La periferia è veramente periferia? È il quesito al quale Tatjana Rojc intende dare soluzione nel suo
Le lettere slovene dalle origini all’età contemporanea, una storia della letteratura slovena in italiano che è l’opportuno aggiornamento, a quasi 40 anni di distanza, dell’ultimo testo disponibile in Italia sull’argomento:
Le letterature della Jugoslavia di Bruno Meriggi (1970), dove quella slovena costituiva un capitolo interno alla storia della letteratura jugoslava.
“Con questo libro non ho voluto fare un mero elenco di autori – spiega la studiosa, docente di lingua e letteratura slovena a Trieste – bensì ragionare su ciò che oggi nel dipartimento storico, letterario e critico sloveno viene spesso ritenuto marginale, ma che è invece affascinante per chi come me vive appunto ai margini della centralità nazionale”.
Lungo tutto il Novecento, e in questo primo scorcio del ventunesimo secolo, la letteratura della Slovenia ha avuto l’apporto di grandi personalità originarie anche del suo territorio occidentale, il Litorale, e gli scrittori sloveni più conosciuti all’estero sono isontini e giuliani: Srečko Kosovel, Vladimir Bartol, Ciril Kosmač... tanto da far parlare nelle riviste letterarie francesi di una ‘scuola slovena triestina’, prendendo per capitale di questo piccolo mondo proprio Trieste. Ciò nonostante però, gli autori sloveni, pur essendo lo sloveno una delle lingue ufficiali nella Repubblica Italiana, non sono riusciti a imporsi presso i grandi editori italiani, se non nei casi eccezionali e recentissimi di Drago Jančar e Boris Pahor, a differenza di quanto è successo con autori di altre lingue slave.
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Le Lettere Slovene – svela l’autrice – è un libro espressamente rivolto al pubblico di lingua italiana. Lavorando a stretto contatto col mondo italiano, che scopriva con sempre maggior entusiasmo qualche piccolo tassello del grande mosaico letterario sloveno attraverso l’esiguo numero di traduzioni comparse nell’ultimo decennio, mi si è palesata la lacuna di un testo che cercasse di tracciare le coordinate linguistiche, storiche e letterarie degli sloveni. Con questo progetto, divenuto esigenza mia personale, ho voluto far partecipi coloro che non conoscono la lingua slovena della straordinarietà di questa letteratura, del cui valore non possiamo che stupirci. Che questo volume sia dunque un primo passo di avvicinamento verso la storia degli Sloveni, nazione vicina e sconosciuta”.
Tatjana Rojc, autrice di trasmissioni radiofoniche di carattere storico-letterario per la RAI, collaboratrice di riviste e giornali italiani e sloveni, è molto apprezzata per il suo lavoro di comparatista e nel volume
Pogledi na nove razsežnosti slovenskega pesništva od Prešerna do Kosovela del 2005 ha sviluppato tesi inedite sul raffronto degli autori sloveni con la cultura italiana.
Tatjana Rojc, Le Lettere Slovene dalle origini all’età contemporanea, Goriška Mohorjeva družba, Gorizia 2005, Prefazione di Cristina Benussi, 260 pagine, 16 €
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“Ho voluto rapportare le ‘mie lettere slovene’ con la letteratura italiana – prosegue la ricercatrice – non solo perché questa è la ‘mia seconda letteratura’, ma anche perché sono convinta che ci sia tra le due letterature, così come tra esse e le altre letterature europee, un pensiero unitario, da Omero fino al XX secolo: i grandi scrittori hanno un contatto continuo tra loro e si parlano attraverso i secoli e le lingue. Purtroppo, pensare oggi a una comparazione in letteratura tra mondo slavo, latino e germanico è quasi impossibile: il confine che, anche se caduto, secondo me ancora esiste, dovrebbe essere non limite ma piuttosto tramite per una reciproca maggiore consapevolezza, e il confronto non va visto come una contrapposizione tra due mondi diversi bensì come un confluire di correnti di pensiero in uno stesso modo di intendere la letteratura, indipendentemente dalla lingua con cui essa è espressa. Il caso sloveno-italiano soffre di un difficile rapporto, dovuto alla memoria storica a volte ancora fardello pesante da sopportare da ambo le parti. Mentre invece, specialmente qui da noi, a Gorizia e Trieste, sconfinare dal punto di vista letterario dovrebbe significare non porsi dei limiti, sdoganare se stessi, scoprire i propri miti senza pudori e cercare l’archetipo comune, ovvero quella forza creatrice europea che è matrice universale”.
Le letterature europee non devono essere nazionali ma parlare all’Europa, sosteneva Goethe, e sfogliando
Le Lettere Slovene, scopriamo che i rappresentanti della cultura di questo popolo apparentemente chiuso tra le Alpi, con una limitata proiezione sul mare, hanno saputo vivere una grande stagione tra Ottocento e Novecento, tutt’altro che serrati in un ambito ristretto, e pronti a vaste aperture di orizzonti, tramite un copioso e continuo dialogo tra accademie, giornali, centri di cultura e teatri intessuto tra le città di Lubiana, Maribor, Graz e Vienna, ma anche con Monaco di Baviera, Praga, Venezia, Firenze e Parigi.
