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La seconda generazione
Osservatorio Balcani Guide per tema Cultura Cinema
Data pubblicazione: 18.06.2008 13:55

Kur zbardhi një ditë (Una volta, all'alba), 1971, di Piro Milkani
Piro Milkani e Saimir Kumbaro rappresentano la seconda generazione dei cineasti albanesi, formatasi sotto l'influenza delle grandi scuole dell'Est e del neorealismo italiano. I successi del più povero cinema d'Europa nelle parole dei suoi protagonisti. Nostra intervista
Piro Milkani, nato a Korça nel 1939, ha compiuto la propria formazione presso l’Accademia delle Belle Arti di Praga, lavorando poi come operatore e regista presso il Kinostudio di Tirana. Ha diretto 17 lungometraggi, ottenendo nel 1967 il Premio della Repubblica con il film “La vittoria sulla morte”. E' stato professore presso l'Accademia delle Arti di Tirana.

Saimir Kumbaro, nato a Tirana nel 1945, ha iniziato a lavorare nel Kinostudio come assistente regista dopo aver compiuto studi di recitazione. Nel 1975 ha vinto il Premio Speciale del Festival del Film Albanese. Ha realizzato anche 8 documentari. Nel 1992 ha diretto “La morte del cavallo”, primo film ad essere realizzato dopo il crollo del regime albanese. Per questo film ha ottenuto nel 1997 il Premio Speciale dell'Eurofestival del cinema a Saint-Etienne.


Quando siete entrati nel mondo del cinema?

Kumbaro
– Quando studiavo recitazione all’Accademia di Belle Arti, nel 1968, ho partecipato ad un film di Piro [Milkani, ndr], basato su una sceneggiatura di Ismail Kadaré, “Per chi suonano questi tamburi”. Dopo gli studi ho cominciato a lavorare al Kinostudio, il 3 gennaio del 1970, come assistente regista. Ho lavorato con Muharrem Fejzo, Dhimiter Anagnosti, Viktor Gjika e altri. Nel 1973-74, insieme a Rikard Larja, abbiamo girato il primo film di lungometraggio, “Le stradine che cercavano il sole”. Il Kinostudio era una grande scuola, noi eravamo la seconda generazione e avevamo la fortuna di avere come professori i registi che avevano studiato all’est, nelle scuole russe, ceche, ungheresi.

Milkani - Il sistema comunista sapeva che il cinema era un potente mezzo di indottrinamento ideologico, e sin dai primi anni ha investito molto in questo settore. Nel 1952 è stata inaugurata la prima struttura, il “Kinostudio Shqipëria e Re”, e parallelamente i primi studenti sono stati mandati a studiare a Mosca, Praga, Budapest. Malgrado i loro limiti ideologici, quelle scuole erano all’avanguardia sia sotto il profilo teorico che professionale, e quel tipo di formazione ha favorito lo sviluppo del nostro cinema.

Quando è stata aperta la prima scuola per gli attori?

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Kumbaro – Nel 1962, presso il Teatro Popolare. La scuola si chiamava “Aleksandër Moisiu”, ci insegnavano Andrea Malo, Pandi Stillu, Drita Agolli, Kujtim Spahivogli, Mihallaq Luarasi. Erano tutti professori che si erano formati all’estero, Spahivogli e Malo in URSS, Luarasi in Ungheria, Stillu in Romania. Utilizzavano il metodo Stanislavski. Anch'io ho fatto questa scuola, gli studi duravano 4 anni e diplomava solo attori. Più tardi è stata trasferita nell’Accademia delle Arti. Da questa scuola sono usciti attori come Robert Ndrenika, Llazi Serbo, Mevlan Shanaj, Birçe Hasko, Albert Minga, tutti quelli che oggi fanno cinema.

Cos'era il cinema albanese prima del 1990: una scuola, un'esperienza di lavoro, propaganda?

Kumbaro
- Dopo l’isolamento, in Albania è stato proibito il cinema internazionale, venivano trasmessi solo pochi film di carattere storico, francesi o italiani. Al tempo stesso è stata data una grande importanza al cinema albanese. Questo periodo è coinciso con l’emergere della seconda generazione, la nostra. Noi, con il nostro lavoro, dovevamo colmare il vuoto creato dall'assenza dei film stranieri. Di conseguenza la produzione di film albanesi era aumentata, fino a 14 film all’anno. Io ero obbligato a produrre un film ogni due anni. Il mio periodo di maggior produzione è stato fino al 1992, quando ho girato “La morte del cavallo”. In tutto quel periodo la priorità veniva data alla propaganda e a temi di educazione ideologica. C’erano delle direttive esatte sulla creazione dell'uomo nuovo, con la morale comunista. Eravamo strumenti nelle mani del potere, ma al tempo stesso facevamo questo mestiere con passione, con desiderio. Inoltre pensavamo che tra i comunisti c’erano anche persone per bene, gente corretta e positiva.

