dom, a pochi metri da casa sua; l’angoscia della proibizione di parlare la lingua materna per strada; la punizione traumatica a cui assistì quando una sua compagna di classe venne tirata per le orecchie dal maestro e appesa con le trecce all’attaccapanni per aver pronunciato mezza parola in sloveno durante l’intervallo; l’umiliazione e la derisione subita a scuola in prima persona per l’insufficiente conoscenza dell’italiano, emersa leggendo a voce alta un compito svolto a casa con l’aiuto del padre.
«Per me Trieste è stata una città amata e amara: purtroppo nella mia esperienza queste due espressioni vanno insieme. Spero che, a partire da adesso, amara non lo sia più. Forse io non vivrò direttamente la bellezza di una comunità sloveno-italiana a Trieste... in fondo ci sono ancora gli scalmanati che continuano a usare la parola “s’ciavo” per riferirsi agli sloveni. Ma l’accoglienza che ricevo oggi qui è un segno che voglio leggere come l’auspicio che Trieste torni a essere una città europea e letteraria. Noi sloveni siamo i primi a voler riconoscere questo cambiamento», ha affermato lo scrittore che, con la sua vitalità sorprendente e l’umorismo di uno spirito che non si è mai arreso, ha ribadito la necessità di una convivenza che diventi fruttuosa: «È una ricchezza essere insieme e comprendersi. Qui la questione è che la parte italiana non sa lo sloveno. Ma non è mica colpa di noi sloveni se gli italiani non sanno la nostra lingua: siamo qui da 12 secoli, e in 12 secoli avrebbero anche potuto impararla! Così, se sull’autobus ci sono quattro sloveni che scambiano due chiacchiere, gli italiani che sono accanto e ascoltano non se ne starebbero lì senza capire un’acca!».
Come ha rimarcato il redattore di
Konrad Walter Chiereghin, «l’indifferenza con la quale la cultura di lingua italiana a Trieste guardava a quanto avveniva in ambito sloveno ha perpetuato quella separatezza che le ha impedito di riconoscere per decenni in
Necropoli il più importante libro scritto a Trieste nella seconda metà del Novecento».
Emblematica nel romanzo di Boris Pahor è la figura di Gabriele Foschiatti, italiano di Trieste e membro del Partito d’Azione, rinchiuso con lui nel campo di concentramento: lo scrittore sloveno ricorda di aver riconosciuto subito in lui il volto di un triestino e scrive che
faceva progetti democratici e parlava di future relazioni di buon vicinato nei nostri territori costieri, ma racconta anche di averlo ascoltato sempre con perplessità e scetticismo, e di essersi chiesto: “Ma bisogna venire proprio davanti ai forni crematori per fare amicizia?”.
Dopo il ritorno a Trieste, Boris Pahor seppe che il suo compagno di disgrazia, prima della prigionia, aveva svolto un’attività davvero intensa in seno al Comitato di Liberazione Nazionale e che Gabriele Foschiatti aveva stilato un programma completo dedicato a come risolvere il problema delle minoranze dopo la guerra, indicando la necessità di un controllo europeo sull’attuazione delle leggi dei singoli stati.
Adesso che da noi né confini né fili spinati separano più sloveni da italiani, o uomini qualsiasi dal resto dell’umanità, sono le persone come quell’italiano e questo sloveno che possono restituire a Trieste la sua vera vocazione di comunità eterogenea sovranazionale e di città aperta alla moderna Europa.
Scampato all’olocausto, Boris Pahor insegnò lettere italiane e slovene a Trieste, elaborò la sua esperienza di dolore attraverso la scrittura e continuò la sua indagine sulla storia del tormentato secolo che gli è toccato di vivere, senza rinunciare ai propri interrogativi.
Nel 1975 gli fu interdetto l’ingresso in Jugoslavia per un anno, a causa della sua intervista a Edvard Kocbek, che svelò la sorte di 12.000 miliziani anticomunisti sloveni e civili uccisi dopo la fine della seconda guerra mondiale nel Kočevski Rog.
Davanti all’imperioso dovere di non dimenticare, una delle proposte di Boris Pahor è che la Risiera di San Sabba, cupo monumento che testimonia come l’olocausto sia passato anche per Trieste, da museo nazionale qual’è tuttora, diventi in futuro la sede di una fondazione a ricordo di tutti deportati politici europei, appartenenti a tutte le nazionalità e le idee, che perirono per aver militato a favore della libertà.