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mercoledì 07 settembre 2022 15:46

 

La difficile convivenza

04.04.2008    scrive Michele Nardelli

Proteste a Mitrovica (foto. T. Lazarevic)
In Kosovo arrivano i funzionari europei della missione EULEX ... e non sanno che fare. Non è infatti scontato che la missione dell'Onu UNMIK venga smantellata e lasci loro il posto. Un editoriale pubblicato in contemporanea da Osservatorio e dal periodico Vita
L’esito di una soluzione non negoziale della vicenda relativa allo status del Kosovo non sarà una nuova guerra. Spero di non sbagliarmi, ma né il governo di Belgrado, malgrado le elezioni anticipate e l’atteggiamento poco responsabile di Kostunica, né quello di Pristina, hanno alcun interesse a far scatenare un nuovo conflitto armato e a scrivere un nuovo tragico capitolo nell’interminabile deflagrazione jugoslava.

Ciò non esclude che esplosioni di violenza come quella intorno al Tribunale di Mitrovica nord non possano ripetersi, con il rischio di incendiare un contesto tanto fragile quanto esasperato. Ma, per quanto gravi, è probabile che siano destinate a rimanere soltanto episodi.

Il che non ci esime dal valutare la gravità delle conseguenze che una gestione per certi versi cinica, per altri poco accorta della “questione Kosovo” da parte della comunità internazionale possono lasciare dietro di sé, a discapito della pace e della sicurezza nell’insieme della regione balcanica.

Non parlo solo dell’“effetto domino”, ovvero del possibile proliferare di nuovi confini lungo le innumerevoli faglie nazionali che lo sgretolarsi dei blocchi e degli imperi porta con sé, ma anche dell’impasse del diritto internazionale stiracchiato fra sovranità e autodeterminazione, fra sistema delle Nazioni Unite e grandi potenze.

Secondo il Piano Ahtisaari, Unmik (l’amministrazione internazionale del Kosovo) avrebbe dovuto lasciare progressivamente il posto alle istituzioni locali, affiancate da una nuova missione dell’Unione Europea (European Stability and Defence Policy) a tutela dello stato di diritto. In questo quadro è stato varato il programma Eulex, una grande operazione ricca di uomini e mezzi (già stanziati 205 milioni di euro, ma la cifra complessiva sarà non meno di un miliardo di euro) che – nei fatti, ma non nelle intenzioni del Piano che invece prevedeva il raggiungimento di un accordo fra le parti – dovrebbe accompagnare la nascita del nuovo stato indipendente proclamato il 17 febbraio scorso.

Ma mentre la missione Unmik traeva origine dalla Risoluzione 1244 della Nazioni Unite, Eulex non ha alcuna legittimità internazionale non essendo riconosciuta né dell’ONU, né della Serbia.
Non si tratta affatto di una formalità. Questa situazione sta diventando in questi giorni tragicomica, con i funzionari di Eulex che non sanno dove acquartierarsi visto che Unmik non ritiene affatto esaurito il proprio mandato. Il grosso del dispiegamento dovrebbe avvenire su un arco temporale di 120 giorni ma regna una grande incertezza perché Unmik – secondo autorevoli fonti – ha rifinanziato la propria missione. Ban Ki-moon si ritrova così fra l’incudine e il martello, la legalità di un mandato e il dato di fatto di un paese diventato indipendente non grazie ad un accordo fra le parti bensì con una scelta unilaterale quand’anche riconosciuta dalle maggiori potenze occidentali. Con crescente imbarazzo di tutti, tanto che in molti cominciano a capire con quanta superficialità si sia proceduto nel riconoscimento di una soluzione non negoziale.

Una situazione farsesca se non fosse che si sta giocando col fuoco, fra ingenti forniture militari da parte degli USA per il costruendo esercito del Kosovo (la “Forza di Sicurezza del Kosovo” professionale di duemilacinquecento elementi che a quanto si dice saranno addestrati nel “Villaggio Italia” da parte del contingente italiano della Kfor), la frustrazione di un paese come la Serbia che ancora vive nell’incubo del complotto internazionale e vede sfumare la prospettiva europea, la paura delle minoranze che si sentono in pericolo e il probabile disincanto di un paese che nonostante il mare di denaro internazionale si accorgerà presto che le proprie difficoltà (come ad esempio il deficit energetico e la corrente elettrica va e viene in continuazione) non dipendevano certo dall’incertezza dello status.

L’esplosione della violenza a Mitrovica è avvenuta intorno all’occupazione del Tribunale, per i serbi del Kosovo una sorta di baluardo a difesa della propria appartenenza nazionale. Quasi una prova di separazione territoriale, che ha messo in difficoltà le stesse enclave serbe in territorio kosovaro che dalla secessione di Mitrovica si troverebbero oltremodo isolate e i responsabili di Kfor e Unmik che si sono trovati a gestire (male) una situazione di forte tensione fra indicazioni contraddittorie. Il fatto è che il Tribunale rappresenta solo una delle molte spine che avrebbero dovuto essere normate da un accordo fra le parti come prevedeva il Piano Ahtisaari: dalla polizia locale al ruolo dei nuovi municipi, dalla tutela del patrimonio culturale alle proprietà della Repubblica di Serbia in Kosovo e così via.

Le conseguenze di una soluzione unilaterale aprono una serie infinita di contenziosi che richiamano in causa il diritto internazionale proprio nel momento in cui questo è sotto il fuoco incrociato delle parti e violato dalla logica della forza. Ed aprono una contraddizione profonda fra le stesse istanze internazionali presenti in Kosovo, espressione di soggetti e di linee che appaiono sempre più divaricanti: in primo luogo quella fra Kfor e Unmik, ovvero fra Nato e Nazioni Unite, ma anche fra Unmik e Eulex. Lasciando intravedere uno scenario di instabilità permanente.

Un bel pasticcio? Più semplicemente il venire a galla di una contraddizione che trae origine proprio dal pretestuoso fallimento delle trattative di pace di Rambouillet e dal conseguente intervento militare del 1999. In altre parole dall’intervento a gamba tesa degli Stati Uniti ai danni dell’Unione Europea.

Stiamo parlando del Kosovo, di una regione grande come l’Abruzzo, la cui importanza va al di là del conflitto serbo-albanese e delle istanze che le parti rappresentano. In Kosovo si gioca una partita che investe l’Europa, il progetto politico unitario che esprime, il suo ruolo internazionale, l’euro come moneta che sta progressivamente soppiantando il dollaro nelle transazioni internazionali e che contribuisce all’acuirsi della crisi economica degli Stati Uniti, il prendere corpo di un soggetto forte anche sul piano militare che rende oltremodo anacronistica l’esistenza della Nato.

Insomma, il Kosovo è al centro di una partita in cui i contendenti non sono altro che le comparse di uno scenario ben più complesso e inquietante. Sarebbe quanto meno opportuno accorgersene.
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