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Guerra e pace

21.12.2007    Da Istanbul, scrive Fabio Salomoni

Guerra e pace (Felice Berardinone)
Mentre l’UNESCO dichiara il 2007 come l’anno di Mevlana, filosofo di origine persiana e simbolo di tolleranza, che visse per buona parte della sua vita in Turchia, l’aviazione turca esegue un raid in Iraq con l’obiettivo di bombardare le basi del PKK
“Perfino la parola pace mi spaventa perché fa pensare alla guerra”. E’ una delle tante citazioni, nemmeno la più famosa, attribuite a Jelal al-Din Rumi, conosciuto anche come Mevlana (Il Maestro). Mistico e filosofo di origine persiana, Mevlana ha trascorso gran parte della sua vita a Konya (Turchia) dove è sepolto. La sua vita e le sue opere ispirano i famosi dervisci rotanti, che con le loro tuniche bianche sono ormai uno dei simboli con cui la Turchia promuove la propria immagine all’estero. Quest’anno ricorreva l’800° anniversario della nascita del filosofo e l’UNESCO ha voluto, in tempi di scontro di civiltà, rendere omaggio a questo simbolo di tolleranza e spirito universalista dichiarando il 2007 “l’anno di Mevlana”. Il tradizionale festival che ogni anno si svolge a Konya tra l’1 ed il 17 dicembre ha assunto così quest’anno un significato tutto particolare, testimoniato anche dagli oltre 80.000 visitatori che vi hanno partecipato e dalla presenza, nell’ultima serata, del gotha della politica turca.

Proprio nelle ore in cui a Konya i dervisci roteavano in onore di Mevlana, a più di mille chilometri di distanza, 50 caccia dell’aviazione turca penetravano per oltre cento chilometri in territorio iracheno con l’obbiettivo di bombardare le basi del PKK sui monti Kandil. “Abbiamo raso al suolo le basi del PKK” è stato l’annuncio dello Stato maggiore turco. Il primo ministro Erdoğan dal canto suo si è congratulato con i militari che hanno partecipato all’operazione mentre i rappresentanti dell’opposizione hanno lamentato “l’insufficienza della sola operazione aerea”. Decisamente pacate le reazioni delle comunità internazionale. Gli Stati Uniti hanno riconosciuto alla Turchia il diritto di difesa mentre l’Unione Europea ha raccomandato “un uso non sproporzionato delle forza”. Il governo iracheno dal canto suo ha convocato l’ambasciatore turco esprimendogli la propria preoccupazione ma precisando anche che non si trattava di una nota di protesta ufficiale.

L’operazione oltre confine reclamata a gran voce da mesi alla fine è dunque arrivata. Cogliendo tutti di sorpresa, quando ormai l’arrivo dell’inverno e della neve sulle montagne irachene faceva pensare che di operazioni militari si sarebbe riparlato solamente con il ritorno della primavera.

I media turchi hanno ampiamente celebrato l’avvenimento riproponendo a ciclo continuo le immagini dei caccia e quelle degli obbiettivi inquadrati dai mirini degli aerei, dilungandosi poi sull’efficienza mostrata dalle forze armate - solo cinque aviazioni militari al mondo sarebbero in grado di compiere un’operazione notturna di questo genere - sulla tecnologia delle armi impiegate e sulla precisione chirurgica dell’operazione. Venti milioni di dollari, tanto sarebbe costato allo stato turco in carburante e munizioni il raid di sabato notte, secondo quando riportato dal quotidiano “Hürriyet”.

Nel diluvio di informazioni tecniche fornite dai giornali, spiccava però la totale mancanza di informazioni sulle perdite tra le fila del PKK. Un particolare non irrilevante se si tiene conto della abituale solerzia con cui lo Stato maggiore turco fornisce dati sulle perdite inflitte all’avversario. Dal canto loro le autorità curdo-irachene hanno denunciato la morte di una donna e il ferimento di quattro persone nel corso dell’operazione. Per quanto riguarda il PKK le fonti di informazioni a loro vicine hanno parlato di quattro vittime.

Appare evidente che l’obbiettivo di questa operazione militare non era di ordine militare ma piuttosto psicologico. Un messaggio indirizzato a due diversi destinatari: l’opinione pubblica turca, alla quale da mesi si prometteva un’operazione militare, ed al PKK. Aumentare la pressione sull’organizzazione mostrando la vulnerabilità delle loro basi in montagna anche durante la stagione invernali. L’obbiettivo è quello di mettere in ginocchio il PKK. Un obbiettivo evidentemente concertato con gli Stati Uniti. L’operazione di sabato si è infatti potuta svolgere grazie all’appoggio logistico degli americani..

Un riavvicinamento tra Ankara e Washington sancito lo scorso 5 novembre nell’incontro tra Bush ed Erdoğan. Gli Stati Uniti sembrano ora intenzionati a mettere in condizioni di non nuocere il PKK, diventato un elemento di instabilità nella regione, ed offrono il loro appoggio alla Turchia.