Milkani - L’isolamento dell’Albania ha avuto come riflesso quello di far crescere la produzione interna di film, di tutti i generi. Si sono prodotti film artistici, documentari, cartoni animati, cronaca. I film documentari e quelli di cronaca sono come il vino, più passa il tempo e più acquisiscono valore come documenti di un'epoca passata. La particolarità del cinema albanese, poi, è che noi avevamo una forte amicizia con la Cina di Mao. I cinesi erano ancora più isolati di noi, e avevano acquistato circa 20 film artistici albanesi, che quindi avevano un pubblico straordinario. Questa era una nostra specificità, praticamente un nostro film veniva visto da 200 milioni di spettatori cinesi. Per i cinesi quindi il nostro cinema rappresentava una sorta di scuola di formazione. Un regista cinese molto noto ha dichiarato recentemente che non avrebbe potuto diventare regista se non fosse stato per i film albanesi.

Che parte rivestiva l'educazione dello spettatore nel cinema di quegli anni?

Kumbaro
- Credo un posto importante, almeno nella mia produzione. Il ruolo principale nei film di quel periodo doveva sempre essere impersonato da un eroe positivo, che trasmetteva agli spettatori quei valori che si ritenevano importanti. Era molto schematico, ma questo schema non aveva niente di male. Anche oggi, se si guardano i film americani, l’eroe positivo è sempre quello che vince, trasmette certi valori e alla gente questo piace. Non posso dire che si trattasse semplicemente di propaganda.

Come funzionavano censura e autocensura durante il regime?

Kumbaro
- Per realizzare un'opera cinematografica di lungometraggio il lavoro doveva sottoporsi a diversi stadi di censura. Si iniziava con la sceneggiatura, che naturalmente veniva controllata, poi c’era la commissione finanziaria, che calcolava i costi, e inoltre il gruppo di lavoro doveva avere nello staff uno o due comunisti devoti, questo era un obbligo. La censura era presente ad ogni passo, fino al momento finale della distribuzione. La parola finale spettava personalmente al capo del partito Enver Hoxha, e a Ramiz Alia. Quando il film concludeva il processo di lavorazione al Kinostudio andava al ministero della Cultura e al comitato di partito del quartiere di Tirana dove si trovava il Kinostudio, e veniva visionato dalla leadership, Hoxha oppure Ramiz Alia. Se il capo del partito sorrideva, oppure muoveva la testa in maniera affermativa, questo gesto veniva captato al volo dal proiezionista che, dal suo finestrino, da cui proiettava il film, trasmetteva il messaggio a tutto il Kinostudio. Dopo questo messaggio tutti si sentivano sollevati... Questo tipo di censura era così forte che effettivamente ha prodotto anche quella che si chiama autocensura. In caso di risposta negativa potevi infatti essere trasferito ad un villaggio per essere “rieducato”, come è accaduto ad esempio ad un nostro collega, Mitat Fagu, che aveva fatto un documentario “contro” il sistema ed è finito a fare il trattorista in un villaggio. Eravamo molto, ma molto prudenti.

Dov’era l’equilibro tra passione e prudenza?

Kumbaro
- Quando vedevo che c'era una sceneggiatura molto retorica, propagandistica, cercavo di evitarla. Una volta un leader del partito era venuto per obbligare uno di noi ad accettare una sceneggiatura mediocre. Ci siamo salvati perché questo leader voleva andare in bagno, ma la chiave ce l’aveva il segretario del partito del Kinostudio, che al momento non era presente, quindi il leader è ritornato nel suo ufficio e la riunione è slittata. Quando le sceneggiature non garantivano un buon successo i registi cercavano di evitarle, ma a volte era impossibile perché ti obbligavano.

Milkani - Il nostro era un comunismo sui generis, molto rigido. Non possiamo adesso, in tempo di “democrazia”, parlare di dissidenza. Non c’era, né al Kinostudio né in altri settori. Dovevi essere scemo per fare un film contro il regime, cosa che invece i polacchi, i cechi, potevano fare. Noi aggiustavamo cosi bene i film da non farli fermare dalla censura. Solo in due occasioni i film sono stati bloccati per ragioni ideologiche. Diciamo che censura e autocensura camminavano su binari paralleli.

Quali erano i temi che il regime aveva più a cuore?

Kumbaro
- Negli anni '70 si è data priorità ai temi della guerra, dopo di che sono emersi i temi sociali, educativi. C'era una forte influenza della rivoluzione culturale cinese. Ricordo ad esempio quando dovevo fare un documentario su una fabbrica di vetro, e come colonna sonora avevo messo una musica di Bach. Me l’hanno tolta, perché in Cina Bach era proibito. Poi, dal 1975 fino al 1989, i temi dell'attualità hanno preso il sopravvento, veniva sottolineato di più il problema della formazione dell’uomo nuovo.

