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L’inevitabilità dell’intervento

24.03.2009    Da Belgrado, scrive Lucia Manzotti

Sonja Biserko
Milošević riteneva la NATO non sarebbe intervenuta, la comunità internazionale pensava l'intervento armato sarebbe durato solo qualche giorno. ''Entrambe le parti ebbero delle percezioni sbagliate su cosa sarebbe accaduto". Un'intervista a Sonja Biserko presidente dell’Helsinki Committee di Belgrado
“L’intervento Nato? Lo abbiamo visto arrivare in modo chiaro, non era questione di essere a favore o essere contro: era inevitabile. Per me lo shock vero fu la guerra in Slovenia, quella alla fine più breve e innocua, ma per la nostra generazione fu il vero colpo. Dopo ci fu la Croazia, la Bosnia, il Kosovo… si trattò per noi solo di assistere ad un’escalation che portò all’intervento della Nato”. Sonja Biserko è presidente dell’Helsinki Committee for Human Rights di Belgrado, ed è una di quelle attiviste dei diritti umani – assieme a Nataša Kandić, Staša Zajović, Borka Pavićević, Biljana Kovačević Vućo - che periodicamente vengono additate dalla stampa come traditrici del proprio popolo, spie, streghe, e che per le loro posizioni radicalmente anti-nazionaliste rischiano assalti fisici da gruppuscoli di estremisti ed in genere vengono mal sopportate dalla maggior parte dei loro connazionali. Le chiediamo una lettura dei bombardamenti di dieci anni fa sulla Serbia.

Come era lo stato del movimento dei diritti umani all’epoca?

Possiamo parlare di quello che succedeva pochi mesi prima che il conflitto effettivamente avesse luogo. Noi eravamo presenti come Helsinki Committee in Kosovo per creare occasioni di dialogo tra serbi e albanesi, quindi ci andavamo di frequente. Le minacce di intervento iniziarono a partire dal maggio 1998 e si poteva immaginare chiaramente cosa sarebbe successo. La leadership serba stava giocando con la comunità internazionale, Milošević pensava che all’interno dell’Alleanza sarebbe mancata l’unità necessaria e che avrebbe potuto sconfiggere la Nato in termini di credibilità.

Ad ottobre ci fu il conflitto ad Orahovac, nel quale l’Uck dovette ripiegare, quindi arrivò la missione dell’Osce e ci fu il tentativo di trovare un accordo, che Milošević fece crollare. La delegazione serba a Rambouillet alla fine non prese in considerazione nessuna delle opportunità che venivano messe sul piatto per discutere un accordo. Dissero in seguito che non volevano accettare l’annesso militare del piano di pace perché avrebbe portato ad un’occupazione del nostro territorio, che non era vero: si trattava solo di permettere alla Nato di passare attraverso la Serbia. E quando arrivò il momento, dopo l’episodio di Račak (uccisione di 40 civili albanesi da parte dell’esercito serbo, gennaio 1999, nda), la comunità internazionale si rese conto che non c’era altro modo di trattare con la leadership serba e l’intervento iniziò. La comunità internazionale sperava che sarebbe durato pochi giorni. Entrambe le parti ebbero delle percezioni sbagliate su cosa sarebbe accaduto.

Da parte della Nato l’intervento non fu preparato in maniera molto intelligente, durò troppo e nessuno aveva previsto tanta resistenza da parte di Belgrado. Milošević, da parte sua, era convinto che la Russia sarebbe entrata in campo a favore della Serbia e dimenticò che già nel 1992 gli Usa avevano avvertito che se avesse toccato il Kosovo ci sarebbe stato l’intervento. Il Kosovo è un luogo strategico per i Balcani e per la Nato, toccare il Kosovo vuol dire portare il conflitto in Macedonia e negli stati vicini..

Dal suo punto di vista Milošević voleva stabilizzare il Kosovo?

Dossier 1999-2009. Dopo le bombe
In realtà lui voleva la divisione del Kosovo e della Macedonia (che considerava come Serbia meridionale). Bisogna avere in mente quale era il programma nazionale quando la Serbia iniziò tutto questo e anche come ragionava la comunità internazionale: in Bosnia l’idea era che il conflitto avrebbe potuto essere contenuto, mentre in Kosovo si pensava che avrebbe coinvolto tutti gli stati vicini, inclusi Albania, Turchia, Grecia. E durante l’intervento la Serbia cercò di cacciare tutti gli albanesi per dividere il Kosovo, solo quando la Kfor arrivò si ritirò.
La sentenza che ha condannato recentemente, all’Aja, i sei ufficiali della Serbia di Milošević, mostra chiaramente come l’intervento fosse in un certo modo legittimo.

