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La strage dei guardiani

15.05.2009    scrive Fazıla Mat

Il 4 maggio a Bilge, in Turchia, 44 persone sono state uccise dai guardiani di villaggio durante una festa di matrimonio. Storia e crimini di un'istituzione creata dallo Stato per combattere il PKK nel sud est del Paese. Le reazioni dei curdi e del governo dopo la strage
Sono trascorsi ormai 10 giorni da quando, la sera del 4 maggio, nel villaggio Bilge in provincia di Mardin nel sud est turco, un gruppo armato con il viso coperto ha compiuto una strage nel corso di una cerimonia di fidanzamento, causando la morte di 44 persone di cui 17 donne e 6 bambini. Dieci persone ritenute responsabili del massacro, abitanti dello stesso villaggio e parenti di alcune delle vittime, sono state arrestate.

Una faida familiare, un preteso diritto sulla promessa sposa o una resa dei conti legata al possesso della terra, sono tra le spiegazioni più accreditate dei fatti. Non è infatti la prima volta che nella zona viene commesso un delitto sulla base di moventi simili, motivo per cui gran parte della stampa locale ha dato la notizia come un caso di “töre cinayeti” (omicidio di rito).

Eppure “questa strage è molto diversa rispetto agli omicidi di rito conosciuti”, spiega Vahap Coşkun, docente di diritto pubblico all’Università di Dicle. Coşkun sottolinea come quei tipi di omicidi siano governati da precise “leggi interne”, come ad esempio il non compiere aggressioni in occasione di matrimoni o funerali, colpire solo il membro più influente della famiglia nemica e non nascondere la propria identità di assassino perché l’omicidio costituisce un’occasione di rivalsa sociale.

“Non è possibile spiegare questo nuovo fenomeno basandosi solo sui valori culturali”, aggiunge Coşkun. “Indubbiamente, in questa vicenda che ci fa rabbrividire, non è possibile negare l’influsso dei rituali e dei codici tradizionali, che hanno una maggior presa nelle zone rurali. Ma non sono solo i riti a sostenere questa violenza, c’è anche un fattore politico”.

Quanto è accaduto a Bilge ha infatti riacceso la discussione sull’ambiguità della istituzione cui sono legati gli esecutori ed alcune vittime della strage, tutti “geçici köy korucusu” ossia “guardiani temporanei di villaggio”, persone pagate dallo Stato e dotate di armi per “sostenere le forze di sicurezza nelle aree rurali” e salvaguardare “gli abitanti del villaggio” da “azioni di violenza rivolte alla loro persona e ai loro beni”. Una frase che suona amaramente ironica se si considerano – secondo i dati forniti dallo stesso ministero dell’Interno – gli oltre duemila casi di violenza alla persona e ai beni di cui i “korucu” stessi si sono resi responsabili tra il 1985 e il 2006.

La figura del “korucu” venne istituzionalizzata a partire dal 1985, nel periodo dell’allora premier Turgut Özal. Un’apposita legge, assieme alle modifiche e ai complementi che l’hanno integrata negli anni, stabilisce per questi uomini uno stipendio mensile che proviene dalle casse del suo committente – il ministero dell’Interno – gli attribuisce lo stesso tipo di armi utilizzate dall’esercito e una divisa. Il funzionamento e l’amministrazione dell’istituzione restano però a carico della gendarmeria, organo responsabile della sicurezza nelle aree rurali, e quindi delle forze armate.

I “korucu” in servizio sono attualmente oltre 50mila. Si tratta di un dato occupazionale importante, soprattutto in una regione geografica caratterizzata dalla scarsità della terra per la coltivazione e l’allevamento del bestiame. Capita così che gli uomini di interi villaggi diventino “korucu”, come ad esempio nel caso del villaggio di Bilge.

Durante gli anni dello stato d’emergenza, che ha coinvolto tredici province del sudest per quindici anni a partire del 1987, i “korucu” sono diventati parte integrante dell’esercito nella lotta contro il PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan). In tal modo i guardiani, per la maggior parte curdi loro stessi, si sono trovati a combattere contro altri curdi, quelli del PKK, scegliendo di “stare con lo Stato”. Questo meccanismo ha fatto sì che si instaurasse una sorta di complicità tra l’interesse dello Stato e quello dei “korucu”, accompagnata da una sorta di omertà nei confronti dei delitti commessi da questi ultimi.

Secondo il dato che emerge dal “Rapporto sulle guardie di villaggio 1990-2002”, dell’Associazione per i diritti umani di Diyarbakır, i “korucu” sono la seconda causa degli sgomberi di 3.688 villaggi dell’Anatolia sudorientale effettuati “per motivi di identità e di sicurezza” dallo Stato. Lo stesso rapporto mette in chiaro come questi si siano resi responsabili di sistematiche minacce e violenze contro i paesani, per obbligarli ad abbandonare i propri beni e appropriarsene loro stessi, e come ancora oggi i legittimi proprietari non riescano a fare ritorno nei luoghi d’origine nonostante le sollecitazioni del governo. La lista dei crimini a loro carico comprende anche omicidi – spesso la vittima è fatta passare come un membro del PKK – torture, stupri, aggressioni, ferimenti, traffico di armi e di stupefacenti.

La co-leader del DTP (Partito del popolo democratico) Emine Ayna, commentando la strage, ha detto che “l’aggressione, per quanto sia stata riferita nei termini di un conflitto inter-familiare, è il risultato della politica di decimazione dei curdi per mano dei curdi messa in atto dallo Stato” e che “è necessario che il sistema dei guardiani di villaggio sia abolito”. Il governo, per bocca del portavoce Cemil Çiçek, ha però escluso una totale abolizione del sistema, convenendo tuttavia che “è necessaria una riforma”. Intanto, tuttavia, lo stesso governo continua ad annunciare nuovi contingenti di guardiani.

Ciò che verrà deciso sull’istituzione dei “korucu” dipende in larga parte da come evolverà la cosiddetta “questione curda”. Su questo fronte, la settimana scorsa, ci sono state importanti dichiarazioni sia da parte del presidente della Repubblica Abdullah Gül che del PKK.

Il quotidiano Milliyet ha pubblicato un’intervista fatta dall’analista Hasan Cemal al leader del PKK Murat Karayılan: “Il PKK non è più il PKK di una volta” ha affermato il leader curdo, “nel senso che non è più separatista. Noi vogliamo che i curdi vivano in uguaglianza e libertà all’interno dei confini della Repubblica turca. E questa non è una tattica […] Noi oramai chiediamo un Kurdistan democratico e autonomo, non si tratta di una federazione o di una ridefinizione dei confini, ma di una soluzione che non intacca la struttura unitaria dello stato”. Karayılan ha tuttavia anche aggiunto che “prima di tutto bisogna far tacere le armi. Che nessuno attacchi l’altro”.

Concilianti sono apparse anche le dichiarazioni di Gül, rilasciate negli stessi giorni in cui veniva pubblicata l’intervista al leader del PKK: “Chiamatela terrorismo, sudest o questione curda, si tratta del problema più importante della Turchia. Deve essere risolto assolutamente. Ci devono e ci possono essere degli sviluppi positivi. Tutti sono molto più consapevoli […] Un’opportunità c’è e non bisogna farla sfuggire […] L’unica via è quella di elevare gli standard democratici. Se ciò fosse stato fatto nei periodi precedenti sarebbero state risolte molte cose fino ad ora. Ci sono molti problemi. Dove c’è violenza e sangue non può esserci la motivazione per la democrazia. È per questo che è necessario il contributo di tutti”.
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