Era più facile fare un film su una tematica dal passato oppure un film d’attualità?

Milkani
– I temi storici erano più “consolidati”, il tedesco era tedesco, il partigiano era partigiano. Quando si è aumentata la produzione sono aumentati anche i temi dell’attualità, i problemi sociali oppure la glorificazione, nel senso positivo della parola, di personaggi che si dedicavano alla comunità. Prendiamo ad esempio il film “Strade bianche”. Era la storia di un semplice personaggio che si sacrificava per il bene collettivo, per riuscire a stabilire il collegamento telefonico tra gente che viveva in posti proibitivi, nelle montagne. Dal punto di vista dello schema, il realismo socialista ha in comune coi film americani la “happy end”. Nel film albanese, anche se l’eroe positivo muore, le sue idee sopravvivono. Nel realismo socialista non ci sono temi deprimenti, tristi, c’è sempre un raggio di ottimismo.

Kumbaro - La formula del realismo socialista era molto semplice: “Come eravamo, come siamo, come saremo”.

Qual era il modello del cinema albanese?

Kumbaro
- Noi potevamo vedere solo film italiani o francesi, soprattutto il neorealismo italiano e la nouvelle vague francese. A me piacevano molto anche i film cechi che ero riuscito a vedere, come “Valeria nel mondo dei miracoli”, “La coscienza”, film diversi da quelli sovietici, retorici e solenni.

Milkani – In quel mondo di paradossi che era l’Albania, anche se il paese era isolato, noi avevamo l'opportunità di vedere la televisione italiana e quella jugoslava. Tramite la televisione di Belgrado vedevamo le produzioni più recenti di Ingmar Bergman o di Akira Kurosawa. Quindi non eravamo completamente tagliati fuori, ricordo ad esempio quando Antonioni aveva girato un film sulla Cina (trasmesso dalla tv jugoslava), come discutevamo tra di noi la sua visione, il suo metodo. Nel 1972 si è organizzata a Belgrado, per la prima volta, la settimana del cinema albanese. Un critico jugoslavo aveva commentato nel giornale “Borba” che “il cinema albanese è un cinema influenzato dal realismo sovietico e dal neorealismo italiano”. Aveva ragione, il neorealismo italiano ed il realismo sovietico avevano, forse, influenzato in modo inconsapevole la realizzazione dei nostri film.

Siete mai stati censurati apertamente?

Kumbaro
- Io in un paio di occasioni. Per il film “Gli allievi della mia classe”, in cui non avevo descritto bene la figura del segretario del partito, che aveva un cappello simile a quello di Enver Hoxha. Un altro mio lavoro invece, “Lo storico e il camaleonte”, è caduto vittima della censura di una personalità del partito che ne aveva capito il messaggio, e mi aveva obbligato a rifare il 40% del lavoro.

Milkani - Non c’è regista in Albania che non abbia avuto brutte esperienze. Io ad esempio avevo lavorato con molto amore al film “Trionfo sulla morte”. Era il primo film albanese costruito in retrospettiva, due ragazze erano in prigione nel periodo della guerra e ricordavano il tempo della loro libertà. I leader del partito l’hanno criticato aspramente, e Ramiz Alia mi ha detto: “Il regista lascialo fare a me”. Queste cose aumentavano l’autocensura, aumentavano la tristezza.

E la gioia da dove veniva?

Milkani
– Dagli spettatori. L’Albania era isolata, e un film veniva visto da migliaia di persone. Non c’erano soddisfazioni materiali, alla fine dell’anno prendevamo un premio di 1.000 lek, meno di un euro, ma il tuo lavoro veniva visto da moltissima gente.

Qual era la specificità del cinema albanese?

Milkani
– Nel periodo della dittatura lo sviluppo della cinematografia aveva stimolato anche lo sviluppo delle orchestre sinfoniche. Dei 350 film che sono stati prodotti in quel tempo abbiamo 350 colonne sonore, e tanti giovani compositori hanno fatto il loro debutto nella cinematografia. Poi un altro elemento era l’esistenza di un vasto movimento di teatri amatoriali, che erano un serbatoio di talenti anche per il cinema.

Kumbaro - Non possiamo dire che avesse un proprio carattere “puramente albanese”. Direi che il carattere nazionale proveniva dalla scelta dei temi, l’assurdità e la mediocrità della vita di quel tempo, una vita molto chiusa, povera. In parte anche dalla messa in scena. Nelle scene dei film che mostravano le persone a cena, ad esempio, mettevamo sul tavolo solo un piatto ed un po' di pane. Qui eravamo realisti, se avessimo messo più piatti allora la scena della cena non sarebbe più stata albanese. I nostri film hanno un valore come documenti, riflettevano una certa realtà.

