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Soldati turchi

07.03.2008    Da Istanbul, scrive Fabio Salomoni

In Turchia scoppiano le polemiche sul ritiro delle forze armate dal nord dell'Iraq. Erdogan si schiera a difesa dei militari, sotto accusa per la prima volta nella storia del paese. Sempre più lontana una soluzione politica alla questione curda dopo la violenza degli ultimi giorni
Non si è ancora placata in Turchia la bufera scatenatesi all’indomani dell’inattesa conclusione, lo scorso venerdì, dell’operazione militare nell’Iraq settentrionale.

Le polemiche sono state innescate dalle modalità con cui è stata annunciata la fine delle operazioni: le prime notizie sul ritiro dei soldati turchi sono arrivate in mattinata dal ministro degli Esteri iracheno Zebari, poi riprese dalle televisioni curde ed infine, solamente nel pomeriggio, confermate da un comunicato dello Stato maggiore, mentre il Primo ministro Erdogan dava l’impressione di esserne stato informato all’ultimo momento.

Polemiche provocate però soprattutto dalla coincidenza tra la fine delle operazioni e gli ultimi messaggi provenienti da Washington.

Solo giovedì sera ad Ankara il ministro della Difesa Gates aveva auspicato un rapido ritiro dall’Iraq ed il presidente Bush era stato anche più esplicito nell’invitare la Turchia ad abbandonare il paese.
E venerdì all’alba è cominciato il ritiro dei soldati turchi.

Le critiche hanno raggiunto col passare dei giorni un tono sempre più aspro, colpendo il governo ma, fatto inusuale, soprattutto le forze armate. A guidare la fronda in prima linea ci sono i due leader dell’opposizione, Baykal e Bahceli.

Le dichiarazioni del capo di Stato maggiore Buyukanit - “Sono pronto a togliermi la divisa se qualcuno dimostrerà che ci siamo ritirati per le pressioni esterne” - non sono bastate a placare gli animi. Baykal ha di nuovo accusato i militari di “aver lasciato l’operazione a metà per le pressioni americane” e Bahceli si è spinto a sostenere che “le forze armate hanno rafforzato il PKK”.

Il furore ma anche lo stupore dei militari trasparivano chiaramente nell’ultimo comunicato dello Stato maggiore: “Per la prima volta si vogliono rendere le forze armate oggetto di attacchi insensati... questi attacchi danneggiano la lotta al terrorismo più degli attacchi dei traditori”.

Nella bufera, dopo un’iniziale titubanza, ha infine preso posizione anche Erdogan: “Lasciate stare le forze armate. La responsabilità dell’operazione è interamente del governo”.

Ne esce un quadro dai non pochi aspetti paradossali. Il partito di Erdogan si ritrova schierato in difesa di quelle forze armate che pochi mesi fa minacciavano la sua esistenza politica, contro gli attacchi sferrati da due partiti che hanno fatto delle forze armate uno dei loro referenti principali.

Un altro segnale di quella ridefinizione degli equilibri, leggasi un riavvicinamento dell’AKP alle forze armate, in atto da mesi, è reso ancora più manifesto nella doppia gestione dell’operazione irachena e dell’abolizione del divieto del velo nelle università. E questo riavvicinamento spiega il furore di Baykal e Bahceli, che vedono sgretolarsi il loro rapporto privilegiato con le forze armate, al quale hanno spesso fatto ricorso di fronte alle situazioni di crisi.

Ma i paradossi non finiscono qui. Perché ha un che di paradossale il fatto che il mondo politico metta in discussione le forze armate per non essere state abbastanza dure e non aver portato fino in fondo un’operazione che molti avevano presentato come la soluzione finale al problema PKK. E magari anche come l’occasione per rimettere un piede nel Nord Iraq, in quello che è stato un possedimento ottomano ed ora una importante riserva petrolifera.

Il risultato involontario di questo paradosso è che viene ad infrangersi il tabù per eccellenza della repubblica, l’immunità di cui godono le forze armate.

“L’unica istituzione del paese che raccoglie la fiducia indiscriminata di tutti i turchi”, come ripetono periodicamente i sondaggi, da sempre al di sopra di ogni critica e dotata di una ampio margine di manovra, viene ora fatta bersaglio di feroci critiche da parte del mondo politico. E in questa nuova crisi tra i poteri forti del paese, si possono leggere i segnali che nuovi equilibri si stanno disegnando e che, forse, da oggi niente sarà più come prima nel rapporto tra politica e militari.

Dopo la sbornia bellicista che ha lasciato sul terreno almeno 260 vittime, secondo le fonti ufficiali, e la tempesta di queste ore, rimane in attesa di soluzione la questione curda. Nel 1999 l’arresto di Abdullah Ocalan e la decisione del PKK di sospendere le azioni militari, dal 2000 il riavvicinamento all’Europa avevano creato le condizioni per un nuovo approccio alla questione che di fatto tormenta la Repubblica dalla sua fondazione. Si è trattato però di un’occasione mancata perché, dopo qualche timido progresso, la violenza è tornata a divampare. Ora di nuovo si torna a parlare di una soluzione politica.

Su questo versante le novità paiono arrivare soprattutto dall’esterno. Mentre l’Europa rimane a guardare, fin dall’incontro dello scorso novembre tra Erdogan e Bush, gli USA invece sembrano volere assumere un ruolo più attivo. Dando il via libera, ed anche l’appoggio logistico, ad un'operazione militare limitata, che soddisfa le esigenze della Turchia di mostrare i muscoli e di mettere probabilmente per qualche tempo il PKK in condizione di non nuocere. Ma anche rinnovando gli appelli, attraverso esponenti politici e militari, perché si cerchino il dialogo e soluzioni non militari. L’arrivo poi nella giornata di oggi ad Ankara del presidente della repubblica irachena Talebani rappresenta il frutto delle pressioni americane perché Ankara stabilisca relazioni nuove con il vicino iracheno.

Sul versante turco Erdogan martedì ha di nuovo parlato di “misure economiche, culturali e politiche che verranno annunciate nei prossimi mesi”. Ma vale la pena ricordare che lo stesso Erdogan poco tempo fa in Germania aveva definito l’assimilazione “un crimine contro l’umanità” poco dopo avere, a Diyarbakir, brutalmente respinto la proposta di aprire istituti di curdologia e corsi di curdo nelle scuole. Ed è sempre lo stesso Erdogan, dopo le speranze nate la scorsa estate, che sembra deciso ad andare allo scontro frontale con il partito curdo DTP, magari con l’obbiettivo di conquistare le amministrazioni locali che il partito ancora detiene nell’est del paese.

Ed anche dai militari nessun segnale di apertura. Martedì nel corso di una conferenza stampa il generale Buyukanit ha liquidato “la soluzione politica” - una nuova costituzione, amnistia per i militanti del PKK e possibilità di istruzione nella lingua madre - bollandola come “programma del PKK”. Di nuovo, per il momento, non resta che attendere.