Potrebbe essere una sorta di giustificazione ex-post del bombardamento?

Qui in Serbia è stata letta così, ma quando si guarda a cosa stava accadendo allora sul terreno era piuttosto chiaro che Milošević volesse cacciare gli albanesi.

Prima di tutto fu tolta l’autonomia alla provincia nel 1990, nel 1991 iniziarono le richieste per avere lo status di repubblica, ma la leadership serba aveva altri piani che andavano verso un accentramento di tutta la ex Jugoslavia. Non ci riuscirono ma rimossero l’autonomia di Kosovo e Vojvodina: oggi il Kosovo è indipendente e la Vojvodina di nuovo sta chiedendo questa autonomia. Non fu capito il processo in atto che andava verso l’autogoverno, l’emancipazione di ognuno dei popoli balcanici, anche dei serbi. E adesso ci confrontiamo con gli stessi problemi: c’è una classe politica che si oppone a qualsiasi regionalizzazione e decentramento. Il problema è il concetto serbo di Stato.

Lei all’epoca cosa pensava dell’intervento?

Io pensavo che fosse inevitabile. L’ho visto arrivare. Milošević voleva far vedere che poteva giocare con le grandi potenze, un piccolo paese come il nostro... non era possibile! Poi se aveva ragione o no è un’altra questione ma in questo caso non l’aveva.

E riguardo alla mancata approvazione da parte dell’Onu dell’intervento?

Questo significa che il mondo si sta muovendo e che c’è bisogno di una riorganizzazione dell’Onu. Noi siamo stati il primo caso in cui si sono violate delle regole per creare nuove regole. Anche quando si dice che il Tribunale penale internazionale non fu creato dal Consiglio di sicurezza e quindi non è legittimo: la legge internazionale si basa spesso su precedenti che dopo diventano legge. Ma quando c’è un circolo vizioso allora bisogna interromperlo e creare nuove regole.
Poi, certo, se si guarda all’Iraq l’intervento non fu pianificato così bene. Non è una questione semplice, ma in Serbia sicuramente fu giustificato e prevenne l’allargarsi del conflitto.

Qual è la memoria pubblica dell’intervento?

L’élite serba tratta l’intervento come se fosse venuto all’improvviso senza ragione. È un modo di creare un vittimismo basato sul nulla. Quando si parla dell’intervento se ne parla sempre come se fosse stato il mondo intero a combattere la Serbia, senza che questa avesse fatto nulla prima dell’intervento. In un certo senso era una buona copertura per quello che avevamo fatto in Bosnia, in Croazia e in Kosovo.

Srebrenica non compare nella memoria pubblica, mentre l’intervento Nato è usato ampiamente.

Anche se ora c’è la sentenza dei 6 funzionari che ribalta anche quello che successe durante il processo Milošević, che qui all’epoca fu totalmente ridicolizzato. Per il processo all’ex presidente erano state raccolte un sacco di prove, che sono state utilizzate anche in quest’ultimo processo contro Nikola Šainović e gli altri. Questa è la sentenza più seria mai emessa perché mostra il coinvolgimento della leadership politica e militare nella pulizia etnica degli albanesi. Riflette le responsabilità di Milošević, ma raffigura anche come il potere di allora fosse molto simile ad un’impresa criminale.

E secondo lei che cosa pensano i giovani di tutto questo passato?

Il problema dei giovani è che sono cresciuti con un modello, con una verità. Quelli della mia generazione c’erano, sanno quello che è successo. Possiamo negarlo, ma lo sappiamo. I giovani sono frustrati e cresciuti con l’idea che sono stati bombardati dal mondo. La leadership ha una strategia di negazione molto ben organizzata, dall’altra parte ci sono così tante prove, documentazioni, film, libri… ma è molto duro per la società accettare quanto è successo soprattutto se lo Stato non fa nessun tipo di gesto in questa direzione. Noi (ong) organizziamo, scriviamo, ma è importante che le istituzioni dicano qualcosa e che quello che è successo diventi una verità ufficiale, così come dovrebbero farlo in ambito scolastico e nei media. È un processo molto complesso e prenderà molto tempo, ma sarebbe importante per la Serbia fare un riesame del passato.