Il titolo del libro di Tatjana Rojc è riduttivo rispetto alla ricchezza del discorso in esso contenuto, che non si concentra solo sulle lettere slovene, ma ripercorre la storia della civiltà e del popolo sloveno attraverso la sua lingua e cultura, e si muove non solo all’interno di quello che è oggi uno dei più piccoli stati d’Europa, ma si allarga sempre allo scenario europeo. In esso si parla non solo di poesia, prosa e teatro, ma anche della storia civile e politica, della dimensione religiosa e delle vicende istituzionali della Carniola e di quella che diventa Slovenia tra i secoli XIX e XX, poi Slovenia all’interno del Regno Jugoslavo, quindi Repubblica slovena all’interno della Federazione Jugoslava, fino al raggiungimento dell’indipendenza e alla statalità nel 1991.
Inoltre, quest’opera non circoscrive l’attenzione alla Carniola, ma spazia a tutte le aree di insediamento degli sloveni: Stiria, Carinzia e quella che per gli italiani è la Venezia-Giulia e per gli Sloveni il Litorale, in una prospettiva europea e tenendo conto della specifica collocazione del territorio della Slovenia in Europa come punto di intersezione dei grandi assi geoculturali.
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Le Lettere Slovene vengono messi in luce i rapporti che intercorrono tra il mondo sloveno e il contesto politico dove per quasi un millennio esso si è trovato saldamente inserito: per ragioni storiche, l’area abitata dagli sloveni per secoli e secoli è stata al centro della realtà mitteleuropea subendo naturalmente l’irradiazione delle culture tedesca e italiana attraverso l’Impero Asburgico, il che smonta completamente lo stereotipo negativo di un popolo sloveno solo rurale e arretrato o addirittura barbarico e selvaggio che era stato falsamente proiettato proprio dall’Italia.
Molti sloveni che avevano intrapreso studi o carriere ecclesiastiche, hanno poi svolto ruoli notevoli in accademie, università e centri di sapere dell’Impero, magari scrivendo in tedesco o in latino prima dell’affermarsi di una specifica e valida tradizione letteraria in lingua slovena.
Alla crisi del Cinquecento e alla divisione dell’Europa secondo le diverse confessioni religiose, la Slovenia ha reagito seguendo la figura carismatica di Primož Trubar, uomo di chiesa formatosi sotto il vescovo di Trieste Pietro Bonomo, diventato il padre della lingua slovena. Sono quindi diventati centrali nella vita spirituale e culturale della società slovena il clero e la Mohorjeva Družba, nata a metà Ottocento e per contribuire alla capillare diffusione del sapere mediante un’attività editoriale popolare e attraverso le parrocchie fortemente radicate nel territorio.
Tra Sei e Settecento, aristocratici ed esponenti delle classi benestanti che sentivano la passione per la storia del proprio popolo hanno cercato di valorizzarla agli occhi della cultura europea: alcuni di essi, di origine italiana, come Janez Vajkard Valvasor o il barone Sigismondo-Žiga Zois, appartevano a famiglie che, trasferitesi nel cuore dei domini di casa d’Austria, si sono slovenizzate. Pur mantenendo costumi e rapporti con l’Italia, e usando il tedesco, essi si sono impegnati a promuovere la conoscenza della terra diventata la loro nuova madrepatria e, a riprova che il sentimento nazionale è un fatto non di sangue ma di scelta, si sono fatti più sloveni di tanti altri sloveni.
Il momento letterario culminante coincide comunque con il consolidamento della coscienza di sé che il popolo sloveno ha sviluppato durante l’Ottocento, grazie soprattutto all’opera romantica di France Prešeren, riconosciuto padre della patria, tanto che la Slovenia celebra il giorno della propria cultura nell’anniversario della morte del suo poeta più caro, ogni 8 febbraio.
Negli anni tormentati del recente passato, è stata proprio la letteratura, espressione più alta della storia culturale slovena, a tenere salda l’idea di appartenenza e a salvare la nazione durante le intemperie della disgregazione della Jugoslavia, fino all’indipendenza. E, come scrive Cristina Benussi nella prefazione a
Lettere Slovene, “è invidiabile il popolo che identifica se stesso con la sua lingua e la sua letteratura”.
Durante le circostanze drammatiche del secolo scorso, il contributo degli scrittori di confine è stato decisivo e la domanda iniziale di Tatjana Rojc trova risposta nelle parole che Ivan Cankar pronunció in uno dei suoi ultimi discorsi nel 1917: “Se Lubiana è il cuore della Slovenia, Trieste ne è i polmoni”.