E dopo il 1990?

Kumbaro
- Il mio primo film nell’era della democrazia si chiamava “La morte del cavallo”, nel 1992. Noi adesso ci occupiamo dell’assurdo nella vita degli albanesi. Cos’è l’assurdo? E' quella cosa anormale che si considerava normale, i 600.000 bunkers, il controllo che faceva la segretaria di quartiere del partito se qualcuno aveva l’antenna sopra il tetto, queste cose. Molti registi oggi tentano di presentare una realtà esagerata, un'immagine quasi primitiva della società albanese, senza nessun valore, una societa solo negativa, noi invece presentiamo l'assurdo.

Milkani - Dopo il 1990 è cambiato tutto. Prima non avevamo problemi finanziari, ma ideologici, mentre adesso la libertà è totale. Adesso però ci sono i problemi finanziari, la realizzazione dei film è sempre più costosa e naturalmente la prima conseguenza è la drastica riduzione del numero dei film. Allo stesso tempo si sono sviluppati altri settori, come i giornali e le tv. Nel 1996, con la creazione del Centro Nazionale di Cinematografia, lo Stato ha cominciato a finanziare parzialmente il settore, anche se potrebbe e dovrebbe fare di più. Il problema però è anche la nostra mancata esperienza di coproduzione con gli stranieri. Una caratteristica degli anni '90 è proprio la realizzazione di film in coproduzione.

Era più difficile fare il vostro mestiere allora oppure oggi?

Kumbaro
- Dopo “La morte del cavallo” sono passati 14 anni prima che avessi nuovamente l'opportunità di un progetto in coproduzione con francesi e macedoni. E' difficile trovare temi di ispirazione universale, che piacciano sia agli spettatori albanesi che agli stranieri. Io personalmente non amo i film che piacciono solo agli stranieri, preferisco film che piacciano agli albanesi, questo paese ne ha molto bisogno.

Milkani - Oggi è molto più difficile fare un film, ma d’altro canto abbiamo anche una certa libertà creativa, puoi scegliere ogni tipo di tematica. Dal passato abbiamo ereditato una tecnologia vecchia, i nostri film vengono sviluppati e elaborati in Bulgaria, Italia, Francia, ma non in Albania. Però le coproduzioni hanno già portato dei frutti. I nostri film come “La morte del cavallo”, “Colonnello Bunker”, “Slogans”, “Tirana anno zero”, “Caro nemico”, partecipano a tutti festival internazionali.

I film vecchi oggi rappresentano solo la nostalgia o erano davvero delle belle opere?

Kumbaro
- Per la nostra generazione rappresentano la nostalgia, per i giovani invece sono una curiosità, vedono quello che noi abbiamo passato. Le nuove generazioni li guardano con piacere, ma ci prendono anche in giro per quella nostra vita povera, semplice, molto limitata. Una cosa molto negativa che è accaduta a questi film è che sono stati saccheggiati in maniera barbara, perché non esistono i diritti d’autore. Adesso, insieme a Piro [Milkani, ndr], abbiamo creato un'associazione per difendere i diritti degli autori dei film dalla pirateria. Lo Stato è indifferente verso questa parte della nostra cultura.

Milkani – Io credo che una parte di quei film abbia un valore artistico, poi anche un valore storico, di documentazione, che incuriosisce il pubblico. Credo che sia un fenomeno che interessa tutti paesi dell’Est. Anche i cechi, i polacchi, i russi vedono con una certa nostalgia i film prodotti in quegli anni. Qui molti di quei film vengono trasmessi in maniera pirata dalle TV. La particolarità dell’Albania è che quasi un terzo della popolazione vive all’estero, e quindi tanti che hanno nostalgia del proprio paese li guardano. Le vendite maggiori infatti si fanno durante l’estate, quando gli emigranti rientrano nel paese per le vacanze.

Qual è il futuro del cinema albanese?

Kumbaro
- Questa domanda deve essere fatta per il cinema americano, non per quello albanese. Il cinema albanese è il più giovane e il più povero d'Europa. Ad un povero è difficile chiedere quale sia il suo futuro. Un povero aspetta quello che gli si può dare, quello che può dare lo Stato, l’elemosina, budget molto piccoli. Io non posso ad esempio fare un film storico per Skenderbej, perchè ci vogliono 1.000 cavalli, lo Stato può arrivare a darti il 70%, ma il 30% lo devi trovare da solo... Qualche volta mi vergogno perché siamo diventati quasi dei barboni, andando qua e là per cercare di raccogliere fondi. I ricchi oggi in Albania non amano il cinema, non lo conoscono. Non arrivano a capire che il cinema è l’ambasciatore del tuo paese, porta ovunque la tua cultura.