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Questione curda: errori e strategie

20.11.2007    Da Istanbul, scrive Fabio Salomoni

Hasan Cemal
Il nostro corrispondente ha intervistato Hasan Cemal, giornalista del quotidiano turco “Milliyet” e uno dei più prestigiosi commentatori politici turchi, tornato da poco da un reportage in Iraq. Un punto di vista critico sulla questione curda
Hasan Cemal, giornalista del quotidiano “Milliyet”, è uno dei più prestigiosi commentatori politici turchi. E’ anche autore di numerosi libri tra i quali il monumentale “I curdi” che raccoglie la sua esperienza, compresa una storica intervista ad Öcalan dalla valle della Bekaa, maturata in anni di reportage ed interviste.

Nelle scorse settimane Cemal ha compiuto un lungo viaggio-reportage in Iraq incontrando tra gli altri il presidente della Repubblica Celal Talebani ed il presidente della regione autonoma curda Masud Barzani. Poche ore prima del nostro incontro le agenzie hanno dato la notizia che il procuratore della repubblica di Anakara ha aperto un provvedimento per la chiusura del partito curdo DTP (Partito della società democratica) con l’accusa “di aver compiuto azioni che mettono in pericolo l’unità nazionale e l’indipendenza dello stato”. Una notizia che segue di poco le dichiarazioni del primo ministro Erdoğan che respingeva la richiesta del MHP (Movimento di Azione Nazionalista) di sospendere l’immunità parlamentare per i deputati del DTP.



Come commenta la notizia dell’iniziativa della procura della repubblica...

Credo che sia un errore chiudere il partito, decisioni di questo genere hanno sempre provocato effetti contrari alle intenzioni. Bisogna lasciare spazio alla politica. La chiusura del partito fa solamente il gioco di coloro che vogliono imporre la logica della violenza. Le recenti riforme legislative hanno comunque reso più difficile, rispetto al passato, la chiusura dei partiti politici. Ora il fatto che un giudice avvii un procedimento non comporta più automaticamente la chiusura del partito.

Erdoğan e anche il ministro della Giustizia Şahin nelle loro prime dichiarazioni hanno fatto sapere il loro disagio per il provvedimento. Anche le prime reazioni dei media sono contrarie a questa iniziativa. Mi sembrano notizie importanti.

Il DTP è uno degli attori principali della crisi attuale. Da un lato sottoposto a forti pressioni e dall’altro preda dell’ambiguità nel rapporto con il PKK...

Se fai politica in Turchia non puoi non tenere conto di alcune realtà di fatto. Non è possibile che il partito cerchi di far accreditare il PKK come interlocutore del potere politico, il partito non può essere il braccio legale dell’organizzazione. Io credo che sia legato al PKK ed anche a Imrali (il carcere dove è detenuto Öcalan, N.d.A). Questo però non significa che tutti gli uomini del DTP si trovino sulle stesse posizioni. Penso ad esempio ad un uomo come Ahmet Türk, il presidente del partito nei giorni scorsi sostituito da Nurettin Demirtaş. Lui ha sempre avuto un approccio molto critico alla politica. Quello che dobbiamo riconoscere è che dentro il partito è molto difficile fare politica sostenendo posizioni in opposizione a quelle di Öcalan.

Io credo che se il partito vuole fare politica, per prima cosa dovrebbe fare pressioni sul PKK perché si arrivi ad un cessate il fuoco senza condizioni. Del resto nel mio viaggio in Iraq ho avuto l’impressione che anche i curdi iracheni e gli americani stiano facendo pressioni in questo senso sul PKK. Credo che il cessate il fuoco sarebbe un segno molto importante. Dopo di che il secondo passo toccherebbe alla Turchia, inaugurare una nuova stagione nelle relazioni con le autorità irachene.

Per il momento le autorità turche si riferiscono a Talebani e Barzani chiamandoli “leader tribali”...

È una situazione nuova, nei mesi scorsi non era così. Ci troviamo in una situazione paradossale. Tradizionalmente la paura principale della Turchia, dei militari, era la possibilità della creazione di uno stato curdo in Iraq. Dalla prima guerra del Golfo, con il venir meno dell’autorità centrale nel Nord Iraq si è concretizzata una realtà curda. E la Turchia ha contribuito a formare questa nuova realtà: investimenti, cantieri, costruzioni, imprese turche. Nei giorni scorsi giravo per i negozi di Suleymanye ed Erbil dove ci sono tutti prodotti turchi. Per non parlare dei lavoratori immigrati dalla Turchia. Accanto a questa realtà la Turchia si ostina a considerare i leader locali dei leader tribali. Ma la Turchia sarà costretta a mantenere buone relazioni con l’Iraq ed il Kurdistan iracheno. Avere problemi con queste realtà significherebbe avere problemi con i curdi di Turchia. I due paesi hanno interessi in comune. Quindi anche se credo non sarà facile, la Turchia sarà costretta a stabilire buone relazioni con il vicino.

Turgut Özal (ex primo ministro e presidente della repubblica. N.d.A) per la prima volta negli anni ’90 aveva imboccato la strada giusta incontrando Barzani e Talebani. Conviene a tutti stabilire un dialogo. Nei giorni scorsi ho parlato con il presidente dell’assemblea provinciale di Kerkük. Una volta era un peshmerga, un guerrigliero in montagna. Adesso vive in città, ha una famiglia, un’attività politica, non vuole perdere tutto a causa del PKK. Per quanto riguarda Barzani io ho avuto l’impressione che certamente è difficile pensare che possa prendere le armi contro il PKK, che è composto da curdi come lui. Ma allo stesso tempo però lui è perfettamente consapevole che se il PKK deponesse le armi, sarebbe un vantaggio per tutti.

