Terroni fuori!
28.01.2009
Da Capodistria,
scrive Stefano Lusa
Storia coraggiosa e divertente, ambientata in un quartiere di Lubiana ad alta percentuale di immigrati. Il romanzo di Goran Vojnović è il caso editoriale dell'anno. E un caso anche per la polizia slovena, risentita per i commenti che nel libro le rivolge il protagonista
Fino alla scorsa settimana era solo un caso letterario. Goran Vojnović, classe 1980, aveva impressionato la scena culturale con un romanzo divertente, ma anche durissimo: Čefurji raus! (Terroni fuori!). La storia è ambientata in un quartiere di Lubiana con un’altissima percentuale d’immigrati. Il protagonista, Marko, è un diciassettenne, che gioca a basket e che prova sulla sua pelle l’intolleranza della società in cui vive.
Vojnović giovedì scorso è stato invitato a colloquio dalla polizia. Per lui si configurava il reato di diffamazione. Nel libro il personaggio principale ed i suoi amici si lasciano infatti andare a commenti tutt’altro che edificanti nei confronti delle forze dell’ordine e la cosa non è andata giù ai poliziotti che avrebbero voluto querelarlo. L’autore - senza perdere la sua ironia - si è detto divertito, per il fatto che la polizia non distinguesse “la finzione dalla realtà”, ma anche preoccupato. All’uscita dal commissariato ha aggiunto che forse avrebbero dovuto parlare della questione con Marko, cioè con l’immaginario protagonista del suo libro.
A questo punto si è scatenato un vero e proprio putiferio. A reagire sono stati sia i politici, sia il mondo dell’arte. Il ministro degli Interni, Katarina Kresal, ha subito definito il libro “un toccante racconto sui membri delle nazionalità delle ex repubbliche jugoslave”. La leader della Democrazia liberale ha precisato di attendersi dalla polizia “ragionevolezza”. E’ la prima volta, infatti, che dall’indipendenza, gli inquirenti minacciano di sporgere denuncia per i contenuti di un libro.
La questione in Slovenia è particolarmente delicata. Gli scrittori, negli anni Ottanta, avevano ingaggiato una vera e propria battaglia con le autorità per la libertà artistica. Nelle loro opere avevano cominciato ad affrontare temi considerati tabù. Proprio attraverso i romanzi si iniziò a far luce sugli aspetti meno edificanti della rivoluzione socialista ed anche sulla sanguinosa resa dei conti messa in atto alla fine della guerra contro i collaborazionisti.
La Società degli scrittori ha reagito condannando i condizionamenti che si vorrebbero porre all’arte ed ironizzando sul fatto che gli inquirenti si occupassero di libri. Lo scrittore Boris A. Novak, anch’egli “invitato” al commissariato, ma negli anni Ottanta, non ha mancato di tracciare un parallelo con quanto accadeva nel periodo socialista. “In una società democratica – ha aggiunto - persone che reagiscono all’arte in questo modo sono pericolose per la libertà di parola”. Sul Dnevnik, Tomo Virk, professore di letteratura comparata all’Università di Lubiana, ha tagliato corto, dicendo che denunciare Vojnović è come saltare sul palco durante una rappresentazione dell’Amleto ed arrestare l’assassino.
A quel punto il capo della polizia Marjaž Šinkovec ha pubblicamente ammesso di aver commesso un errore; si è scusato con l’autore ed ha rassegnato le sue dimissioni. La Kresal ha tanto apprezzato il suo gesto che le ha respinte. Ha precisato infatti che non era mai successo che qualcuno in polizia ammettesse immediatamente il suo errore e tanto meno che si dimettesse. Il ministro ha anche invitato gli sloveni a leggere il libro in questione, visto che sono troppo spesso intolleranti nei confronti delle persone di cui si parla nel volume.
Per Vojnović il tutto si è così tramutato in un’insperata pubblicità gratuita, che però non è solo una promozione per il suo libro, ma anche per il mondo che descrive. Il quartiere di Nove Fužine, dove è ambientata la vicenda, è situato alla periferia di Lubiana. In esso vivono 18-20.000 persone. Una buona fetta è composta da immigrati, giunti negli anni settanta ed ottanta, dalle altre repubbliche dell’ex Jugoslavia. Si trattava all’epoca per lo più di operai scarsamente qualificati, che venivano in Slovenia per lavorare nelle industrie o nell’edilizia.
Ad un certo punto però quella che venne considerata un’eccessiva immigrazione fu percepita dagli sloveni come un modo per normalizzare la repubblica “jugoslavizzandola”. Si pensò che gli immigrati avrebbero cambiato il modo di vita degli sloveni e che non avessero nessuna intenzione di imparare lo sloveno. Proprio la questione della lingua non mancò di suscitare notevoli passioni. Il clima, anche di contrapposizione nazionale, che portò alla dissoluzione della federazione non fece che acuire il problema. Sono quegli immigrati ed i loro figli che oggi vengono definiti con disprezzo “čefurij”.
Vojnović, come fecero gli scrittori sloveni negli anni ottanta, mette il dito in una piaga. La sua è stata un’operazione ardita ed arrischiata sin dall’inizio. In una letteratura molto di maniera, dove lo sloveno letterario sembra regnare quasi sovrano, Vojnović ha dato dignità letteraria allo slang di Fužine. Probabilmente per molti che si vedono continuamente correggere a scuola i loro “serbismi” e “croatismi” la pubblicazione del suo libro è già di per sé una bella rivincita.
Il romanzo è ambientato ai giorni nostri. Marko ed i suoi amici vivono nella dimensione del loro quartiere e sentono l’estraniazione dal resto della società. Emarginazione, rapporti familiari disgregati, povertà, ma anche tanta umanità. Tutto condito con toni divertentissimi, che dipingono una società molto più variegata di quella dei cosiddetti autoctoni. Ne esce, però, soprattutto tanta rabbia. La rabbia ad esempio di vedersi storpiato il cognome, come d’altronde capita sistematicamente ai numerosi sportivi di origine non proprio slovenissima che fanno parte della nazionale, per trovarlo invece scritto molto correttamente quando compare citato in un articolo di cronaca nera. La rabbia insomma di essere considerati sloveni quando serve e “čefurij” nella vita di ogni giorno.
Il romanzo fa i conti con tutta una serie di stereotipi che esistono sui “čefurij”. Marko, del resto, ci spiega che è molto divertente apparire agli occhi degli sloveni più “čefur” di quello che si è in realtà.
La domanda che ci si pone quindi è quella del rapporto tra sloveni e non sloveni. La sensazione è che in questa periferia la realtà non è molto diversa da quella che può provare un magrebino della banlieue francese: francese di passaporto, ma forse non francese a tutti gli effetti.
Vojnović, però, pone anche una questione d’identità, in una società natale che non ti considera come una sua effettiva parte integrante e con una terra d’origine che è quella dei tuoi genitori e non la tua. D’altronde quando Marko, dopo un litigio con il padre, viene rispedito in Bosnia, lì viene semplicemente considerato un “Janez”, cioè uno sloveno.
In ogni modo in Slovenia agli scrittori è sempre stato assegnato un ruolo importante. Negli anni Ottanta erano i custodi della nazione e di fronte al regime chiedevano la democrazia. Chissà che oggi non sia proprio Vojnović con il suo libro a contribuire ad aprire una riflessione seria sul rapporto di quelli che si considerano autoctoni con i “nuovi” sloveni.