In cambio però chiedono due cose ad Ankara. Migliori relazioni con le autorità curdo-irachene, di fatto un loro riconoscimento di parte turca. Le recenti dichiarazioni del generale Buyukanit, per il quale quella federale sarebbe la migliore soluzione per il futuro dell’Iraq, confermerebbero questo dato. E un diverso atteggiamento della Turchia nei confronti della comunità curda. Dopo aver risolto la questione militare, inevitabilmente Ankara si troverebbe infatti ad affrontare gli aspetti politici, economici e culturali del problema.

Alla vigilia dell’incontro di Washington, Condoleeza Rice, dopo aver incontrato Erdoğan, aveva dichiarato alla stampa che “il governo turco ha un piano dettagliato in questa direzione”. Da allora si rincorrono le voci più disparate sull’esistenza e sui contenuti di questo piano. Lo stesso Erdoğan ha parlato in più di una occasione di un progetto di legge “Del ritorno a casa” con la quale convincere la base del PKK ad abbandonare le armi e “a fare ritorno da mamma e papà”.

In questo senso è plausibile pensare che tra gli obbiettivi del raid aereo di sabato notte ci fosse anche quello di preparare il terreno ad una iniziativa di questo genere. Renderla più digeribile sia alla corrente più nazionalista all’interno del partito sia all’opinione pubblica. Per il momento però che cosa il primo ministro intenda per “Ritorno a casa” non è chiaro. Una semplice legge sui pentiti, strada già tentata in passato, oppure un’iniziativa più organica di amnistia che miri a reintegrare nella società la base dell’organizzazione? Già nel 2002-2003 il governo Erdoğan aveva lavorato su di un’iniziativa analoga che prevedeva l’amnistia per coloro che non si fossero macchiati di reati di sangue e l’invio in un paese straniero dei vertici dell’organizzazione, a condizione che si ritirassero, per così dire, a vita privata.

All’epoca l’iniziativa fu però bloccata dalle resistenze dell’apparato e dalla debolezza di un governo sempre a rischio di essere accusato di attentato alla laicità.

Ora le condizioni interne ed internazionali sembrano essere favorevoli perché il governo faccia passi concreti, politici, economici e giudiziari, per arrivare ad una soluzione ad una questione che incarna le contraddizioni della repubblica fin dalla sua fondazione. Non sono pochi però quelli che dubitano della reale esistenza e della natura di un piano di questo genere. Settimane fa, nel tradizionale conclave che Erdoğan organizza annualmente con i deputati del suo partito, il primo ministro, parlando del problema curdo, ha chiesto ai suoi parlamentari di proporre soluzioni concrete invece di “portare solo problemi”. La presentazione da parte del governo di un progetto di una nuova costituzione, che potrebbe essere l’occasione per integrare le richieste della comunità curda in termini di diritti culturali e di fine dell’egemonia turchista, è stato più volte annunciato e poi rinviato.

Inoltre altre due variabili sono da tenere in considerazione. La prima riguarda l’atteggiamento delle forze armate. Fino a che punto cioè sono eventualmente disposte ad assecondare il governo su questa strada. La seconda riguarda gli equilibri politici del paese. La soluzione di uno dei grandi nodi della storia repubblicana richiederebbe un consenso politico che vada al di là di quello, pur consistente, garantito dal partito di governo. Per il momento però i partiti di opposizione, MHP e CHP, non sembrano rinunciare al loro tradizionale atteggiamento che considera la questione curda un problema da risolvere sul piano puramente militare.

Messe da parte quindi le infinite illazioni e le numerose incognite che ancora gravano sull’intera vicenda, per il momento non rimane che registrare la bruta concretezza della cronaca.

Lunedì un tribunale militare ha assolto i due ufficiali della gendarmeria che nel 2005 gettarono una bomba a mano in una libreria di Semdinli, nell’Est del paese, gestita da un ex militante del PKK, provocando un morto e numerosi feriti.

In precedenza un tribunale civile li aveva condannati ad una pena complessiva di 39 anni di carcere. Dopo la sentenza però il Consiglio di Stato aveva deciso che la vicenda fosse di competenza del tribunale militare. E giovedì la sentenza di assoluzione. Da ricordare anche che il magistrato civile che aveva preparato il primo atto di accusa nei confronti degli imputati venne radiato dalla magistratura. Una decisione che conta un solo precedente nella storia della repubblica.

Sempre sul piano giudiziario continuano il loro iter i procedimenti per lo scioglimento del partito curdo Partito della Società Democratica (DTP) e per la sospensione dell’immunità parlamentare a tre suoi deputati. Nella giornata di lunedì poi il presidente del DTP Dermitaş, di ritorno da un soggiorno in Germania, è stato arrestato al suo arrivo all’aeroporto di Ankara. L’accusa è di aver prodotto nel passato un falso certificato medico per ottenere l’esonero dal servizio militare.

Ed infine l’aggressione ad Izmir di un sacerdote italiano, Padre Adriano Franchini, accoltellato “dall’ennesimo squilibrato”. All’uscita dall’ospedale il sacerdote ha voluto minimizzare l’accaduto dichiarando “che si è trattato di un lieve accoltellamento” ed ha voluto fare a tutti gli auguri per la Festa del Sacrificio che comincia oggi. Forse l’anno dedicato a Mevlana non poteva chiudersi con parole migliori.
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