Belgrado - Daniele Dainelli
''Per loro le storie dei miei coetanei sulla lotta contro il regime di Slobodan Milošević sono come le storie sui partigiani che tempo fa raccontavano a noi''. I bombardamenti e la generazione che sotto i bombardamenti è nata, il non-detto, il futuro
Il 24 marzo ricorrono i dieci anni dall’intervento Nato sulla Repubblica federale di Jugoslavia. Dieci anni dopo ci ricordiamo, noi in Serbia, noi in Europa, perché è stata bombardata l’ultima Jugoslavia? Siamo a conoscenza delle conseguenze di quello che è accaduto e abbiamo imparato qualcosa?
Per l’anniversario del bombardamento della Nato a Belgrado si terrà un meeting in piazza della Repubblica promosso dall’associazione civica “Movimento popolare della Serbia”. “L’intento dell’incontro è di ricordare con dignità l’immeritata uccisione degli eroi della resistenza del popolo serbo durante la difesa della provincia meridionale del paese e di inviare al mondo un messaggio sull'autostima e dignità della Serbia contemporanea”, si legge nel comunicato stampa emanato dagli organizzatori. All’incontro interverranno note personalità pubbliche locali ed estere.
La Chiesa ortodossa serba, dal canto suo, ricorderà le vittime dei bombardamenti in tutti i luoghi sacri sia nel paese che all’estero con funzioni che prenderanno avvio - al suono delle campane - alle 18 e 45 del 24 marzo, quando cadde la prima bomba sul nostro paese. La Chiesa ortodossa organizzerà inoltre un incontro commemorativo al Sava centar, centro congressi di Belgrado.
Il Partito democratico della Serbia (DSS) ha chiesto all’amministrazione di Belgrado di intitolare una via o un boulevard della città a tutte le vittime del bombardamento. I radicali e altri custodi della serbitudine organizzeranno un momento di ricordo nel giorno in cui si sentì la prima sirena di allarme.
Speriamo che almeno sia tutto tranquillo. E' quello che penso sempre quando tutti quelli che rovinano Belgrado con l’intento di attirare l’attenzione sulle ingiustizie commesse ai danni dei serbi e della Serbia invocano incontri “pacifici e dignitosi”.
Non sono sicura di voler essere in Serbia il 24 marzo. Mi prende un crampo allo stomaco quando penso a quella data. Non so se ho più vergogna di quelli che organizzano i meeting e le preghiere, gli incontri commemorativi, di quelli che sfruttano quella data per sottolineare come la Serbia ogni giorno sia soggetta ad una punizione ingiusta, quei cosiddetti partiti politici di destra e sedicenti patrioti e movimenti patriottici che cercano così di aggiudicarsi un altro facile punto politico. O di quelli che se ne stanno zitti sul bombardamento, di quelli che non hanno niente da dire, di quelli che porteranno i fiori sulle tombe delle vittime del bombardamento della sede della Radiotelevisione della Serbia. Ma non mi sento vicina nemmeno a quelli che dicono che la Serbia se lo è meritato e che il bombardamento è stata una buona lezione.
Non condivido nemmeno il fatto che né in Serbia, né nell’Europa verso la quale miriamo, si sia aperto un dialogo sul bombardamento. Non c’è discussione su quanto l’intervento della Nato abbia modificato l’immagine della Serbia moderna e sui cambiamenti generali del paese e della società che ha implicato. Non c’è nessuno che ritenga utile parlarne.
Nessuno oggi in Serbia presta attenzione alle rovine di edifici e ponti di Belgrado, Novi Sad o altri luoghi del paese. A dire il vero nessuno le nota. Sono una parte di noi, come se fossero lì da secoli, tali e quali. Ma non sono importanti gli edifici, e nemmeno il loro valore simbolico, importanti sono le ferite nella società che non possono guarire se su di esse si tace, né svaniranno perché abbiamo paura di aprire quel capitolo, così come tutti i capitoli del nostro recente passato.
Noi oggi in Serbia ci chiediamo che ne è dell’aggressione che attraversa tutti gli strati della società, con un sistema di valori altalenante, con la criminalità e l’arroganza che regnano sovrane. Che ne sarà di tutte quelle generazioni di giovani che si sono formati sotto le bombe e dopo le bombe. Si tratta di persone che non ricordano affatto perché la Serbia è stata bombardata, ma ricordano bene che i loro genitori scappavano negli scantinati e che i proiettili degli aerei invisibili fischiavano sopra le loro teste. E ricordano Šizela e Mirela, le sirene che segnavano l’inizio e la fine del pericolo aereo. Ci sarà qualcuno, il 24 marzo, che parlerà di loro, di queste generazioni, generazioni forse smarrite per sempre, per le quali il nome di Slobodan Milošević non significa nulla?
Per loro però è importante il Kosovo. Molti giovani, oggi, gridano che il Kosovo è la terra santa della Serbia, che è stato ingiustamente tolto alla Serbia, molti ripeteranno che la Serbia è stata bombardata perché “quelli là”, gli “aggressori”, i “nemici della Serbia”, gli “ingiusti”, i “creatori del nuovo ordine mondiale” hanno voluto ad ogni costo sottrarre alla Serbia la sua culla, la sua parte insostituibile.
Cosa sanno loro del Kosovo? Tutto e niente. Loro crescono e si formano sotto il peso del nuovo mito del Kosovo. Loro non sanno e non ricordano le guerre in Bosnia e Croazia, per loro le sanzioni non significano proprio niente, per loro le storie dei miei coetanei sulla lotta contro il regime di Slobodan Milošević sono come le storie sui partigiani che tempo fa raccontavano a noi. Interessanti, ma lontane. Per loro la vita inizia proprio là dove sono iniziati i bombardamenti.
Sono arrabbiati. Sono anche frustrati e prigionieri. Soprattutto confusi. Imparano che l’Europa è la loro casa, ma non riescono a razionalizzare perché quell’Europa li ha bombardati, non capiscono la differenza tra un caso speciale e il diritto internazionale, si sentono come se fossero sempre puniti per qualcosa con cui non sono riusciti ad avere a che fare. Sono cresciuti sotto l’aggressione, ed esprimono aggressività. Urlano durante il meeting contro la dichiarazione di indipendenza del Kosovo, senza troppi pensieri buttano sassi contro le ambasciate di quei paesi nemici della Serbia, rubano scarpe da ginnastica dalle vetrine frantumate dei negozi di Belgrado, perché anche questa è una dimostrazione dell'inaccettabilità dell’indipendenza del Kosovo. A dire il vero è l’espressione dell’impotenza. Del non sapere discutere e dibattere su questi temi.
La colpa non è loro, la colpa è nostra. Noi stiamo zitti. Non sappiamo come “guarire” dai bombardamenti. Ce lo siamo “meritati”? Le bombe possono portare la pace? Cosa abbiamo imparato? Cosa è la Serbia oggi? Quale è la sua identità?
Diciamo che il nostro posto è in Europa e nell’Unione europea. Così la pensa il 60 percento dei cittadini della Serbia. Ma il nostro posto non è nella Nato. Solo il 20 percento dei cittadini appoggia l’ingresso della Serbia in questa alleanza.
I motivi di certo sono noti a tutti. E saranno del tutto evidenti il 24 marzo 2009. Ma né allora né nell’immediato futuro mi aspetto che si parli apertamente del bombardamento della Serbia, ne qui né in Europa. Su tutto ciò è più facile tacere. Come se nulla fosse successo.