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Ferma ma equa: l'Ue e i Balcani

09.11.2007    scrive Tomas Miglierina

L'ultimo rapporto della Commissione europea può essere sintetizzato in due parole: fermezza ed equità. la Commissione evita pronostici sulle possibili date di ingresso dei paesi dei Balcani occidentali, eccetto la Croazia che potrebbe entrare nell'UE fra due o tre anni
Per rispondere ad una giornalista che gli chiedeva quando la Macedonia avrebbe ottenuto una data per avviare i negoziati di adesione, martedì 5 novembre il commissario europeo all’ allargamento Olli Rehn ha scomodato persino il suo connazionale Jean Sibelius. “Oltre ad essere un celebre compositore, Sibelius era un inveterato nottambulo”, ha spiegato Rehn ad una platea assai divertita. “A sua moglie che gli telefonò un mattino alle sei per chiedergli quando sarebbe tornato a casa, rispose: ‘cara, sono un compositore, non un veggente’, e questa potrebbe essere anche la mia risposta alla sua domanda”.

A parte il fatto che Rehn ha un passato da calciatore, ma non da compositore, l’aneddoto del commissario finlandese risponde a verità: non solo con la Macedonia, ma con tutti i Balcani occidentali quando si tratta della marcia verso l’ adesione Bruxelles non formulerà mai più alcun pronostico, che fatalmente verrebbe preso come una promessa. Al tempo stesso alla Commissione preme di mantenere credibili le prospettive di un nuovo allargamento: se i candidati dovessero perdere la fiducia verrebbe meno lo strumento più efficace che l’Unione ha posseduto fino ad ora per stimolare le riforme nel sudest EUropa.

E’ fra queste due coordinate che si muove la politica europea per i Balcani occidentali, condensata nei rapporti annuali sull’ allargamento. Per dirla con le parole di José Manuel Barroso, “con i Balcani occidentali l’Unione europea deve essere ferma ma equa”.

Dopo l’abbuffata del 2004 (e la coda di Romania e Bulgaria) Bruxelles non è disposta a fare sconti, e ancora meno degli “sconti comitiva”. Ognuno dovrà qualificarsi da solo, senza potersi inserire nella scia dei vicini più virtuosi. Inoltre, se è vero che i criteri formali di adesione non sono cambiati, è altrettanto vero che la loro verifica si è fatta più severa, dunque l’asticella da superare si è alzata.

Nessuno dei paesi coinvolti può attendersi un adesione prima del 2012 e anche questa è la più ottimistica delle previsioni. Fa eccezione solo la Croazia, cui rimane ormai relativamente poco da fare per concludere le trattative avviate nel 2005: in primo luogo la riforma del sistema giudiziario e della pubblica amministrazione. Per Zagabria le porte potrebbero aprirsi entro il 2010.

La Macedonia è riconosciuta da due anni come paese candidato, ma le dispute tra slavo-macedoni ed albanesi hanno condotto alla paralisi del parlamento e fatto perdere tempo prezioso. E’ pertanto quasi impossibile che Skopje ottenga una data per l’inizio delle trattative nei prossimi dodici mesi. Al contrario Albania e Montenegro hanno fatto registrare progressi più o meno ampi nel rispetto di tutti i criteri di adesione, dalla democrazia allo stato di diritto, senza dimenticare un certo consolidamento dell’economia. Ma in entrambi i Paesi le strutture statali sono troppo gracili e la corruzione ancora dilagante.

Per la Serbia il primo dei problemi attuali si chiama Ratko Mladic. L’accordo di stabilità ed associazione con l’ UE è pronto (è stato parafato lo scorso 7 novembre), ma per firmarlo si attende la piena collaborazione con il Tribunale dell’Aja. Non c’è un legame formale tra l’attitudine di Belgrado verso la soluzione del problema Kosovo e la firma degli accordi con Bruxelles. Formalmente lo status del Kosovo e la consegna di Mladic sono due problemi separati. Quando verranno entrambi risolti, il cammino della Serbia resterà comunque lungo, ma almeno la marcia sarà molto più leggera. Se il Kosovo è il “secondo” problema della Serbia, Belgrado è - al contrario - il primo problema di Pristina, che non potrà negoziare alcun accordo con se prima non vi sarà chiarezza sul futuro della regione. Chiude la classifica la Bosnia-Erzegovina, dove la crescente retorica nazionalista e la paralisi delle istituzioni fanno persino dubitare della reale volontà dei suoi politici di entrare nell’Unione.

La corsa verso Bruxelles è fluida, le posizioni possono cambiare: sette anni fa Croazia e Bosnia-Erzegovina erano quasi alla stessa distanza da Bruxelles, oggi sono ai due stremi della lista. Negli ultimi dodici mesi, nonostante i gravi problemi, il dialogo con Belgrado è andato avanti, mentre Sarajevo e Skopje hanno sostanzialmente marciato sul posto.

Entro il 2012 le cose cambieranno, e di certo non solo nei Balcani: per quella data sarà già entrato in vigore il trattato riformatore, che i ventisette firmeranno il mese prossimo a Lisbona, in sostituzione della defunta Costituzione europea. Oppure capiterà un incidente nel processo di ratifica, anche quel documento diventerà carta straccia e questo porterà comunque alla fine dell’Unione, nella sua forma attuale. Succeda quel che succeda, fra sei anni il traguardo verso cui si muovono i Balcani occidentali non sarà più ciò che è ora.

E’ nell’interesse della regione che prevalga la prima ipotesi: un’ continente più forte e più sicuro di sé potrebbe aprire la porta a cinque nuovi piccoli Stati senza troppi patemi d’animo. Al contrario, un’Europa fatta di piccoli gruppi che si muovono in ordine sparso e a velocità diverse sarebbe quasi certamente poco interessata. E probabilmente anche poco interessante.
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