“Mamma, mamma, cos'è questo rumore terribile?” La paura di Marta, 5 anni, al suono delle sirene d'allarme che riecheggiano nella parte settentrionale di Mitrovica il pomeriggio del 24 marzo 2009. Come molti altri bambini di questa città, non sa che la sirena cittadina ricorda ai suoi abitanti la primavera del '99, quando la Nato bombardò quella che al tempo era la Federazione Jugoslava.
“E' un suono che non riesco a sopportare. Dovunque e in qualunque momento io senta la sirena, così come il rumore di un aereo, mi tornano quella stretta allo stomaco e quella paura che ben conosco”, afferma Teodora Lakić, 39 anni, una dei partecipanti alla marcia pacifica con cui i cittadini di Mitrovica e di altri comuni del nord del Kosovo hanno celebrato il decimo anniversario dei bombardamenti.
Hanno marciato circa un migliaio di persone; dopo la commemorazione religiosa delle vittime dei bombardamenti e dell’azione dell'UCK [Esercito di Liberazione del Kosovo, ndt] davanti al monumento ai caduti, sul ponte principale sul fiume Ibar, si sono diretti al vicino comune di Zvečan, dove hanno organizzato una manifestazione di protesta. Il ritrovo è stato fissato alle 12.44, orario simbolico per richiamare l’attenzione della comunità internazionale al rispetto della risoluzione ONU per il Kosovo.
“Quella primavera sentii centinaia di volte la sirena. Gli aerei sorvolavano i tetti delle nostre case. La sirena suonava ogni mezz'ora o ogni ora per indicare l'inizio e la fine dei bombardamenti, e gli aerei volavano sempre più basso e più spesso. Avevo l'impressione che avrebbero continuato a volare senza sosta sopra di noi e che in qualsiasi momento avrebbero potuto colpire la mia casa”, racconta con un filo di voce Teodora, mentre attraversiamo la via principale, in un silenzio inconsueto per le strade solitamente affollate del mezzodì di Mitrovica.
“Impietrisco ogni volta che sento il rumore di un aereo. Si diceva che avrebbero colpito la centrale di polizia della città, e la mia casa si trovava poco lontano da lì. Hanno colpito spesso obiettivi di Mitrovica e delle zone circostanti: case, basi militari, la caserma principale, trasmettitori e infine, a inizio maggio, la centrale della polizia. Lì persero la vita dei civili, enormi blocchi di cemento piombarono su un parco giochi lì vicino. Un'esplosione spaventosa, infranse i vetri delle nostre finestre, il cortile era pieno di macerie”, racconta Teodora.
Mentre camminiamo verso Zvečan, mi fa segno, in direzione dell’Ibar, ai tetti delle case dietro ai rifiuti industriali sulle sponde del fiume: “Vedevo le bombe piovere sul paese natale di mio padre e i boschi che per giorni hanno continuato a bruciare. Mi ricordavo i racconti di mia nonna che, sulla stessa montagna, lo aveva salvato dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale. In quell’istante ho capito veramente la frase che spesso ripetono gli anziani, ‘la storia si ripete’. Ero triste, sottomessa e indifesa. Mia figlia al tempo aveva sei anni. Ricordo l’impotenza, la sensazione peggiore per un genitore che non può proteggere il suo bambino”, continua a raccontare questa donna di Mitrovica.
“Ci rinchiudemmo nel seminterrato. Insieme ad altre famiglie vivemmo lì sotto 78 giorni, dormendo su materassi che posizionammo sui tavoli e per terra. Era buio e faceva freddo, non avevamo molto cibo”.
“Ho condotto la mia guerra personale e psicologica, alle prese con dilemmi che oggi sembrano banali, come ad esempio separarsi o meno dieci minuti dalla propria figlia e allontanarsi per prendere un po’ d’acqua calda o per preparare la cena; mettere il letto vicino alla finestra per riuscire a far uscire la bambina nel caso fossimo stati colpiti, oppure metterlo al riparo nella parte più interna della cantina. Mi sentivo più sicura a dormire lontano dalla finestra e dalla luce. Ricordo che fu una primavera bellissima, con delle belle giornate di sole, un cielo limpido e una bella fioritura. Avrei portato volentieri mia figlia a giocare all’aria aperta, e lei avrebbe giocato in cortile, ma sarebbe corsa subito in cantina al primo rumore di aereo, presa dal panico”, racconta tutto d’un fiato Teodora, che continua coi suoi ricordi.