Come legge rispetto a questo lo slogan del governo sì al Kosovo e sì all’Ue?

Vuol dire né l’uno né l’altro. È difficile che la Serbia riconosca il Kosovo in breve tempo, e l’Unione europea se ne rende conto. Dall’altra parte non possiamo rimanere come un’isola in mezzo ad una regione dove tutti guardano all’Europa come unica vera alternativa. Anche se la crisi mondiale sta cambiando un po’ le cose. È evidente che la Russia non può aiutarci. La Serbia sta aspettando soldi dall’Ue e chiede soldi al Fondo monetario internazionale dove gli Usa e l’Ue sono i maggiorenti. Ci sono quindi dei segnali di presa di coscienza sul fatto che non possiamo andare avanti da soli senza l’Europa. Del resto le apparteniamo geograficamente.

Un ricordo personale del bombardamento.

Io sono stata qui solo le prime tre settimane dell’intervento, ma le prime settimane il nostro ufficio era aperto e venivamo qui normalmente. L’unica cosa è che eravamo ridotti al gossip, non c’erano informazioni, solo voci. Però era abbastanza chiaro quali fossero gli obbiettivi e che la gente non era tra quelli, quindi anche per questo fu possibile per il regime organizzare le adunate sul ponte, le dimostrazioni giornaliere in piazza della Repubblica. I miei amici stavano chiusi in casa a vedere la tv tutta la notte aspettando che finisse, la socialità era ridotta a piccole enclaves.

Ma una cosa che non mi scorderò mai è il giorno in cui iniziarono. Tornavo da Parigi dove avevo incontrato Wolfgang Petritsch uno dei negoziatori di Rambouillet che mi disse “Sono pazzi! Le negoziazioni si interromperanno e ci saranno i bombardamenti”. Era lunedì. Tornai a Belgrado e il mercoledì partecipai ad un meeting in centro che durò tutto il giorno: si trattava del Forum per le relazioni internazionali, una ong di ex diplomatici e giornalisti che discutevano sulla situazione attuale e che affermavano che non ci sarebbe stato alcun intervento. Quando uscimmo, alle otto di sera, le persone correvano per strada, chiedemmo cosa era successo la risposta fu “ci stanno bombardando”. Io ero con un'altra donna ci imbattemmo in un tizio che ci disse “beh questo è quello che ci aspettavamo”. Io e questa signora ci mettemmo a bere coca cola in un piccolo bar, la gente era sconcertata. Poi ci salutammo, andai a prendere il bus ma non ce n’erano più anche se erano solo le nove. Non c’erano taxi e io vivo lontano dal centro. Alla fine arrivò un bus che stava raccogliendo le persone attraverso la città, entrai e c’era quest’uomo ubriaco che diceva “i russi arriveranno!” Il giorno dopo nel pomeriggio il figlio di una mia cugina, di dodici o tredici anni, profugo dalla Croazia, arrivò in ufficio e mi disse “Ora tu mi mandi da qualche parte io non voglio stare qui”. Quindi un’altra profuga di Croazia che lavorava nel nostro ufficio lo prese e lo portò in Bosnia, dove si rifugiò con la sua famiglia. E naturalmente c’erano molti giovani che non volevano andare sotto le armi che si riversavano sui confini: Bosnia, Ungheria.

Lei se ne andò per i bombardamenti o per il regime?

Per il regime, avevo scritto un articolo poco prima dal titolo: “La Nato è l’unica soluzione per la regione”. Si può immaginare. Non avrei lasciato Belgrado ma c’erano degli amici che facevano molta pressione perché me ne andassi ed in effetti eravamo molto esposti sulla questione Kosovo.

Si è mai sentita in colpa di non essere qui?

No, perché avrei dovuto? Sono situazioni in cui non puoi giudicare gli altri. Certo c’è chi ti rinfaccia di non essere stato qui mentre “noi soffrivamo”. Ma che vuol dire? E allora la Bosnia? E tutto il resto? C’è questa memoria selettiva focalizzata solo sull’intervento. Per me la minaccia più forte dal punto di vista emotivo fu la guerra in Slovenia, perché non me l’aspettavo: una piccola guerra di otto giorni e io ero scioccata. I miei colleghi sloveni del ministero degli Esteri, dove lavoravo allora, furono cacciati insultati, e poi accadde con i croati, e con i bosniaci dopo. È stata un’escalation, lo shock fu all’inizio.
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