E in Turchia?

In Turchia ci sono sempre più ambienti che parlano di questione curda, di diritti culturali, in modo diverso dal passato. Nella stampa, nelle forze armate, vengono fuori posizioni diverse da quelle tradizionali. Anche tra i servizi segreti. Recentemente un loro alto dirigente in pensione ha scritto cose importanti.

Ormai c’è la consapevolezza della necessità di un’amnistia generale per convincere quelli del PKK a deporre le armi e scendere dalle montagne. Subito dopo le elezioni del 2002 sappiamo che il governo aveva iniziato a lavorare su di un progetto simile. Inizialmente le cose sembravano andare per il verso giusto, poi si è intromessa la burocrazia civile e militare ed il progetto si è arenato.

Il governo sa benissimo però che senza un’amnistia non si avrà nessuna soluzione del problema PKK. Perché dovrebbero lasciare le montagne se rischiano di finire in galera? Bisognerà trovare una formula adeguata per superare questo scoglio.

Certo dobbiamo anche essere consapevoli che ci sarà comunque un nocciolo duro che non potrà abbandonare questo stile di vita e che continuerà la lotta armata.

Dicevamo del governo...

Alcuni passi si sono fatti. Nel 2005 Erdoğan ha fatto un importante discorso a Diyarbakir, ha riconosciuto gli errori del passato. Certo, se mi chiedi se questo significa che il governo ha un piano organico per la questione curda, beh francamente credo di no. Fanno qualche passo in avanti, magari migliorano i servizi nel sud-est, ma ci sono mancanze in tema di democrazia, diritti umani. Credo che non ci sia una strategia globale. Nello stesso tempo però stanno molto attenti a non cadere nella trappola nord-irachena, si oppongono alla chiusura del DTP, hanno imparato dalla esperienza che hanno vissuto sulla loro pelle in passato. Ripeto, credo che non ci sia un piano organico ma allo stesso tempo non vogliono commettere gli errori che gli altri hanno commesso nel passato. Questo è l’elemento che non mi fa perdere la speranza.

Lei qualche settimana fa ha scritto un articolo denunciando come dalla fondazione della repubblica la soluzione curda sia stata abbandonata al monopolio dei militari...

Sì ma credo anche che questo monopolio stia cominciando ad incrinarsi. Se così non fosse, ci sarebbe già stata da tempo un’operazione militare oltre confine. Non dobbiamo poi dimenticare che avere il monopolio di tutta la questione comporta anche il rischio di averne tutta la responsabilità. Io vedo che anche dentro le forze armate sono cominciate a farsi strada posizioni diverse, che rompono l’atteggiamento tradizionale. Dalla nascita della repubblica i militari hanno fatto in modo che i civili stessero lontani dalla questione, non avevano fiducia in loro. Adesso i generali in pensione cominciano ad ammetter delle colpe. Certo non hanno ancora chiamato il problema con il suo nome ma ora si fanno domande sulle origini del PKK, sul passato, sugli errori commessi. L’ex capo di stato maggiore Özkok ha lamentato che i militari hanno per forza di cose solo una prospettiva militare.

Guarda Baykal. Per mesi ha fatto concorrenza al MHP in tema di nazionalismo e poi negli ultimi giorni ha assunto posizioni sorprendenti sui curdi di Turchia e del Nord Iraq.
Io credo che lentamente il monopolio dei militari sulla questione curda si stia sgretolando, è un’evoluzione positiva. Devo però anche dire che l’eventuale ripresa della violenza, per esempio un attentato in una grande città del paese, potrebbe riportare tutta la situazione al punto di partenza.

Lo scorso 5 novembre l’incontro tra Bush e Erdoğan sembra aver dato via libera ad un’operazione militare oltre confine...

Ci sarà un’operazione per soddisfare l’opinione pubblica, per tranquillizzarla. Un’operazione mirata, su scala ridotta. Non credo invece ad un’operazione in grande stile.

Qual è il giudizio di un giornalista della sua esperienza sull’atteggiamento dei media turchi rispetto a quanto accade nel sud-est del paese?

Sulla questione curda i media non hanno fatto una bella figura. Nel passato però era anche peggio, ci chiudevamo gli occhi. Lo stesso ho fatto io. Tra il 1981 ed il 1992 sono stato direttore responsabile di “Cumhurriyet”. Rispetto alle violazioni dei diritti umani, specialmente nel periodo della giunta militare, le denunce sono state insufficienti. Ne abbiamo scritto ma non abbastanza.

Non abbiamo visto la questione curda, le condizioni che hanno portato alla nascita del PKK, le violazioni dei diritti umani, le esecuzioni extragiudiziali, gli omicidi impuniti, le evacuazioni dei villaggi. Non abbiamo raccontato i dolori, quello che si viveva nel sud-est.
Anche adesso l’attenzione è insufficiente. Si racconta quello che succede ai curdi? Siamo in grado di raccontare e spiegare l’appoggio o l’ostilità che raccolgono tra i curdi il PKK o la figura di Öcalan? E’ necessario parlare con la gente nei bar di Cizre, Şirnak o Diyarbakir. Per anni lo hanno fatto i colleghi della stampa straniera, loro si sono interessati molto più di noi. Io ho cominciato a raccontare, a girare per la regione, dopo il 1992, dopo aver lasciato “Cumhurriyet”.

Anche adesso sono molto pochi quelli che vanno nella regione o anche in giro per il Medio Oriente e l’Europa per vedere come si vede da lì il problema curdo. Forse ci sono delle ragioni materiali ma credo che sia soprattutto un problema di mentalità.
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