“Arrivò anche la polizia, fu un periodo pericoloso anche per i miei vicini albanesi. Gente tranquilla, famiglie, non li abbiamo mai importunati. Ancora oggi vivono al nord, nella loro casa. Una volta, durante i bombardamenti, arrivò un’unità in uniforme grigia ma senza alcuno stemma. Ordinarono loro di lasciare la casa. Non li maltrattarono né portarono via nulla. Li fecero uscire in strada e io, ancora una volta, mi sentii impotente e indifesa. Non entrammo in casa loro; qualche giorno dopo tornarono tutti. In seguito venni a sapere che li portarono allo stadio, a sud della città. Quando fecero ritorno, aspettarono in silenzio la fine dei bombardamenti, come noi, ma credo che per loro fu ancora più difficile. Tuttavia, quando i primi soldati francesi entrarono in città, i bimbi dei vicini albanesi se la presero con mia figlia, dicendo che la Nato era arrivata e che quindi ce ne saremmo dovuti andare dalla nostra casa”.
Entriamo a Zvečan, un paesino a 3 km da Mitrovica. Passa una bella ragazzina bionda e dice a Teodora che anche lei è lì tra la gente in marcia, insieme alle sue amiche e ai suoi compagni di classe. Sua figlia è una giovane allegra e non si ricorda molto dei bombardamenti, ma rispetta la tragicità dell’evento. Teodora vuole che resti così. Attraversiamo il parco dove si tiene la manifestazione e qui ci dividiamo, Teodora si ritrova con le sue colleghe di scuola. Dalle macchine aperte, parcheggiate lì vicino, la radio fa sentire ancora la sirena. Nell’edizione speciale del programma radio, la giornalista Desa Milosavljević ricorda agli ascoltatori le tragiche statistiche delle vittime civili della primavera del ’99.
Più tardi, per Osservatorio Balcani Caucaso, questa giornalista ha confessato che non è riuscita a contenere l’emozione quando ha sentito il suono della sirena. “Ricordo le prime terribili esplosioni della sera del 24 marzo, quando fu colpito l’edificio dell’area militare di Mitrovica, e il giorno seguente quando uscii in strada. Sotto shock calpestai i vetri dei negozi che erano stati distrutti. Tutti erano sconvolti... mi ricordo che i commercianti chiusero le serrande davanti alle vetrine. In un attimo mi comparve davanti agli occhi la scena del film ‘Via col vento’ quando, nella guerra civile americana, proteggevano le vetrine con delle assi di legno.
Desa si ricorda ancora gli scaffali vuoti nei negozi della città e la gente che viveva di provviste. Per i medicinali si andava nella vicina città di Raška, nella Serbia centrale. “Quando una volta mi recai a Raška a prendere dei medicinali, al mercato vidi mele e carote, e provai una gioia indescrivibile. Fu una splendida primavera, e il cibo fresco sfidò i tempi difficili”, racconta turbata.
“Coloro che volevano vedere cos'è un bombardamento, lo hanno visto anche allora, quando sono cadute le prime bombe. Fu pura violenza, allora come adesso. In seguito, con l'arrivo delle forze internazionali e dei funzionari, pensavamo che ci avrebbero protetti, ma ciò non è accaduto, anche se avevamo vissuto dei momenti orribili”, sottolinea Desa, e aggiunge: “la Nato ci ha colpito con le bombe, ci ha punito, e dieci anni più tardi premia i kosovari albanesi dando loro uno stato indipendente. I serbi sono relegati in zone circoscritte, senza corrente, acqua e diritti; oggi sono cittadini di second'ordine!
Desa riconosce che il momento in cui ha visto di persona Xavier Solana è stato particolarmente difficile: “Un tempo, qualche anno dopo la guerra, sono stata impiegata nell'organo del governo serbo per il Kosovo. Era il periodo in cui i serbi partecipavano ai lavori delle istituzioni kosovare temporanee, tentando di cooperare con gli albanesi. Durante la visita di Xavier Solana nella regione, gli ho stretto la mano cortesemente, e subito mi è venuta in mente l'immagine delle stesse mani che schiacciano i pulsanti per sganciare le bombe sul mio popolo. Non dimenticherò mai il contatto con quelle mani secche. Per il popolo serbo Xavier Solana resterà sempre sinonimo di bombe e cattiveria”.